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lunedì 27 aprile 2015

DA GINO


“Se trovo chi ha inventato il lavoro lo ammazzo di botte!”
Povero vecchio Giacomo. Tutti i giorni, durante la pausa dal lavoro, faceva il suo rumoroso ingresso da Gino scandendo bene quelle parole che da sempre accompagnavano la sua presenza.
“Se lo ammazzi ci fai un gran favore” era l’immancabile risposta di qualche altro avventore.
Giacomo lavorava in una piccola fabbrica che produceva coloranti all’anilina. Sostanze tossiche, puro veleno. Le sue mani grosse e nodose erano macchiate di rosso perché lui diceva che era impossibile svolgere la sua mansione indossando i guanti protettivi. E così facevano tutti gli altri. Per non parlare di ciò che quei poveri lavoratori respiravano tutto il giorno. Eppure Giacomo era sempre scherzoso, elargiva battute a getto continuo, aveva una buona parola per tutti. Si rendeva ben conto della nocività dell’ambiente in cui svolgeva la sua attività lavorativa ma, allo stesso tempo, era consapevole di non avere alternative.
“Devo pur mangiare” diceva. “E poi il lavoro mi prenderà il corpo, ma non l’anima” aggiungeva con un tono più amaro. Il colore del suo viso era giallo smorto, profonde rughe incidevano quella pelle fiacca.
Anche se ero ancora un ragazzo avevo preso l’abitudine di fare tutti i giorni un salto da Gino, tornando a casa da scuola. Ordinavo un’aranciata, oppure un ghiacciolo nella stagione calda, e poi trascorrevo un po’ di tempo stando ad ascoltare quegli uomini che, invece di andare a casa a pranzare, preferivano passare in piola per scambiare due parole con i loro compagni di sventura.
“Ti va un bicchiere di latte?” domandava ogni volta Gino a Giacomo, prendendolo in giro. Il medico della fabbrica in cui lavorava Giacomo consigliava agli operai di bere molto latte. In tal modo non avrebbero avuto problemi, diceva. La magica bevanda bianca avrebbe contrastato tutta la nocività delle sostanze tossiche maneggiate e inalate. Tutte balle, naturalmente.
Tra l’altro nella sua piola Gino non lo teneva neppure, il latte. Chi l’avrebbe mai ordinato? Termini assurdi come caffè macchiato e cappuccino erano quasi sconosciuti e in ogni caso in quel posto sarebbero stati banditi.
Allora, attenendosi scrupolosamente al copione, Giacomo staccava una gran bestemmia e, con voce stentorea, comandava un grigioverde, vale a dire grappa e menta.
“Questo brucia tutto, il buono e il brutto” diceva ingollando la prima sorsata di mistura. Tutti ridevano.
A un certo punto, ritenendomi ormai sufficientemente cresciuto, lasciai perdere bibite e dolciumi e iniziai anch’io a consumare qualcosa di più dignitoso, un buon bicchiere di vino bianco frizzante, per esempio. Da quel momento tutti i clienti di Gino presero a osservarmi con maggiore interesse, a coinvolgermi nei loro discorsi. Non potevo ancora essere considerato uno di loro, poiché per mia fortuna non lavoravo, tuttavia avevo ormai conquistato la loro benevolenza.
Di quel periodo mi ricordo soprattutto i camionisti: Dolfo, Sandro e tutti gli altri. Erano gli unici che mangiassero qualcosa. Pane e salame, pane e mortadella, enormi panini con acciughe in salsa verde. E almeno mezzo litro di vino a testa. Rammento i loro discorsi coloriti, i loro interminabili racconti dove le protagoniste indiscusse erano sempre le donne. Così come di enormi manifesti raffiguranti donne nude erano tappezzate le cabine dei loro camion. Ascoltavo spacconate, enormi fanfaronate, comunque necessarie per alleviare almeno un po’ la fatica del loro duro lavoro. Ricordo soprattutto le loro impressionanti pance, quegli addomi e ventri lievitati a dismisura, forse a causa dell’attività sedentaria, prominenze che loro ostentavano con fierezza.
E poi c’erano i contadini. Arrivavano parcheggiando il trattore a pochi metri dalla porta d’ingresso della piola. Con un gran baccano e sbuffi di fumo nero e puzzolente. I loro stivali di gomma erano sempre incrostati di terra e di letame secco. In qualsiasi stagione dell’anno indossavano il solito cappello di paglia oppure, i più giovani, un berretto dal colore sgargiante con in evidenza la scritta pubblicitaria di qualche marca di mangime. I contadini erano molto parsimoniosi. Ordinavano al più un bicchiere di vino rosso, che facevano durare a lungo. Non perché non fossero grandi bevitori. Altroché se lo erano, ma preferivano bere a casa, oppure quando erano impegnati nel lavoro nei campi. E poi, oltre che un po’ spilorci, erano diffidenti riguardo qualsiasi vino che non fosse stato prodotto da loro stessi. In verità trovavo i loro discorsi un po’ noiosi. Quando parlavano di Bianca, Nerina e Alpina sapevo che non citavano nomi di donne affascinanti o prosperose, ma semplicemente discorrevano delle loro amate mucche. Inoltre i campagnoli erano sempre così lamentosi! Pioveva poco, pioveva troppo, il raccolto non era andato bene, era morto un vitello, sai che danno, il prezzo della nafta era aumentato, quello del grano era calato, e così via. Un pianto unico.
