Powered By Blogger

venerdì 31 luglio 2015

ISRAELE TENEBRA



Un bambino di diciotto mesi arso vivo nella sua casa. I genitori e il fratellino di quattro anni in gravi condizioni, orribilmente ustionati. Tutto ciò è accaduto a Nablus, Cisgiordania, nei territori occupati da Israele ormai da quasi cinquant’anni. Il vile attentato, poiché di vero e proprio atto terroristico si deve parlare, è opera di coloni israeliani legati alla destra ultra-religiosa, gruppi fondamentalisti che fanno riferimento a partiti presenti alla Knesset, il parlamento israeliano, e alleati di governo del primo ministro Netanyahu.
Sono ormai lontani gli anni gloriosi dello stato ebraico. Un ricordo lontano le valorose e drammatiche difese dei confini della Guerra dei Sei Giorni e di quella di Yom Kippur. Poi c’è stato il Libano, più volte, le Intifada, l’occupazione della Striscia di Gaza, e di tutte queste ultime imprese si ricordano soprattutto le vittime civili di parte palestinese.
Perché, ancora una volta, e poco tempo fa, è stata data fiducia all’opportunista Netanyahu costretto, per conservare il potere, a scendere a patti con la destra religiosa? Benny, si sa, non è uomo di pace. Israele, per poter sopravvivere, ha invece tanto bisogno di pace. Per quale motivo la scriteriata politica degli insediamenti ha avuto nuovi scellerati impulsi? In tal modo il partito dei coloni si è rafforzato ancora di più, è diventato sempre più determinante nell’influenzare le politiche dello stato, tutte orientate alla prevaricazione nei confronti del popolo palestinese, anch’esso comunque non esente da colpe (il dissennato ruolo recitato da Hamas, per esempio).
La soluzione per porre fine, o almeno limitare, le reciproche anche se non paragonabili violenze, è sempre la stessa: due popoli, due territori, due stati. Invece le colonie aumentano e coprono ormai a macchia di leopardo tutta la Cisgiordania. Perché non tornare, in qualche modo, all’intuizione tardiva di Ariel Sharon? Sì, proprio lui, uno degli uomini più discussi di Israele, l’eroe di guerra, il panzer, il duro oppositore di ogni concessione al popolo palestinese, lo sciagurato indiretto responsabile del massacro di Sabra e Chatila che, poco prima di essere colpito dalla grave infermità che lo portò prima ad anni di coma e poi alla morte, rinnegò tutto ciò che aveva pensato e fatto fino a quel momento. Quale fu l’idea, che purtroppo non poté attuare, di Sharon? E per quale motivo maturarono in lui quelle convinzioni? Sharon, a un certo punto, si rese conto che Israele non avrebbe potuto espandere all’infinito la colonizzazione, occupare per sempre i Territori. Era necessario smantellare gli insediamenti altrimenti prima o poi quelle terre sarebbero state annesse allo stato di Israele (per inevitabile convenienza e soprattutto per via delle crescenti pressioni della comunità internazionale). Con gli Stati Uniti, l’alleato da sempre più importante per lo stato ebraico, in testa. Ai palestinesi sarebbero stati concessi finalmente dei diritti, tra i quali prima o dopo anche la cittadinanza. Sharon era consapevole del fatto che il popolo palestinese ha un tasso di incremento demografico decisamente superiore a quello israeliano. Conclusione: nel giro di pochi decenni Israele sarebbe diventato uno stato arabo. Fine del sogno di Ben Gurion e di tutti gli altri visionari. Fine di Israele. Quello di Arik non era idealismo, bensì il puro pragmatismo di un vecchio soldato. Naturalmente non si tratta di riabilitare la figura di Sharon, che ha commesso gravi errori e causato grandi sofferenze che purtroppo non si possono cancellare, si tratta soltanto di dare nuovo risalto a quello che sarebbe stato il suo gesto politico (e forse l’unico) più significativo. Si spera che tra il popolo d’Israele possa maturare una nuova consapevolezza e che qualcuno possa raccogliere e tramutare in realtà tali convinzioni, ed evitare così che altri piccoli e innocenti Alì muoiano in modo tragico.

martedì 28 luglio 2015

ALLA SALUTE!



