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sabato 28 febbraio 2015

IL PRATO DELLE VOLPI



C’è un parco. È immenso, con ampi viali e grandi alberi rigogliosi. Le persone vi trovano rifugio per camminare e per rilassarsi. Per pensare. C’è un piccolo stagno, al quale mi avvicino. Qualcuno, seduto sulla sponda, vi ha immerso i piedi nudi. Mi guardo attorno, indugio a lungo, poi mi unisco a loro. L’acqua è fredda e leggermente torbida. Sotto la superficie liquida si intravedono delle ombre. Nutrie, e tanti pesci. Uno di loro, piuttosto grande, si avvicina alla mia caviglia e la bacia. A lungo. Percepisco il contatto di quelle labbra minuscole e gelide e rabbrividisco. Rimetto calze e scarpe e riprendo a camminare. Adesso nel parco c’è tanta gente: bambini, anziani e gruppi di studenti. Un uomo mi si avvicina. Deve essere un insegnante: indossa un abito grigio e il suo sguardo è quello di un uomo abituato a riflettere.
“È bello questo posto” dice.
Sorrido e annuisco. Sto zitto, perché non so che cosa rispondere.
“La bellezza allieta l’animo” aggiunge. “Noi vi portiamo spesso i ragazzi, affinché l’incanto della natura possa penetrare nei loro cuori”.
Lo guardo.
“Tuttavia i giovani non sono in grado di apprezzare tale magnificenza” prosegue lo strano individuo.
“Beh… sono giovani” balbetto. Comincio a sentire una strana inquietudine.
“No! Il fatto è che non possono usare il telefono, e allora si annoiano. Vogliono andare via”.
“Capisco” dico.
“Forse hanno ragione, però”.
“Dice?”
“Sì, hanno ragione, perché spesso sotto l’apparente bellezza si annida lo squallore. I ragazzi sono molto istintivi e colgono questa distorsione”.
A questo punto vorrei allontanarmi, ma l’uomo non me lo permette.
“Ha già visitato tutto il parco?” domanda, con voce all’improvviso molto gentile.
“No, non ancora”.
“Allora, se mi permette, le consiglio di recarsi al prato delle volpi”.
“Che cosa?”
“Il prato delle volpi! Non ne ha mai sentito parlare?”
“Sinceramente no” rispondo, stupito ma anche incuriosito.
“Le spiego la strada: deve proseguire diritto per quasi un chilometro, lei è giovane e non ha problemi a camminare, poi deve girare a destra, dopo la fontana, e poi ancora a destra, dopo avere oltrepassato il mulino. Ecco, lì troverà il prato delle volpi. Ci vada, mi raccomando.”
“Lo farò. Grazie e arrivederci.”
“Addio.”
Un po’ scosso per il bizzarro incontro mi incammino. Seguo le indicazioni dello strambo individuo e dopo quasi mezz’ora giungo nel luogo che mi ha indicato. Sono solo. Mi guardo un po’ attorno e poi lo vedo. Il prato. Si tratta di un rettangolo che spicca rispetto a ciò che lo circonda perché l’erba è di un colore verde smeraldo. Vedo su di esso delle macchie rossastre in movimento: le volpi. Tante volpi. Alcune sono stese al sole, altre camminano pigramente, altre ancora sono ritte sulle zampe posteriori, quella anteriori appoggiate a uno strano attrezzo che sembra un tosaerba. Avanzano lentamente, con sofferenza, da un lato all’altro del prato, rifacendo di continuo lo stesso percorso. Una delle zampe posteriori è assicurata a una fune azzurra che permette all’animale movimenti limitati. Strabiliato, mi avvicinò di più e rimango colpito dagli occhi di quelle creature impegnate in quella assurda attività: sono molto tristi.