La piola di Gino era pure frequentata da altri lavoratori che non si può dire si ammazzassero di fatica. C’era il messo comunale, per esempio. Strizzato nella sua elegante divisa blu scuro con i bottoni dorati, si sedeva tutto solo a un tavolo nell’angolo e passava ore a sfogliare i quotidiani sportivi, bevendo e non parlando con nessuno. Forse non aveva niente da dire, oppure si rendeva conto di non avere nulla da condividere con quegli omoni dai vestiti e dalla pelle inzaccherata che concionavano di grandi imprese muscolari o che stavano imprigionati tutto il giorno in una fabbrica. A volte passava in piola anche il maestro elementare. Era sempre tutto lustro, vestito elegante, i baffetti ben spuntati, mai un capello fuori posto. Lui arrivava dal sud, non comprendeva nulla di tutto quel berciare a squarciagola in dialetto stretto. Nessuno lo coinvolgeva, quasi fosse invisibile. Il maestro si limitava così a sorseggiare in tutta fretta il suo caffè e poi scappava a casa. Semplicemente, non era considerato dagli altri un vero lavoratore.
Il becchino, Giovanni, era invece il più allegro di tutti. Anche lui disdegnava a parole il buon vinello di Gino. Tra un bicchiere e l’altro esaltava il suo, di vino, un terribile intruglio imbevibile corretto con il sale. In ogni caso, da dove derivasse tutta la sua contentezza era un mistero per tutti dal momento che il suo era un lavoro tutt’altro che divertente.
Bei tempi, quelli! Ormai da allora sono trascorsi molti anni. La piola di Gino non c’è più. Al suo posto c’è il Bar Devil, (che cazzo vuol dire Devil?), un locale tutto luccicante con tavolini e sedie di acciaio. A volte ci passo a sorseggiare una grappa ma subito scappo perché non mi sento molto a mio agio. È frequentato soprattutto da giovani, ragazzi e ragazze, tutti tatuati e con gli anelli al naso ma soprattutto tutti disoccupati. E quei poveretti si lamentano pure della loro condizione, perché vorrebbero lavorare.
“Mi sbatto di qua e di là ma non riesco a trovare niente. Il lavoro non c’è!” dicono rassegnati, alzando le spalle, mentre tutti gli altri annuiscono solidali. Che ingenui, non sanno apprezzare la loro enorme fortuna! I soldi per bere qualcosa comunque li hanno, quindi perché andare a complicarsi e a rovinarsi l’esistenza? Beata gioventù.
Io invece lavoro da più di trent’anni e non ne posso più. La mia schiena è a pezzi e la mia testa non sta meglio. Il lavoro è un diritto. Il lavoro nobilita l’uomo. Il lavoro rende liberi (i crucchi nazisti, pur nel loro beffardo e crudele dileggio, l’avevano vista giusta!). In realtà il lavoro abbrutisce, il lavoro rende schiavi.
Ancora una volta ripenso alle parole del povero Giacomo: “Se trovo chi ha inventato il lavoro lo ammazzo di botte!”
Giacomo, che è morto tra atroci sofferenze ancora prima di arrivare alla pensione, avvelenato da quelle sostanze che avevano per anni penetrato il suo corpo e che alla fine gli avevano rubato non solo il corpo ma pure l’anima.
Chi ha inventato il lavoro purtroppo non è ancora stato individuato. L’ho cercato anch’io, a lungo, ma non l’ho trovato. Forse quello sciagurato è addirittura morto. In ogni caso il suo malvagio seme si è perpetuato, sarebbero troppi ormai quelli da punire e io non ho la forza e neppure il tempo per poterlo fare. Mi dovrò limitare a mettere in atto un gesto simbolico. Il medico, quello della fabbrica di Giacomo, è ancora vivo. Ha più di novant’anni. È riuscito a conservarsi, il vecchio bastardo! Ogni tanto lo vedo che arranca per il paese con il suo bastone, con lo sguardo appannato ma sempre sprezzante. So dove abita, lo sanno tutti, la sua è la casa più bella del paese. Le mie mani sono rovinate, devastate dalla fatica, ma sono ancora in grado di ammazzare di botte quella vecchia carcassa fragile e rinsecchita.
Finisco di bere e poi vado da lui, a lavorare.