È ormai sera ma fa ancora molto caldo. Sul soffitto del locale è appeso un ventilatore a pale che, stanco, rimescola senza alcuna efficacia l’aria spessa e torbida.
Anselmo porge all’oste il bicchiere vuoto, la stessa cosa fa il suo compare Bruno.
“L’ultimo e poi ce ne andiamo” dice Anselmo.
“Sicuro” ribadisce l’amico.
L’oste posa la scopa e prende i bicchieri. Li riempie e li restituisce appoggiandoli sul bancone.
“Speriamo che sia davvero l’ultimo che io devo chiudere” dice, poi riprende a spazzare il pavimento.
Anselmo alza il bicchiere.
“Alla salute!”
“Eh! La salute!” dice Bruno prima di ingollare una robusta sorsata di vino.
Anselmo si acciglia. Non beve e posa il bicchiere.
“Che cosa vorresti dire?” domanda.
“Voglio dire che noi siamo qui a brindare alla salute. Ma la salute oggi c’è e domani chissà, questo voglio dire.”
“E allora?”
“E allora significa che oggi ci siamo e domani non si sa” dice Bruno.
“Che ti è preso? Hai la ciucca triste?”
“A parte il fatto che ciucco non lo sono affatto, mi chiedevo se tu non pensi mai a come sarà dopo.”
“Aspetta, che cosa vuoi dire? Ti riferisci a quando avremo tirato le cuoia?”
“In un certo senso sì. Tu non hai mai paura di morire?”
“Aspetta”. Anselmo svuota il bicchiere tutto d’un fiato.
“La vuoi sapere tutta?” prosegue. “Certo che ho paura di morire, ma non più di tanto. In realtà non ci penso quasi mai, e quando lo faccio mi rendo conto che ho soprattutto paura di soffrire per morire.”
“Già, è così anche per me, tuttavia la mia vera paura è un’altra. Cribbio, quando ci penso prima di dormire non c’è verso di prendere sonno.”
“Addirittura. Che sarà mai?”
“Ehi! La volete smettere di fare questi discorsi? Perché non parlate di pelo o di calcio, come fanno tutti?” dice l’oste, immobile, appoggiato alla scopa. “E poi io devo chiudere, mia moglie mi aspetta.”
“E lasciala aspettare. A quest’ora starà già russando.”
“Che ne sai tu che russa?”
“Tutte le donne russano.”
“Come fai a essere così sicuro?”
“Insomma, tua moglie russa o no?” domanda Bruno, rivolto all’oste.
“Be’, qualche volta. Cioè, spesso.”
“Visto? Ascolta, riempici i bicchieri un’ultima volta, poi ce ne andiamo.”
“Eh! L’ultimo, per voi è sempre l’ultimo ma non ve ne andate mai. E in più state qui a fare ‘sti discorsi che portano solo sfiga. Mi tocca grattarmi i gingilli, ecco cosa mi tocca fare.”
L’oste torna dietro il bancone e versa il vino.
“Bruno, allora?”
“Allora cosa?”
“Si può sapere qual è questa tua grande paura?”
“Tu non pensi mai a cosa può esserci dopo che sei schiattato?”
“Inferno, Paradiso, quelle robe lì?”
“Non ci credo a quelle robe lì, lo sai.”
“Quindi? La tua paura è che non ci sia nulla?”
“Niente affatto, la mia paura è che ci sia qualcosa, qualcosa che noi non riusciamo neppure a immaginare.”
“Sacramento! Hai ragione! Questo è davvero spaventoso. Meglio non pensarci. Bruno, ci facciamo l’ultimo?”
“Sì, l’ultimo e poi ce ne andiamo.”

lunedì 27 luglio 2015

VIZIO D'ORIGINE



Hai presente? È come quando acquisti un oggetto e poi ti accorgi che ha un piccolo difetto. In quel momento provi disappunto, ti assale una fastidiosa scontentezza. Sei irritato con te stesso, per la tua ingenuità, per quella sventatezza alla quale sai di non poter porre rimedio. Quell’oggetto, in ogni caso, tu continui a usarlo, tante volte, tutti i giorni anche se sai che è viziato. Riesci a farlo perché quasi mai pensi a quella sua minima imperfezione che comunque non ne preclude l’utilizzo. Capisci? Poi arriva quel giorno, quel particolare momento, e la tua mano o il tuo occhio (la tua mente?) tocca vede si focalizza proprio su quella mancanza, su quel vizio d’origine, e l’incrinatura la macchia il dubbio si allargano si ingigantiscono e tu stai male. Vorresti buttarlo, quello stupido insignificante oggetto, e rimuoverlo per sempre da te stesso, dalla tua vita. Ma non lo fai, perché non ci riesci, qualcosa ti trattiene. Il fatto è che a quella cosa, qualunque essa sia, e lo stesso se non si trattasse di cosa, ti sei affezionato. O forse qualcosa di più. Allora la tieni, pure se il suo vizio d’origine continuerà sempre a tormentarti.