sabato 14 febbraio 2015

LARGO AI GIOVANI



Domani avrò quarant’anni. Darò così addio alla gioventù e diventerò un vecchio.
Oggi è stato il mio ultimo giorno di lavoro. Questa mattina sono uscito da casa presto, come ho sempre fatto per tanti anni, per arrivare puntuale in ufficio. Ho svolto le mie abituali incombenze con efficienza, professionalità e precisione. Poi, al termine della giornata, ho salutato i colleghi per l’ultima volta. Sia quelli ormai prossimi alla pensione che quelli giovani. Alcuni di questi ultimi hanno appena vent’anni, di fronte a loro c’è un’intera vita lavorativa. Il tempo, tuttavia, trascorrerà in fretta e ben presto si troveranno nella mia condizione attuale. Di colpo saranno vecchi.
Mi aggiro frastornato tra le pareti della mia abitazione. Un piccolo appartamento nel quale ho vissuto a lungo e al quale devo dire addio. Nei giorni scorsi ho già raccolto la mia roba e l’ho sistemata in alcune valigie e in due grossi sacchi di plastica neri. I vestiti, alcuni libri, vari insignificanti oggetti che per me però rappresentano un ricordo, la maniera per rievocare attimi felici della mia esistenza. Da domani non abiterò più qui, sarò trasferito.
Mi lascio cadere sulla mia poltrona preferita, che ovviamente non potrò portare con me, e rifletto.
Considero che in passato le persone anziane godevano di autorità e rispetto. I vecchi erano i depositari del sapere e della saggezza. Adesso sono considerati gli elementi deboli della società, privati di ogni autorevolezza, e condannati senza appello all’emarginazione. Superata una certa soglia d’età, uomini e donne sono ritenuti non più in grado di sostenere i ritmi frenetici e competitivi del mondo del lavoro. Non più all’altezza della vita di tutti i giorni, dei suoi numerosi obblighi sociali. La conseguenza drammatica è il subentrare in questi individui di uno stato di frustrazione che conduce a una inevitabile crisi di identità. Gli esseri umani più attempati all’improvviso non sanno più quale sia il loro ruolo, da quel momento in poi la loro unica missione è quella di sopravvivere.
Fino a poco tempo fa non era così. Il prolungarsi, sempre più, della vita umana aveva comportato l’adozione di una scelta che ora appare scriteriata: l’innalzamento senza limiti dell’età della pensione. A un certo punto tutti i posti di vertice nell’industria, nella finanza e nelle istituzioni erano occupati da arzilli ottuagenari che non avevano alcuna intenzione di farsi da parte per favorire il ricambio. Così come in fabbrica gli operai con più di cinquant’anni di lavoro alle spalle rappresentavano la norma e non l’eccezione. Poi c’è stata la ribellione dei giovani, e sappiamo com’è andata a finire. D’altra parte era inevitabile che ciò accadesse. C’è stata una brusca inversione di tendenza, e tutto è stato rimesso in gioco, in virtù di quella pressione esercitata dalle masse giovanili esasperate che per poco non è sfociata in terribile violenza. Il processo, in ogni caso, è stato governato. Le misure attuate per rimediare agli errori del passato si sono però rivelate, a mio avviso, troppo drastiche. Io ne sono una vittima. Seguo con attenzione, ancora oggi, la battaglia di un piccolo movimento in cui mi riconosco affinché ci sia un ripensamento e l’età di quiescenza sia di nuovo aumentata, sebbene di poco. Per me, comunque, è ormai troppo tardi.
Domani non dovrò preoccuparmi di nulla. Aspetterò finché non mi verranno a prendere, con il furgoncino della Casa Protetta, e mi condurranno nella mia nuova abitazione, una stanzetta che dovrò condividere con un altro vecchio come me. In quel posto troverò tutto ciò che mi serve. Ci sarà il bar, dove avrò diritto a due consumazioni giornaliere, e anche il cinema. Avrò la possibilità di giocare a bocce e a carte, potrò trascorrere lunghe ore a pescare nel laghetto. Non mi toccherà preoccuparmi dei pasti, dei vestiti e della pulizia della camera. Naturalmente non potrò uscire dal perimetro della Casa, né disporrò di denaro, che comunque sarebbe del tutto inutile. Insomma, godrò di parecchi privilegi.
Il mio nuovo status purtroppo comporterà anche delle rinunce, alcune delle quali assai dolorose.
Innanzitutto non potrò più avere figli. Sarò sottoposto a un piccolo intervento chirurgico che mi renderà per sempre sterile. È ormai dimostrato che i nati da genitori troppo anziani hanno problemi di inserimento nell’attuale tessuto sociale. Io di figli non ne ho, e dunque non sarò mai genitore. L’esistenza frenetica che ho condotto nella prima parte della mia vita mi ha sempre impedito di incontrare la persona adatta con la quale poter formare una famiglia, non ho mai avuto la possibilità di fare dei progetti. Un giorno dopo l’altro sono invecchiato, e adesso è inutile abbandonarsi al rimpianto.
Tra le altre cose che perderò passando all’età senile c’è il diritto di voto. Gli anziani non possono intervenire nella vita pubblica, non hanno la prerogativa di esprimere le loro idee politiche attraverso la partecipazione al processo elettorale. La pratica degli affari collettivi è materia esclusiva dei giovani. Noi vecchi non abbiamo interesse, e necessità, che qualcosa cambi. Insomma, che ci sia un rinnovamento, perché nulla ci riguarda più. La nostra vita, dal momento in cui entriamo nella Casa, è tutta pianificata, regolata fin nelle sue minime sfaccettature. Dobbiamo pensare soltanto al riposo, poiché il nostro contributo alla società è ormai esaurito. Un periodo di ristoro e di sollievo che potrà durare anche parecchi decenni, durante il quale correremo il rischio di morire di noia, ma al quale poco per volta ci abitueremo. Diventeremo consapevoli della nostra inutilità, perché nessuno ci starà a sentire, nessuno verrà a chiedere un nostro parere. Dovremo invece pensare a rilassarci, a vivere giornate tutte uguali ma serene e tranquille, ad aver cura del nostro corpo e, impresa alquanto più impegnativa, della nostra mente. Lentamente tutte le scorie e le tossine accumulate negli anni di faticoso lavoro saranno espulse, ci trasformeremo così in esseri nuovi, distaccati dalle cose materiali, dalla lotta quotidiana, liberi dall’ambizione, non più schiavi dei sentimenti, mondati da ogni bruttura.
Domani inizierà la mia nuova vita. Vivrò fino alla fine circondato soltanto da gente della mia età o più anziana. Non avrò più alcun contatto con le nuove generazioni, che si succederanno in un processo naturale del quale non avrò percezione.
Ed è proprio questo l’aspetto positivo della mia nuova qualità di vecchio. Quello che più mi appaga e più mi gratifica: non vedrò più persone giovani, non avrò più alcun contatto con loro, nessun tipo di rapporto. E questo è un bene, perché io i giovani li odio

