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domenica 27 settembre 2015

IL GUARDONE


Don Saverio era un guardone. Intendiamoci, il prete non era uno di quei tipi che frequentano, di notte, i vicoli bui spiando le coppiette che amoreggiano, e neppure uno di quelli che si nascondono dietro i cespugli dei giardinetti appagandosi degli slanci di passione altrui. No, don Saverio era un puro esteta, e la sua ricerca della perfezione armonica era rivolta sempre e soltanto all’osservazione di quelle creature che, nel corso della sua vita, non aveva avuto modo di conoscere bene: le donne.
Per esercitare in tutta tranquillità il suo piccolo passatempo (o vizio?) don Saverio non doveva andare molto lontano, poiché il suo punto di osservazione era un confessionale. Al mattino, dopo aver fatto una frugale colazione e aver detto messa, il prete si infilava in quel vecchio arredo e non si muoveva più per tutto il giorno, rinunciando perfino al pranzo. Suppliva a ciò portando con se’ una pagnotta di pane e un po’ d’acqua. Su una parete del confessionale, in direzione dell’unica navata della chiesa, era stato praticato un minuscolo foro, al quale spesso don Saverio appoggiava l’occhio per sbirciare scrutare osservare. Avanzando di età il prete era diventato un po’ duro d’orecchi ma i suoi occhi potevano ancora rivaleggiare con quelli di un falco. Naturalmente la lunga permanenza all’interno del confessionale presentava alcuni inconvenienti, ai quali don Saverio aveva cercato in qualche modo di porre rimedio. Aveva supplito alla durezza del sedile ricoprendolo con un paio di cuscini di soffice piuma d’oca. Il prete era molto magro e il suo posteriore soffriva per l’immobilità; la morbidezza dei cuscini alleviava in gran parte tale afflizione, mentre per il dolore causato dalle emorroidi non c’era niente da fare: occorreva soffrire e basta. A volte don Saverio lasciava di corsa il confessionale per recarsi in bagno. Dopo alcuni minuti, però, era già di ritorno, sempre di corsa perché non poteva correre il rischio di lasciarsi sfuggire qualche visione particolarmente interessante.
L’unico a essere un po’ sorpreso per lo strano comportamento del prevosto era il sacrestano, che riusciva a vedere di sfuggita don Saverio unicamente al mattino, per incontrarlo di nuovo soltanto la sera quando andava a sbarrare il portale della chiesa e il prete finalmente usciva dal suo sacro nascondiglio. In ogni caso il buon Firmino non faceva mai commenti, anche perché era muto.
I parrocchiani, invece, erano entusiasti del comportamento del loro prevosto.
“Se qualcuno deve confessarsi d’urgenza, don Saverio è sempre pronto” diceva qualcuno.
“Quando non c’è nessuno che si confessa don Saverio prega, prega e prega” aggiungeva qualcun altro, convinto che qualcuna delle interminabili preghiere del prete fosse anche per lui.
In realtà, quando in chiesa non c’era nessuno, don Saverio un po’ si annoiava. A volte si appisolava, per svegliarsi però all’improvviso tutte le volte che sentiva cigolare la porta della chiesa, subito pronto ad aguzzare gli occhi.
D’inverno la chiesa, non riscaldata, era molto fredda. Il prete combatteva la rigidità del clima indossando più strati d’indumenti, tanto che faticava ad abbottonarsi l’abito talare. In estate era comunque peggio. L’angusto ambiente era torrido e si faticava a respirare. Don Saverio, nel buio del confessionale, di frequente si toglieva la veste e rimaneva in camicia e pantaloncini, dai quali spuntavano le sue gambette bianche.