giovedì 23 luglio 2015

IN MONTAGNA


Dal racconto fatto dal protagonista della singolare disavventura al giornale locale Lo stambecco:
“No, non ridete perché non c’è niente da ridere. Innanzitutto dovete sapere che per me andare in montagna o nella giungla è la stessa cosa. In ogni caso avevo accettato di partecipare alla presentazione del libro del famoso giornalista M.T. L’appuntamento era vicino al bivio, dove c’è il Bar Ristorante Albergo La Marmotta (una vera bettola!). Come al solito sono arrivato in ritardo e non ho più trovato nessuno. Come mi era stato detto ho lasciato la macchina (la strada finisce!) e mi sono incamminato. Mezz’ora a piedi, al più tre quarti d’ora. Col cavolo! Era già trascorsa quasi un’ora e della piccola frazione non c’era la minima traccia. Con tutti i posti comodi che ci sono in città, mi dicevo mentre ansimavo su per la maledetta salita, è mai possibile scegliere un posto così sperduto? Il tempo passava e io ero sempre più stanco, i piedi mi dolevano (i leggeri mocassini di pelle non erano stati una buona scelta) e cominciavo ad avere sete e soprattutto fame. Tra l’altro il sole stava tramontando. A un certo punto ho incrociata un sentiero e visto un’indicazione: malga. Non sapevo cosa fosse ma ho pensato che fosse il nome di un bar. Bene, mi sono detto, caro M.T vai a fare in culo tu e il tuo libro, io mi vado a bere una birra fresca perché sono davvero stremato. Sarà per un’altra volta, magari al mare. Cammina e cammina il bar però non l’ho trovato, ed era quasi buio. Allora mi sono spaventato. Così, di colpo. Allora ho estratto il cellulare con l’intenzione di chiedere aiuto (anche se mi vergognavo un po’). Accidenti, non c’era campo! Ero ormai disperato quando ho sentito il suono di una campanella. Subito dopo sono stato circondato da un manipolo di capre. Quando una loro (forse era un maschio) stava tentando di incornarmi prendendo delle brevi rincorse è apparso un uomo male in arnese. Vestito male, sporco e puzzolente. Sembrava un barbone. Tuttavia non ci ho fatto caso più di tanto quando ho scoperto che parlava la mia lingua. Gli ho esposto la mia sciagurata situazione. Lui ha guardato ben bene le mie scarpe, poi la mia pancia, quindi ha puntato il bastone in una direzione e mi ha fatto segno di camminare. Lui mi è venuto dietro, sempre con il legno proteso, tanto che avevo paura che mi sganciasse botte sulla schiena come faceva a volte con le capre. Attraverso una ripida scorciatoia l’energumeno quasi muto mi ha riaccompagnato in paese in meno di mezz’ora. Era già completamente buio, al bar ristorante albergo stavano già organizzando una spedizione di soccorso. Ho fatto il mio trionfale ingresso in piazza attorniato dalle capre. Cammin facendo il becco era pure riuscito a rifilarmi una cornata nel culo, il vigliacco. Ecco, adesso se volete potete pure ridere.”

lunedì 6 luglio 2015

FESTA DA BALLO


Ha scoperto da poco che il vino può dare euforia. Un bicchiere, meglio se due o più. Così ha fatto. In un piacevole stato di contentezza si avvia verso la piazza. Può andarci da solo perché ormai è cresciuto. Non è ancora un giovanotto vero e proprio, anche se ormai manca poco. E poi è in vacanza, e quella sera in paese è festa. I suoi passi sembrano leggeri, le case gli sfilano accanto rapide, come di corsa, e appaiono sfuocate. Raggiunge l’osteria, attorno alla quale è raccolta tanta gente. Sa che non può bere ancora, anche se ne sente il bisogno. Il vecchio Firmino, il taverniere amico del nonno, mai gli servirebbe del vino. Al più, una birra con gazzosa. Si dirige verso la pista da ballo, una piattaforma rotonda di assi di legno incastrate tra loro e incerate con cura. L’orchestra sta già suonando da un pezzo. I musici sono accaldati, congestionati in viso. Ognuno di loro ha accanto una bottiglia e un bicchiere. Tra un motivo e l’altro non manca mai una buona sorsata. Tante coppie danzano sul palchetto: giovani e meno giovani. Vede anche alcune donne che ballano abbinate tra loro, mentre gli uomini soli, invece di cercarsi un compagno dello stesso sesso, preferiscono stare ai bordi della pista a osservare e fumare. Si tuffa nella calca che attornia la pedana. Percepisce rumori, luci suoni e odori. Emanazioni di tabacco, di profumo e di sudore. Le donne si muovono più veloci rispetto agli uomini. Entrano ed escono dalla pista, sbuffano, ridono, si detergono la fronte con graziosi fazzoletti. Lui si avvicina sempre più al bordo. Alcune di queste femmine, che quasi non lo vedono tanto sono impegnate nelle loro faccende, lo sfiorano lo toccano lo urtano. Il contatto con quelle carni grondanti sgocciolanti accalorate è piacevole ed eccitante. Si fa coraggio e lo cerca, finge di inciampare di cambiare direzione all’improvviso e appoggia le mani tocca palpa in un disordine di sensazioni nuove che non sa descrivere. Non riesce a capire quanto tempo passa prima di avvertire una leggera nausea. È il vino. Forse ne ha bevuto troppo, e allora decide di tornare a casa, dai nonni che ormai staranno in pensiero. Sa già che quella notte non dormirà.