domenica 8 febbraio 2015

IL CAMPO


Il campo si intravede dietro una rete metallica, tutta rotta e arrugginita. Foglie enormi, un po’ ingiallite, un groviglio vegetale inestricabile corre sul terreno, ne ricopre ogni minimo spazio. Le zucche ormai non ci sono più. Raccolte, giustiziate spolpate incise. Forse in occasione di Halloween.
“Eccolo, lo dobbiamo ripulire”.
Annuisco dubbioso. Penso che potrei andarmene, nessuno mi obbliga a rimanere. E invece resto.
“Andiamo, sta cominciando la distribuzione degli attrezzi”.
Adesso c’è tanta gente. Tutti corrono verso un fabbricato dai muri scrostati, adiacente al campo. Mi pare di riconoscere qualcuno tra loro, ma non ne sono del tutto sicuro. Alcuni sono contadini, altri sono in giacca e cravatta, come me. Parlano un dialetto che fatico a comprendere. Sembrano contenti.
Entriamo nell’edificio. Mi metto in coda sulle scale. Il brusio è insopportabile, poi finalmente arriva il mio turno. Sono sul pianerottolo, di fronte a una porta chiusa.
“Non devi entrare. Non si può più”.
Avvicino l’orecchio allo spioncino. A stento riesco a percepire una voce che sussurra.
“Siete in tanti. I picconi sono finiti. Dovete tornare giù, a piano terra, nella grande sala, dove troverete altri attrezzi”.
Scendo le scale ed entro in una ampia stanza con il pavimento di cemento. Al centro c’è un tavolo di pietra sul cui piano sono posati strani arnesi. Non riesco a capire a che cosa possano servire. Soltanto uno di essi mi appare familiare: un calibro a nonio. Serve a misurare la larghezza di un oggetto. Forse la dimensione delle zucche, quelle zucche che ormai non ci sono più? Non lo so, poso lo strumento e mi guardo attorno. Non c’è più nessuno. Sono tutti nel campo, intenti a lavorare.
Che fare? Esco dall’edificio senza farmi notare e mi allontano con circospezione.
“Torna più tardi”.
Una voce, proprio dietro di me.

“Potrebbe esserci bisogno di te”.