A questo punto ci si chiede se, nel tempo, tali e tanti patimenti di don Saverio fossero stati ripagati in maniera soddisfacente. La risposta purtroppo è no. La chiesa non era molto frequentata, a volte passavano giorni senza che qualcuno vi entrasse. L’eccezione, naturalmente, era rappresentata dalle messe quotidiane, dai rari matrimoni e dagli ancora più rari battesimi. Quelle cerimonie, però, non davano allo spirito guardone di don Saverio alcun compiacimento. In quei casi le donne c’erano, eccome se c’erano! E pure giovani e, in alcuni casi, molto belle. Ma il prete non le degnava di uno sguardo, per lui era come se non esistessero. Non c’era alcun gusto, nessuna compiacenza, a osservare una donna in maniera scoperta. Anzi, in quei momenti desiderava non essere lì ma nascosto nel suo rifugio buio, con l’occhio incollato al foro. Soltanto in quel modo avrebbe provato vero appagamento guardando quelle creature giovani e meno giovani dai vestiti multicolori, con gli occhi pittati e le labbra vermiglie.
Un giorno di primavera, udendo il familiare cigolio, don Saverio si svegliò di soprassalto. Con tutte le ossa doloranti per la scomoda posizione assunta durante il sonno, si sbrigò a incollare la fronte in corrispondenza della magica aperura. Come per miracolo i suoi occhi furono allietati dalla visione di una giovane donna. Doveva avere trent’anni, non di più. Il suo atteggiamento sembrava quello di una turista. Avanzava lentamente lungo la navata, guardandosi attorno, ruotando su se stessa, alzando il capo verso la volta affrescata. Era alta, molto alta, di sicuro era tedesca, o svedese, o finlandese. Insomma, era bionda, molto bionda. Ciò che meravigliò il prete fu il suo abbigliamento. La ragazza (la donna) indossava una leggera camicetta senza maniche, alquanto sbottonata, e un paio di pantaloncini corti e attillati, dai quali spuntavano gambe lunghe e abbronzate. Non si dovrebbe entrare in chiesa così conciati, pensò don Saverio, ma subito rimosse quel pensiero molesto e tornò a concentrarsi sulla stupenda e inaspettata visione. Iniziò a scandagliarla centimetro per centimetro, partendo dalle sottili caviglie, risalendo la curva dei polpacci, soffermandosi sulle sinuose ginocchia, avanzando lungo la coscia tornita…
Don Saverio trasalì. Aveva sentito un rumore accanto a lui. Qualcuno si era inginocchiato all’esterno del confessionale, qualcuno che voleva confessarsi. Il prete fu colto dal panico. Non imprecò, poiché era un prete, ma il suo disappunto fu totale. Subito percepì un intenso odore di dopobarba. Si trattava di un uomo, e don Saverio ne ebbe la certezza appena il penitente iniziò a parlare. Una voce profonda, di una persona non più giovane.
“Mi sente?” disse l’uomo.
Don Saverio non rispose. Aveva sentito a malapena ciò che l’altro aveva detto perché non riusciva a decidersi ad abbandonare l’osservazione in corso. Stava guardando il ventre della donna, in parte scoperto, si stava concentrando sul suo grazioso ombelico, che si intravedeva appena.
“Mi sente?” ripeté l’uomo.
Il prete, con un sospiro, si staccò da una parete del confessionale e si avvicinò all’altra, quella con la grata.
“Mi dica, mi dica…” disse distrattamente, per poi spostarsi di nuovo. Alla donna era caduto qualcosa a terra. Un pezzo di carta, forse. Lei si abbassò per raccoglierlo e don Saverio strabuzzò l’occhio, quello incollato al foro. Che vista celestiale!
“Mi ascolta?” disse l’uomo. Don Saverio sussultò e, ancora con il batticuore, seppure malvolentieri, tornò ai suoi doveri.
“Non ce la faccio, non riesco proprio a resistere” stava dicendo l’uomo.
“Eh? A fare che cosa?” disse don Saverio, che non aveva per niente seguito ciò che l’altro stava dicendo.
“Le donne. Mi piace spiarle guardarle osservarle a loro insaputa. Ne provo un piacere perverso, malsano, che prima o poi mi condurrà alla rovina. So che non riuscirò mai a smettere e ne sono molto addolorato. Sono un grande peccatore, padre, e non ne sono neppure pentito. Mi aiuti, per favore!” Subito dopo l’uomo iniziò a singhiozzare.
Don Saverio, impressionato, non disse nulla. Strinse il crocifisso che aveva al collo con entrambe le mani finché non sentì le ossa delle dita scricchiolare.