sabato 18 aprile 2015

BANDITO



Sono nato bandito 
Fuorilegge che spara 
Artista della lupara 
Da sempre inseguito 
Marcito in galera 
Insieme ai delinquenti 
Stringendo i denti 
Mai era sera
Mi sono pentito
Cancellato il reato
Pietà dello Stato
Ma un uomo finito




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lunedì 6 aprile 2015

FISCHIA PER NOI



“Stai andando alla riunione?”
L’onorevole Belli trasalì. Stava camminando nel Vascello, l’ampio corridoio che conduceva alla Sala del Fante, quando il senatore Venditti gli sfiorò la spalla da dietro e lo apostrofò con quelle parole. Belli, in quel momento, non stava affatto pensando a ciò che si sarebbe dovuto decidere in quell’importante incontro, bensì al regalo che avrebbe dovuto fare alla moglie per l’anniversario di matrimonio. Due giorni dopo, così come due giorni dopo avrebbero avuto inizio le votazioni. Una sgradevole coincidenza. Il parlamentare si arrestò e strinse la mano al collega grande elettore.
“Ciao Manlio. Su, sbrighiamoci che siamo in ritardo. E poi quello chi lo sente?”
“Aspetta un attimo, devo dirti una cosa importante.”
“Dimmi.”
“Ho fatto il tuo nome” disse tutto di un fiato il senatore Venditti.
“Che cosa?”
“È accaduto ieri sera, sul tardi. Mi trovavo in uno dei soliti capannelli, sai come succede in questi giorni, e ho detto che tu saresti stato uno dei nostri candidati.”
“Cazzo, mi hai bruciato!” esplose Belli.
“Temo di sì” rispose con falsa mestizia il senatore.
“Perché l’hai fatto?”
“Beh, fa parte del fuoco di interdizione, come lo chiama il nostro segretario. Per alimentare la confusione, per gettare un po’ di fumo…” Venditti non seppe più proseguire.
“Porca puttana!”
“Aspetta, non è tutto. Non mi sono reso conto che era presente anche Servetti, il giornalista del Corriere del Mattino. Quello è come il prezzemolo.”
“No!”
“Purtroppo sì. Hai letto i giornali di oggi?”
“Non ho fatto in tempo” disse Belli, che era impallidito.
“Allora non farlo, se non vuoi vedere il tuo nome in prima pagina scritto a caratteri cubitali.”
“Ma vaffanculo!”
“Non te la prendere. Sei giovane, tra sette anni sarai un candidato perfetto.”
“E… come hanno reagito gli altri?”
“A chi ti riferisci?” domandò Venditti.
“Quelli ai quali l’hai detto.”
“Ah! Nessuno ha battuto ciglio, tranne Merloni che si è messo a sghignazzare.”
“Stronzo.”
“Su, andiamo. Adesso ci stiamo davvero attardando.”
I due ripresero a camminare, uno sottobraccio all’altro.
“Dimmi ancora una cosa” fece all’improvviso Venditti.
“Uh?”
“Tu ci credevi veramente? Voglio dire… nel caso in cui si fosse profilata sul serio la tua candidatura.”
Il collega lo guardò.
“Non lo so. In fondo si tratta di un incarico estremamente impegnativo. E tu, piuttosto? In quanto a carte in regola…”
“No! Zitto! Non lo dire neppure! Porta male!” scattò l’altro.
“Ho capito. Dai, entriamo che la riunione è già iniziata.”
La sontuosa sala era affollata. Da qualche istante il giovane segretario del partito, Romeo Lorenzi, aveva iniziato a parlare.
“…non possiamo e, soprattutto, non dobbiamo sbagliare. L’intero Paese ci sta osservando e ci giudica. Indugi, giochetti, furberie: tutti artifici inutili che non ci saranno perdonati. Abbiamo di fronte una enorme responsabilità alla quale non possiamo sottrarci. La nostra scelta dovrà essere la migliore possibile e anzitutto dovrà essere rapida. Non vi nascondo la grande soddisfazione, mia, vostra e dei cittadini, nel caso di successo al primo scrutinio. Devo purtroppo constatare come, al momento attuale, le idee non siano molto chiare. Non si è in sintonia sul metodo, all’interno del partito, e ancora non abbiamo preso in considerazione eventuali nomi, a parte alcune sciagurate e presuntuose autocandidature.”
Pronunciando quelle ultime parole il segretario lanciò uno sguardo beffardo in direzione dell’onorevole Belli, il quale arrossì e si voltò verso il senatore Venditti impegnato, a occhi bassi, a lisciarsi la cravatta.
“Mi aspetto da voi proposte e idee, sia sul metodo che sulle candidature. Queste ultime dovranno essere riferite a persone autorevoli, competenti e degne di rappresentare il nostro Paese a livello internazionale. Il tempo stringe, abbiamo bisogno di certezze.”
Lorenzi tacque, compiaciuto, e si versò un bicchiere d’acqua. In sala erano tutti in silenzio. Fu il senatore Lapilli a interrompere la quiete.
“Segretario, perché all’incontro non è stato invitato nessuno della minoranza interna?”
Lorenzi si produsse in una smorfia.
“Perché tanto quelli sono quattro gatti e non contano un cazzo e possiamo benissimo fare a meno dei loro voti. E poi, se ciò non bastasse, vi dico che sono degli autentici rompicoglioni. Pensate, non sono neppure d’accordo tra loro, e ribadisco che sono davvero in pochi! Qualcuno di loro ha proposto la candidatura di Cuzzi, altri quella di Cozzo, e altri ancora quella di…”