domenica 20 settembre 2015

MEMORY


Alfredo si alza e infila la giacca.
“Te ne vai?”
“Sì, devo proprio andare. Devo ancora sistemare alcune cose. Sai, il lavoro.”
“Lavoro! A quest’ora?” È quasi mezzanotte.
“È l’ora ideale per trattare alcune particolari faccende” risponde ammiccando.
Scuoto il capo. Io e Alfredo ci conosciamo da più di trent’anni, dai tempi dell’asilo. Se non per qualche breve periodo, non ci siamo mai persi di vista. Le nostre vite, tuttavia, sono alquanto diverse. Io faccio l’avvocato o, per meglio dire, lo schiavo in un grande studio legale. Lui invece ha lasciato presto la scuola e non ha mai avuto un lavoro fisso. Preferisce cambiare, dice, per avere sempre nuove motivazioni. In realtà vive alla giornata anche se i soldi non gli mancano mai. Il suo lavoro, spesso, consiste in traffici più o meno leciti, dei quali preferisco non conoscere nulla.
“Salutami Clara, quando tornerà” dice Alfredo mentre, di fronte allo specchio dell’ingresso, si sistema i capelli.
Eccolo, il perfido Alfredo! Clara è mia moglie e stasera è uscita con le amiche. Qualche ora fa, dandomi un bacio frettoloso, mi ha detto che sarebbe rincasata tardi. Fino a qualche istante fa ero tranquillo, adesso la velata insinuazione del mio amico ha scatenato la mia gelosia. In ogni caso cerco di non fare trapelare il mio stato d’animo mentre lo accompagno alla porta.
Lui all’improvviso si volta e inizia a frugare nella tasca interna della giacca. Estrae una bustina trasparente che contiene una minuscola pasticca arancione dalla forma a rombo. Me la porge.
“Dimenticavo, questa è per te” dice.
Alzo le braccia e indietreggio.
“No, ti ringrazio ma non la voglio. Ho chiuso con queste cose.”
Alfredo scoppia a ridere.
“Scemo, non è ciò che pensi tu. Mai sentito parlare di memory?”
Scuoto la testa, sospettoso.
“Non si tratta di una droga.”
“E allora che cosa sarebbe?” domando.
“È una sostanza nuova, piuttosto sorprendente, che tuttavia i veri tossici considerano pura merda perché non dà un vero e proprio sballo. Si rimane del tutto coscienti e permette…”
“Migliora la memoria?” lo interrompo.
“No, il suo nome è ingannevole.” Alfredo torna in salotto e si siede sul divano. Lo seguo.
“Questa pasticca consente di richiamare in maniera nitida ricordi che pensavamo scomparsi” inizia a spiegare il mio amico.
“Vale a dire?” domando, curioso.
“Innanzitutto dobbiamo fare una distinzione tra ciò che è memoria e ciò che è ricordo. La memoria è una specie di ricordo collettivo, condiviso, e può riguardare fatti ed esperienze che non abbiamo vissuto. Ad esempio tu hai memoria dei campi di sterminio nazisti senza essere stato un deportato. Esatto?”
“Sì” rispondo, ormai del tutto imbambolato dalla capacità affabulatoria di Alfredo. Pensare che l’avvocato sono io!
“Il ricordo invece concerne sempre vicende che abbiamo vissuto in prima persona. Il cervello umano immagazzina tutti gli eventi che ci hanno riguardato fin dalla nascita e li sistema in tanti piccoli cassetti. Tutto. Mi segui?”
“Certo.”
“Non sappiamo perché ma la maggior parte di questi cassetti, con il tempo, rimangono sigillati o, in alcuni casi, appena socchiusi. Sono inaccessibili, capisci? Oppure riusciamo a intravedere al loro interno soltanto qualcosa senza distinguere bene ciò che contengono.”
“Ho capito”.
“Ti ricordi come era vestita tua madre il giorno del tuo decimo compleanno?”
Sorrido.
“No di certo” dico.
“Con memory lo puoi fare.”
“Sul serio?”
“Te lo garantisco. Ho provato queste pasticche e ti assicuro che per un po’ mi sono divertito. Adesso ormai mi sono venute a noia e quindi ho pensato di offrirti l’ultima.”
“Mi assicuri che non è roba tossica?”
“Si.”
“E che non dà dipendenza?”
“Assolutamente sì. Provala.”
Mi voglio fidare di lui, anche se so che non dovrei. Prendo la pasticca, mi verso un bicchiere d’acqua e la inghiotto.”
“Occhio che fa effetto subito” dice Alfredo.
Su questo ha ragione. All’improvviso provo una strana sensazione. Come quando si osserva qualcosa con un binocolo e l’oggetto non appare a fuoco. Come quando si agisce sulla ghiera, ruotandola, e di colpo tutto appare nitido in maniera straordinaria. Cerco di concentrarmi su un ricordo a caso. Una reminiscenza che spesso richiamo alla mente ma che, tutte le volte che lo faccio, mi appare incompleta, difettosa. Il primo giorno di scuola! Mia madre, che indossa un tailleur grigio assurdamente fuori moda, mi lascia la mano. Mi trovo nell’atrio della scuola, circondato da tanti altri bambini. Ho un grembiulino nero che mi arriva alle ginocchia, entrambe sbucciate, un rigido colletto di plastica e un enorme fiocco azzurro. Mi guardo attorno, spaesato e impaurito, fisso la sguardo sulle pareti, dipinte di verde lucido e scrostate. All’improvviso qualcuno, da dietro, mi spintona. Qualcun altro mi spruzza qualcosa di appiccicoso sui capelli e, mentre porto le mani sulla testa, con uno strattone mi slega il fiocco. Proprio in quell’istante suona la campanella e un bidello ci accompagna in aula. Ci sediamo, io in prima fila. Entra la maestra. Ho sempre immaginato, negli anni trascorsi da allora, quella donna arcigna e severa come una vecchia, invece mi accorgo che è giovane. Non avrà neppure trent’anni ed è pure bella, anche se il suo sguardo è molto duro. Mi guarda e io arrossisco per l’imbarazzo.
“Tu!” sbraita, additandomi. “Come ti sei ridotto? Non ti vergogni? Dimmi il tuo nome!”
Apro la bocca ma non riesco a parlare. Tutti i miei compagni mi osservano. I miei visceri non riescono a reggere una simile pressione emotiva e mi lascio andare. Il mio compagno di banco si pizzica il naso con due dita. La maestra si alza, viene da me e mi costringe a fare altrettanto. Davanti a tutta la classe mi solleva il grembiulino e annusa. Il suo grazioso viso dalla pelle scura assume un’espressione disgustata. All’ultimo banco un bambino inizia a ridere sempre più forte. La maestra lo fulmina con lo sguardo. Non c’è dubbio, si tratta proprio di lui, di Alfredo, è lui che mi ha imbrattato i capelli e slegato il fiocco. L’umiliazione che devo subire è per colpa sua e mi assale una gran voglia di prenderlo a calci. Invece mi metto a piangere mentre la maestra mi accompagna al gabinetto strattonandomi.
Ritorno in me, ancora turbato. Davanti mi ritrovo lo sguardo divertito di Alfredo, stravaccato sul mio divano.
“Allora? Tutto bene?” dice, con la solita aria scanzonata. “Divertente, no?”
Mi alzo da seduto e mi avvicino a lui. Comincio a prenderlo a calci, sulle gambe, sul torace, sulla faccia. Lui mi guarda con occhi sbarrati dal terrore ma io non smetto finché non mi accorgo di una chiazza scura che si sta allargando sul cavallo dei suoi pantaloni.

sabato 19 settembre 2015

NEL CIELO


Non la vedo da cinque anni. Adesso è tornata, ed è qui di fronte a me. Sono sempre stato innamorato di mia cugina Lilla. Un amore senza speranza che non è mai stato ricambiato. Lei è più grande di me e non credo si sia mai accorta del mio folle e disperato interesse. Lilla si avvicina, mi abbraccia con trasporto, io mi incollo al suo corpo caldo. Poi ci stacchiamo e, sempre senza parlare, ci osserviamo.
Lilla è cambiata. È ancora più bella, tuttavia gli evidenti mutamenti un po’ mi disturbano. Ho l’impressione che sia più alta, le sue spalle sono più robuste. I suoi capelli, che prima erano scuri, adesso sono biondi.
“È così che li dobbiamo portare” dice, notando dove punta il mio sguardo. Sono le sue prime parole.
“Sono contento di rivederti” rispondo. Lei annuisce.
“Vieni, sediamoci” dico, e indico una panchina. Ci troviamo in un parco, all’insaputa dei nostri genitori. I miei, in particolare, non vogliono che io la veda. Non dopo ciò che ha fatto.
È quasi buio e nel parco non c’è più nessuno.
“Anche tu sei cresciuto” dice Lilla.
“Avrei voluto rimanere in contatto con te, ma non è stato possibile” dico.
“No, non è proprio possibile. Non ho mai sentito neppure papà e mamma. Si tratta di una regola che non prevede deroghe.”
“Perché lo hai fatto? I tuoi non erano d’accordo.”
Lilla si stringe nelle spalle, sorride.
“Non lo so” dice. “Ne ho avuto la possibilità, e l’ho fatto. Era un’occasione incredibile, che capita a pochi. Mi sembrava assurdo lasciarla sfuggire.”
La guardo.
“Tutto qui?”
“No, in realtà l’ho sempre voluto.”
“Già, era il tuo sogno, fin da bambina.”
“È vero, anche se allora mi sembrava qualcosa di impossibile. Invece quel sogno si è avverato.”
“E come è stato l'intervento?” domando. La mia voce è incerta. Mi ero ripromesso di non farle questa domanda ma non ho resistito. È tardi per pentirsi.
Lilla fa una smorfia. Forse ripensa al dolore e alla sofferenza che ha provato.
“È difficile per me parlarne. Sono stati momenti pieni d’angoscia. All’inizio credevo di non farcela, anche perché non sapevo più chi fossi. Mi sentivo un mostro. Poi, poco alla volta, mi sono abituata alla mia nuova condizione. Dopo sono iniziati i lunghi anni di studio e le esercitazioni pratiche. Quando l’ho fatto per la prima volta, anche se è stato un mezzo disastro, tutti i miei dubbi sono svaniti. Ero felice.”
Lilla sorride. Credo dica la verità e che sia davvero felice.
“E adesso? Che cosa farai?” chiedo.
“Non ci ho ancora pensato. Sai, per quelle come me le occasioni non mancano. Mentre frequentavo gli ultimi mesi all’Accademia ho ricevuto alcune proposte.”
“Sul serio? Quali?”
“Be’… testimonial in alcune importanti campagne pubblicitarie, sfilate di moda, televisione…”
“E l’esercito?” domando. Ho avuto la soffiata da mio fratello.
“Sì, anche l’esercito, anche se non dovrei dirlo. Vuoi ridere? Ho ricevuto una proposta di lavoro pure da un circo!”
“Un circo! Credevo non esistessero più.”
Lilla diventa seria all’improvviso.
“Ehi! Guarda che mi hanno proposto di fare l’acrobata, non il fenomeno da baraccone!” dice.
“Non l’avevo assolutamente pensato” dico, mentendo.
Lilla si sposta sulla panchina. Per lei non è molto agevole stare seduta.
“Adesso basta parlare di me, dimmi ciò che hai fatto tu in questi anni” dice.
“Io? Nulla, a parte la scuola.”
“Che cosa studi?”
“Geografia.”
Lilla scoppia a ridere.
“Non c’è più nessuno che studia geografia! No, scusami, sto scherzando.”
“Se avrò bisogno di qualche lezione sui venti potrò contare su di te?” chiedo, cercando di non mostrarmi offeso.
“I venti non hanno più segreti per me” dice Lilla.
Rimaniamo per alcuni istanti in silenzio. Avrei ancora tante cose da chiedere a Lilla ma sono un po’ bloccato. La nuova Lilla mi intimidisce.
“Per caso sei ancora innamorato di me?” chiede a bruciapelo. Avvampo, e c’è ancora troppa luce affinché la mia reazione passi inosservata.
“Ma…” balbetto.
“Non negare, l’ho sempre saputo che eri innamorato di me. Non ti ho mai assecondato perché ti consideravo ancora un bambino.”
“Avevo quindici anni…” La mia voce trema.
“Appunto, un bambino. Io ne avevo venti.”
“Vuoi dire che anche tu provavi qualcosa per me?” riesco a domandare.
“Qualcosa, sì.”
“E adesso?”
Lilla mi prende le mani.
“Adesso? Guardami bene, adesso tutto è cambiato.”
Annuisco sconsolato.
“Ti posso chiedere una cosa?” dico.
“Dimmi.”
“Lo faresti? Solo per me.”
Lilla scuote il capo. I suoi capelli mi sfiorano il volto.
“Le esibizioni sono proibite.”
“Pochi secondi, in cambio dell’amore che mi hai negato.” La mia è quasi una supplica.
Lilla mi scruta a lungo con i suoi stupendi occhi blu. Poi si alza in piedi e prende una breve rincorsa. Sento i suoi passi rapidi, accompagnati da uno strofinio di seta. Vedo Lilla che spiega le sue grandi ali bianche e che si libra nel cielo.