“Cazzo!” urlò Bonsignori, un rubizzo deputato siciliano. L’intera sala scoppiò a ridere, tutti tranne il segretario Lorenzi, che rimase invece imperturbabile.
“Già tanto che non abbiano suggerito un idraulico, quelli!” bofonchiò un grande elettore seduto in prima fila.
“…altri ancora quella di Pallavicino” concluse il segretario. “Vi invito a essere seri, il momento è molto delicato.”
Di nuovo tutti zitti.
“C’è l’intenzione di coinvolgere anche le altre forze politiche? L’opposizione?” domandò una giovane deputata.
“Ottima osservazione, Rondelli” rispose Lorenzi. “Sarebbe infatti auspicabile perseguire la massima condivisione, dopotutto stiamo per eleggere il Capo dello Stato, tuttavia dove ci condurrebbe una simile strategia? Ve lo spiego in poche parole: si tratterebbe di lasciare l’iniziativa alla maggiore forza di opposizione, la quale proporrebbe un nome di sicuro a noi sgradito e che saremmo costretti a bocciare. Ciò significa soltanto perdere tempo, e noi non ce lo possiamo permettere. Quindi il Presidente ce lo eleggeremo noi. Da soli.”
“Ma… i voti?”
“Li abbiamo, non preoccupatevi. I pochi che mancano alla fine arriveranno, ve lo assicuro. A questo punto, definito il metodo, dobbiamo pensare al nome. Aspetto i vostri suggerimenti.”
Lorenzi incrociò le braccia sul petto.
“Pennino!” disse qualcuno. Molti assentirono con deciso convincimento.
Il segretario scosse il capo. Poi intervenne.
“Quella del senatore a vita Pennino, che oggi non è potuto essere tra noi, è una candidatura autorevole, di grande prestigio, di alto profilo…
“È stato presidente del Senato!”
“Più volte ministro!”
“Giudice costituzionale!”
“Presidente dell’Antitrust!”
“Deputato regionale!
“Sindaco!”
“Segretario del partito!”
“…ma ricordo a tutti voi che il senatore ha appena compiuto novantadue anni” terminò Lorenzi.
“Beh? Qual è il problema?Alla conclusione del mandato non avrà neppure cent’anni” disse un anziano e decrepito delegato regionale abruzzese.
“Segretario, posso andare io da lui e cercare di convincerlo. So in quale ospedale è ricoverato”.
“Mi dispiace” disse Lorenzi. “Pur con tutto il rispetto per la notevole storia del senatore e per il suo… attaccamento alle istituzioni, non posso sostenere la sua candidatura. Ho improntato tutta la mia azione politica sul rinnovamento e i cittadini non gradirebbero una soluzione di questo tipo.”
“Puzzoni!” urlò una deputata veneta.
“No, da troppi anni è fuori dai giochi” disse il segretario. “E poi con quel nome…”
L’onorevole Belli, che finalmente era riuscito a ridarsi un contegno, prese la parola.
“Dobbiamo allargare la nostra visione alla società civile. È proprio lì che potremo trovare il nostro candidato ideale, al di fuori della politica.” Si sedette soddisfatto. Se la sua proposta avesse attecchito, avrebbe definitivamente messo fuori gioco il senatore Venditti, che continuava a starsene ben coperto.
La sala fu presa dall’entusiasmo. Molti applaudirono.
“Bravo Belli!”
“Un musicista!”
“Un attore!”
“Un giornalista!”
“Un acrobata!”
“Un pittore!”
“Un architetto!”
“Uno scienziato!”
“Mi dispiace soffocare il vostro impeto ma tale proposta non è ricevibile. E, in ogni caso, è troppo vaga. Noi abbiamo bisogno di qualcuno in carne e ossa, non di una figura generica. Nomi! Voglio nomi!” Lorenzi stava cominciando a innervosirsi.
“Una donna?” disse timidamente un deputato friulano.
“Quale donna? Quale? Nome e cognome!”
Tutti zitti, comprese le donne presenti.
“Perché non Alberto Trafficoni?” propose un delegato regionale campano.
“Trafficoni? Ma non è implicato in quell’inchiesta per corruzione, concussione e abuso in atti d’ufficio?” domandò Lorenzi.
“È stato assolto due giorni fa” rispose l’altro, soddisfatto.
“Ma l’inchiesta è andata avanti per cinque anni! Per l’opinione pubblica è come se fosse colpevole” sbottò il segretario. “Amici, siamo a punto morto. L’ho detto, noi abbiamo bisogno di una figura di garanzia, qualcuno al di sopra delle parti, una specie di arbitro.”
“E allora facciamo Gervasoni” disse ridendo il senatore Colapesce.
“Gervasoni… quello?” chiese Lorenzi, serio.
“Sì, proprio quello!” Qualcuno, in sala, cominciò a sghignazzare.
Lorenzi si rivolse al sottosegretario con delega allo Sport Del Fiume, che stava seduto al suo fianco.
“Un momento. Quanti anni ha Gervasoni?”
“Cinquanta, sette mesi e undici giorni” rispose Del Fiume, molto ferrato in quel campo.
“È un tipo deciso!”
“Autorevole!”
“Sa farsi rispettare!”
“È equilibrato!”
“Imparziale!”
“Giovane!”
“È internazionale da cinque anni!”
“Lasciate fare a me” disse Lorenzi, sfoderando il suo ghigno da faina.