sabato 12 settembre 2015

COPRIFUOCO


Lo andarono a prendere alle prime luci dell’alba. Lui se lo aspettava, sapeva di avere trasgredito, tuttavia per qualche ora aveva sperato di averla fatta franca, come già era accaduto un paio di anni prima. Erano in due, ed erano grossi da far paura e di poche parole. Lo strattonarono, lo ammanettarono e poi lo trascinarono giù dalle scale, incuranti del fatto che non aveva opposto alcuna resistenza. Lo fecero sfilare tra i suoi vicini di casa che scuotevano il capo, increduli, combattuti tra commiserazione e condanna. Lo introdussero strattonandolo in una lunga automobile nera che partì sgommando. Lo condussero alla stazione di polizia, un tetro edificio situato in periferia, dove rimase quasi tre ore ad aspettare, seduto su una scomoda sedia e sempre con le manette ai polsi, sorvegliato da un agente che puzzava di cipolla. Finalmente lo accompagnarono nella stanza degli interrogatori, dove trovò ad aspettarlo due uomini senza divisa. Il primo, di corporatura robusta, completamente calvo e con lo sguardo cattivo, era sistemato dietro a una scrivania scura con il piano completamente sgombro. L’altro, secco e dall’aria patibolare, era quasi nascosto dietro al video del computer. Gli tolsero le manette, gli offrirono un bicchiere d’acqua. Il liquido, un po’ torbido, sapeva di marcio. Lo bevve ugualmente perché aveva la gola secca. Il poliziotto in divisa uscì e lui rimase in balìa dei due uomini.
“Io sono Ciop” disse quello calvo. “E lui è Cip” aggiunse indicando il compare. Poi sfilò da un cassetto della scrivania un unico foglio, sul quale comparivano delle annotazioni scritte a mano.
“Romeo Saltinbeni, che cazzo di nome” disse ridacchiando. La sua voce era bassa, catarrosa.
“Il reato di cui sei accusato non prevede la presenza di un avvocato durante il primo interrogatorio. Puoi scegliere se rispondere oppure no. Il tuo eventuale silenzio sarà considerato ammissione di colpa. Allora?”
“Scelgo di rispondere.”
“Bene. Che cosa hai fatto questa notte?”
“Niente, ho dormito.”
Ciop vibrò una gran manata sulla scrivania.
“Ragazzo, non ti conviene mentire. Abbiamo un filmato. Alle due e trentaquattro minuti le luci di casa tua erano accese, e lo sono state per dodici lunghi minuti.”
“È vero” ammise Saltinbeni chinando il capo.
“Perché lo hai fatto?” lo incalzò Ciop.
“Un bisogno fisiologico.”
“Che cosa? Parla più forte, cazzo! Cip deve verbalizzare.”
Saltinbeni si schiarì la gola.
“Dovevo pisciare” disse.
Ciop scoppiò a ridere in maniera sguaiata.
“Dovevi pisciare!” ripeté. “Quindi vorresti dire che tu preferisci fare vent’anni di galera piuttosto che pisciare nel letto?”
“Mi disgusta pisciare nel letto. La vescica mi scoppiava, mi sono dovuto alzare.”
Ciop lo scrutò a lungo prima di parlare.
“Perché non ti sei alzato al buio?” domandò.
“Non lo so, è stato un riflesso condizionato. E poi non riesco a muovermi per casa al buio.”
“Ah! Perché non riesci a muoverti per casa al buio e non, invece, perché è proibito alzarsi.”
“Non volevo dire questo.”
“Però lo hai detto.”
Ciop sospirò.
“Sei nei guai, ragazzo. Dunque, ricapitoliamo: tu accendi la luce della stanza da letto, quella dell’ingresso e infine quella del bagno.”
“Sì”.
“E raggiungi la tazza e inizi a pisciare. Dico bene?”
“Sì.”
“E rimani per ben dodici minuti con il tuo minuscolo uccello in mano.”
“No, ho fatto ciò che dovevo fare e poi mi sono lavato le mani” disse Saltinbeni, che era sempre più pallido in volto.
Ciop scoppiò di nuovo a ridere.
“Ehi! Cip, hai sentito? Questo frocetto è un maniaco dell’igiene!”
Cip sogghignò e poi riprese a picchiare sulla tastiera. Il compare ritornò serio di colpo e assunse un’espressione truce.
“E poi? Che cosa hai fatto dopo? Dal filmato si vede accendersi anche la luce del soggiorno. A quel punto il tuo appartamento era ormai simile a un fottuto albero di Natale! Che cosa credevi di fare, piccolo stronzo?”
“Mi è venuta voglia di bere un bicchiere d’acqua, e l’ho fatto” disse Saltinbeni.
“Non potevi aspettare il mattino, come fanno tutti?”
“Non ci ho pensato. Ormai ero alzato e…”
“Sei un coglione, Romeo Saltinbeni, e sei in guai grossi come una casa” lo interruppe Ciop.
“Mi spiace…” tentò di dire il ragazzo.
“A me non spiace affatto” disse l’altro, compiaciuto. “E poi, che cosa hai fatto? Dopo che ti sei abbeverato, intendo” aggiunse.
“Ho spento le luci e sono tornato a dormire.”
“E dopo aver commesso un tale crimine tu sei riuscito a dormire tranquillamente?”
“No, non sono più riuscito a prendere sonno. Avevo paura.”
“E lo credo! Se hai detto la verità, pur applicando tutte le attenuanti, te la caverai con una quindicina d’anni di gabbio, altrimenti…” Ciop lasciò in sospeso la minaccia, poi riprese a parlare.
“Adesso ti sbattiamo dentro, nei prossimi giorni potrai consultare un avvocato. Hai fatto una grossa cazzata, ragazzo. Hai violato la notte, e la notte è sacra, la notte è fatta per dormire.”
Romeo Saltinbeni cominciò a piangere, prima in maniera sommessa, poi con rumorosi singhiozzi.

sabato 5 settembre 2015

FUOCO SELVAGGIO


L’uomo all’improvviso posa la tazzina.
“Ahi!”
“Roberto, che cosa c’è?” domanda la moglie.
“La schiena, mi fa male.”
“La schiena? Hai fatto qualcosa? Qualche sforzo particolare?”
“No, non ho fatto nulla. Accidenti, che dolore.”
“Fammi vedere.”
La donna si avvicina al marito e gli solleva la maglietta.
“Ehi! Ci sono delle strisce rosse.”
“Eh?”
“Sì, su tutta la schiena. Sembra che ti abbiano frustato!”
“Non scherzare, che cosa può essere?”
“Sai che ti dico? Potrebbe essere fuoco di Sant’Antonio.”
“Sei sicura?”
“Sì, ricordo che l’ha avuto anche mio padre. Devi andare subito dal medico.”
L’uomo, tra una smorfia e l’altra, guarda la moglie.
“Dal medico? E perché?”
“Roberto, che cosa stai dicendo? Quando si è ammalati si va dal medico.” La donna non riesce a nascondere l’evidente stupore.
“Certo, quando si è ammalati, non quando si ha il fuoco di Sant’Antonio.”
“Roberto…”
“Andrò da Michëina.”
“E chi sarebbe? Una dottoressa?”
L’uomo, nonostante il dolore, riesce a sorridere.
“Beh, non proprio.”
“Allora?” lo incalza la moglie.
“È quella vecchietta che abita in fondo al paese. Hai presente? Vicino alla stazione di servizio.”
“Quella casa mezzo diroccata?”
“Proprio quella.”
“Quella vecchia è una strega!” esclama di colpo un ragazzino di circa dieci anni che fino a quel momento aveva assistito in silenzio al dialogo dei genitori.
“Marco! Che dici?” lo rimprovera la madre.
Il bambino solleva le spalle.
“A scuola dicono tutti così.”
“Smettila.”
“Non è una strega, è una specie di guaritrice” dice l’uomo. “Scaccia il fuoco di Sant’Antonio.”
“Ma tu sei pazzo! Vuoi dirmi che credi a queste cose?”
“Certo”
“Non voglio più sentire questi discorsi! Tu andrai dal medico, intesi?”
“Mmm…”
“Prometti!”
“Vedremo…”
“Incredibile! Mio marito che crede alle fattucchiere!”
“Michëina non è una fattucchiera.”
“Basta così!”
La donna, alterata, esce dalla cucina.