Luca Gervasoni ha cenato alle sette in punto: pasta al pomodoro con una spolverata di parmigiano, filetto ben cotto e insalata. Una mela. Come fa tutte le vigilie. Adesso è in camera da letto e sta preparando la sacca. Sistema la biancheria, il necessario per la toelette, le due divise, quella con la maglia rossa e quella con la maglia gialla. Perché non può più usare quella nera? Ancora la rimpiange. Per ultimo il fischietto d’argento. Chiude il borsone. Adesso andrà in salotto e ascolterà qualche aria di Mozart, per rilassarsi. Poi a letto presto, per essere ben riposato il giorno dopo.
Squilla il telefono. Un suono prolungato, insistente.
“Vai tu, per favore” dice alla moglie. “Non voglio perdere la concentrazione.”
La donna torna dopo un attimo.
“Mi dispiace, ma vogliono proprio parlare con te” dice.
“Chi è?”
“Non lo so, è da Roma.”
Gervasoni prende la telefonata. Roma? Sarà qualcuno della federazione, pensa. Che cazzo vogliono quelli a quest’ora?
Parla per qualche minuto, poi chiude la conversazione.
“Domani non andrò più a Milano, devo andare a Roma” dice alla moglie con un filo voce.
“A Roma? Ti hanno cambiato la partita? Ti hanno dato il derby?”
“No, una partita molto più importante.”
“Quale?”

“Tutti contro tutti.”