L’uomo bussa alla porta.
“Avanti, è aperto.” Una voce sottile, un po’ stridula.
L’uomo entra e si trova in penombra. La vecchia è seduta. È piccola e magra, quasi rinsecchita. È vestita di nero, porta un fazzoletto in testa dal quale scappano alcune ciocche bianche, il viso è solcato da un dedalo di rughe antiche. Nell’unica stanza della misera casetta, dove c’è pure il letto, ristagna un odore di cipolle.
“Hai il fuoco di Sant’Antonio” dice la vecchia scrutando l’uomo.
“Come ha fatto a capirlo?”
Lei non risponde, scuote il capo e fa un gesto con la mano, come a scacciare una mosca che non c’è.
“Siediti su quello sgabello e togliti la camicia” ordina. L’uomo, un po’ intimorito, ubbidisce.
La vecchia gli si avvicina e gli unge la schiena con qualcosa che sembra olio. Poi prende una pezza imbevuta di qualche liquido, la accende con un fiammifero di legno, e inizia a passare la fiamma a pochi centimetri dalla pelle.
“Stai fermo” intima all’uomo. Poi inizia a recitare una strana formula, più volte.
Feu servaj scàpis che l’ot feu te ciàpis!” E poi ancora e ancora. L’uomo sembra sempre più impaurito ma non osa muoversi. Finalmente il rito termina.
“Adesso puoi andare” dice la vecchia, che appare esausta.
“Grazie” dice l’uomo, che si riveste e mette mano al portafoglio.
“No! Non mi devi niente” quasi lo aggredisce la vecchia.
“È per il disturbo…”
“Non posso accettare nulla, altrimenti il dono svanisce” dice lei. Poi si siede. L’uomo ringrazia ancora, saluta ed esce.


“Capisco, signora” dice il medico. “Vede, il fuoco di Sant’Antonio, o per meglio dire l’Herpes Zooster, è una malattia insidiosa che richiede cure specifiche. È necessario impiegare farmaci antivirali per cercare di assicurare una piena e definitiva guarigione. E quasi sempre tali farmaci danno ottimi risultati. In caso contrario c’è il rischio che l’affezione si cronicizzi. Comunque non si deve preoccupare, mi mandi suo marito al più presto e vedrà che risolveremo tutto.”
La donna guarda a lungo il medico prima di parlare.
“Sa qual è la cosa che mi preoccupa davvero?”
“Mi dica, signora.”
“Il giorno dopo essere andato da quella vegliarda mio marito era guarito, completamente guarito.”
“Il giorno dopo? È impossibile!”
“Pensavo che lei potesse darmi una spiegazione” dice la donna.
“Mi dispiace…” Il medico allarga le braccia, la donna si alza e se ne va, rassegnata e delusa.
Il medico si passa più volte le dita sulle palpebre. Poi alza lo sguardo e vede il suo diploma di laurea incorniciato e appeso sul muro di fronte. Scuote il capo più volte, sconsolato. Poi si ricorda di sua nonna. La vecchietta riceveva spesso uomini e donne a casa sua, a tutte le ore del giorno, persone giovani e meno giovani. All’improvviso il medico rammenta anche le parole che a volte sentiva pronunciare dall’anziana donna e che a lui, bambino, risultavano del tutto prive di significato e alle quali non badava più di tanto. Ed è come se le risentisse proprio in quel momento, forti e chiare.
Feu servaj scàpis che l’ot feu te ciàpis!”
“Avanti il prossimo!” dice il medico, che è fradicio di sudore.

VIDEOCLIP


Scendo le scale di un piano, poi busso. Dopo qualche istante sulla soglia appare un ragazzo. È alto e sottile, e sorride.
“Ciao, sono il tuo vicino. Quello del piano di sopra” dico.
“Oh, ciao.”
“Ascolta, vorrei dirti che…”
“Perché non entri?” mi interrompe.
“No, il fatto è che...”
“Vieni” dice. Poi mi volta le spalle ed entra nell’appartamento. Sono costretto a seguirlo.
Subito mi trovo di fronte un enorme televisore, sul quale scorrono le immagini di un video musicale di un gruppo hip-hop, e dal quale proviene un grande baccano, proprio ciò che mi ha costretto a quella visita.
“Aspetta” dice il ragazzo, prima di abbassare completamente il volume.
Mi guarda, e la sua espressione è disarmante.
“Dimmi tutto.”
Scuoto il capo. La mia irritazione scema.
“Ecco, il problema era proprio questo. Il volume. Era troppo alto e mi disturbava.”
“Oh, ti chiedo scusa, non me ne ero accorto. Mi ero lasciato trascinare dalla musica. A te non piacciono i videoclip?”
Non ha capito nulla. Sospiro.
“Vedi, la questione non è se mi piacciono o meno i video, ma che il volume eccessivo può infastidire.”
“Ah, però non ti piacciono, vero?”
“Se proprio lo vuoi sapere no, non mi piacciono.”
Lui riflette un attimo.
“Forse perché non ti piace la musica, oppure…”
“Oppure perché sono vecchio” lo blocco.
Sul suo bel viso si forma un’espressione di sincero stupore.
“Vecchio? Ma che dici?”
“Guarda che ho quasi cinquant’anni”.
“E con ciò? È un’età bellissima. Li vorrei avere io cinquant’anni.”
“Non sono per niente d’accordo. E comunque io amo la musica.”
“Ah!”
“Sei sorpreso? Il fatto è che la musica io preferisco ascoltarla e basta. Le immagini mi distraggono, mi impediscono di concentrarmi. Tutto qua.”
“Capisco. Sai, è interessante quello che dici. Non ci avevo mai riflettuto. Ehi, perché non ti siedi?”
Lui lo fa, e mi invita con un cenno ad accomodarmi accanto a lui, su un vecchio divano. Proprio in quel momento vedo spuntare un minuscolo bassotto che si avvicina guardingo alle mie gambe e le annusa. Io lo accarezzo e subito la bestiola si stende sulla schiena e mi offre il ventre.
“Si chiama Fanny, è una femmina” dice il ragazzo.
“È tuo?” domando.
“Oh no! È di Adriana.”
“La tua ragazza?”
“No, la mia compagna di appartamento. Siamo studenti. E poi c’è pure Alberto. Lui e Adriana sono…beh…sono una coppia.”
“Capisco. E tu non hai una ragazza.”
“No, assolutamente no.”
Annuisco.
“Ti posso chiedere una cosa?” dico.
“Certo.”
“Perché ti trucchi gli occhi?”
Il ragazzo scoppia a ridere. Poi si distende sul divano, si stiracchia come un gatto. La maglietta si solleva e intravedo il suo addome abbronzato, piatto e completamente glabro. Lui ridiventa serio.
“Non lo so. Mi piaccio di più.”
“E credi di piacere di più anche alle altre persone?”
“No, quello non mi interessa.”
“Scusa le mie domande da vecchio” dico.
“Smettila, tu non sei affatto vecchio. Anzi, sei un bell’uomo.”
Quelle parole mi imbarazzano, provocano un disagio che fatico a nascondere. Quelle parole, allo stesso tempo, mi fanno piacere. Di scatto mi alzo. Devo assolutamente andarmene.
“Vado” dico, fingendo indifferenza.
“Di già?” chiede il ragazzo, alzandosi a sua volta. Guardo i suoi capelli, lunghi e morbidi, ho la tentazione di farvi scorrere le dita. Ho il desiderio di accarezzare le sue guance lisce.
“Devo proprio” dico, e la mia voce trema.
“Va bene, però prometti che se esagererò con il volume tu verrai ancora a bussare alla mia porta e me lo dirai.”
“Verrò ancora a bussare alla tua porta” ripeto, come in trance. Poi esco, e sono davvero molto confuso.

giovedì 3 settembre 2015

IL CARNEVALE DI GIACOMINO



Cammino tra gli spaziosi ambienti del Museo del Carnevale stringendo la manina di mio figlio. Abbiamo quasi terminato la visita, non rimane che un’ultima sala, la più piccola. Cerco di evitarla, invano.
“Voglio vedere Giacomino!” strilla mio figlio. Mi abbasso e lo guardo negli occhi.
“Sei sicuro? Non avrai paura?”
Lui scuote il capo.
“Lo voglio vedere” ribadisce. È un ragazzino coraggioso.
“Va bene, andiamo.”
Il locale è in penombra. Addossata a una parete c’è un’alta teca di cristalla collocata in verticale. Al suo interno c’è Giacomino. Sembra che dorma, invece è morto. Meglio, è disattivato per sempre.
Sento le unghiette di mio figlio premere sul palmo della mia mano. Osserva spaventato quell’essere enorme che incombe su di noi. Si stringe a me mentre prosegue a guardare, attento. Per lui si tratta della prima volta, ma non per me. Anche se è passato parecchio tempo da quanto sono stato qui l’ultima volta, Giacomino non cessa mai di stupirmi. Fisso il suo grosso cranio, i ciuffi di capelli, il naso pronunciato, gli occhi uno diverso dall’altro e, soprattutto, le minuscole suture che uniscono la pelle del suo viso, quelle sotto la gola, sui suoi polsi. Rimpiango di non averlo mai visto quando era attivato.
Giacomino è stato prodotto alcuni anni fa nei laboratori di ingegneria biologica della nostra città. È alto quasi tre metri. Perché così alto? Per meglio distinguerlo dagli altri individui, da noi, disse una volta scherzando il professor B., il suo creatore, intervistato da una televisione locale. Il mostro, il bestione, Frankenstein, così era chiamato dalla gente. Soltanto in seguito si cominciò a chiamarlo Giacomino, il nome del contadino che più aveva contribuito alla sua creazione, donando l’intero suo corpo alla scienza. Il corpo di Giacomino era perfetto, la sua mente no. Era difficile interagire con lui, impossibile comprendere i suoi processi mentali. Un successo a metà, insomma. Alla fine fu disattivato, fino al momento in cui a qualcuno venne l’idea di utilizzarlo per il Carnevale. Una volta l’anno, il giorno di Martedì Grasso, l’essere gigantesco dalla mente di bambino veniva riportato in vita e obbligato a girovagare per la città. La gente lo affrontava, da soli o a gruppi, a mani nude. Per provare la propria forza, il proprio coraggio, per divertirsi. Dopotutto si trattava del Carnevale. Tutto ciò aveva comunque anche tremendi effetti negativi, per cui dopo otto anni si decise di porre fine per sempre a quel rito stravagante e violento. Si ritornò a festeggiare il Carnevale alla maniera classica, Giacomino fu disattivato in via definitiva e posto nella sua teca al Museo del Carnevale. Adesso è morto, morto per sempre, così come sono morti per sempre quei quattrocentoventotto sciagurati che lo hanno affrontato e hanno avuto la peggio. I loro nomi sono incisi sulle pareti della sala.
“Possiamo rimanere ancora un po’?” domanda mio figlio.
“Va bene, ma soltanto qualche minuto, altrimenti Giacomino si arrabbia” dico sorridendo.