giovedì 5 febbraio 2015

LEZIONE DI STORIA


Le luci della piccola aula scolastica si riaccendono.
“Allora, ragazzi? Vi è piaciuto il film? Qualcuno di voi, per caso, per puro caso, l’aveva già visto?” domanda il professor Caprotti, il docente di storia.
Silenzio.
“Dunque?”
Finalmente si alza una mano. È quella di Olimpia Melandri, una ragazzina bionda.
“Mi sembra un film per adulti” dice.
“Per adulti? Che cosa vorresti dire? Hai per caso assistito ad accoppamenti o accoppiamenti?” Il professore ridacchia per la battuta. Soltanto lui.
“No, intendevo dire che non l’ho capito” ribatte la studentessa, che indossa una camicetta trasparente.
“Ah! Vedi, in realtà non c’è nulla da capire. Si tratta di un’opera soprattutto descrittiva. Vi si rappresenta l’immagine di una città, la nostra città…”
“Io sono di Nettuno, professore” interrompe Alfio Giusti.
“Giusti, vuoi andare fuori?”
“Beh, un giretto me lo farei volentieri”.
“Taci e ascolta! Dunque, stavo dicendo che Roma, la Città Eterna, è illustrata nel film in tutto il suo splendore, in quello che era il suo splendore, per meglio dire. Voi sapete bene che oggi, purtroppo, non è più così.” Caprotti emette un lungo sospiro di nostalgia, poi riprende a parlare.
“Questo film ha vinto il Premio Oscar. Lo sapete che cos’è il Premio Oscar, vero?”
Silenzio.
“Melandri, dimmelo tu.”
“Beh… è quella cosa che fanno in televisione, dove danno i premi agli attori più belli e alle attrici più fighe…”
“Ti assicuro che i riconoscimenti assegnati non riguardano la bellezza degli attori, e che coinvolgono anche registi, sceneggiatori e tanti altri artisti che operano nel mondo del cinema.”
“Ah sì?”
“Lasciamo perdere, Melandri. Allora, la mia intenzione era quella di prendere spunto da quest’opera per parlare proprio di quel periodo storico e degli anni immediatamente successivi. Voi sapete bene come non si riesca mai a portare a termine il programma scolastico, si finisce sempre per trascurare ciò che io invece considero molto importante: il periodo storico più vicino alla nostra epoca. Quindi, ragazzi, per una volta toglietevi le cuffie e gli occhiali HW e tenete le mani lontane da tutti gli aggeggi elettronici didattici e non. Concentratevi su ciò che avete sentito dai vostri genitori, dai vostri nonni, raccogliete i vostri ricordi e discutiamo degli avvenimenti di quel periodo storico, e di come quei fatti abbiano determinato conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti noi. Il tema, naturalmente, è Roma, la nostra amata Roma”.
“Mi sento nuda senza niente addosso, professore. Non è che lei è un po’ pedofilo?” dice Alda Gentilini, una ragazza con le labbra dipinte di arancione.
“Smettila, Gentilini. Se fai ancora la spiritosa ti mando dal preside. Cortese, che vuoi?”
“Mio padre è più ‘gnorante di me, e mi’ nonno non l’ho mai conosciuto perché è schiattato tanti anni fa mentre faceva delle scommesse clandestine” dice Alvaro Cortese, un ragazzino che porta una decina di anelli al naso.
Il professor Caprotti sbuffa.
“Avrai pur letto qualche libro, no?”
“Preferirei non rispondere a questa domanda” dice Cortese, serio. “Non sono molto preparato”.
“Ragazzi, cerchiamo di essere seri. Per cominciare vi voglio fornire un indizio. Voi sapete a chi è intitolata la nostra scuola, vero?”
Silenzio.
“Come, non lo sapete? Eppure tutti i giorni, quando entrate a scuola, passate sotto quella grossa targa. Quando andate in un negozio non la guardate l’insegna?”
“No, io guardo la vetrina” dice Sebastiano Rotondi, grattandosi il capo rasato.
“Matteo Renzi! La nostra scuola è intitolata a Matteo Renzi!” sbotta Caprotti. “Chi era costui?”
“Un pittore”.
“No!”
“Uno scrittore”.
“No!”
“Un calciatore”.
“Un calciatore? Sarti, non si intitolano scuole ai calciatori!”
“Non è vero, professore” ribatte il ragazzo, risentito. “A Rosario, in Argentina, una scuola elementare è stata intitolata a Lionel Messi”.
“Davvero? E tu come lo sai?”
“M’interesso di sport, professore”.
“Ah! Bravo, è buona cosa coltivare degli interessi”.
“È vero?” bisbiglia Melandri al compagno. “Oppure è una balla?”
“Certo che è una balla!” risponde l’altro. “Chi intitolerebbe mai una scuola al più grande evasore fiscale della storia?”
“Proseguiamo” dice Caprotti. “E fate silenzio. Dunque, stavamo parlando di Matteo Renzi, vale a dire il primo ministro dell’epoca, intesi? Renzi andò al potere subito dopo le vicende, se così si può dire, narrate nel film che abbiamo appena visto. Certo, lo fece in maniera un po’ discutibile, il suo fu un vero e proprio colpo di mano, ma subito la sua azione di governo si dimostrò piuttosto innovativa e molto efficace. Purtroppo tutto si rivelò nient’altro che una pura illusione. Le forze del male tramavano nell’ombra. Il nuovo sacco di Roma aveva già avuto inizio - i lanzichenecchi questa volta erano autoctoni - e a nulla servì l’opera di moralizzazione posta in atto dal coraggioso sindaco del tempo. Vi ricordate chi era?”
“De Marino!” urla Luca Giorgini, un ragazzone con un osso di pollo infilato nel lobo dell’orecchio.
“Marino” precisa il professor Caprotti. “Giorgini, cerchiamo di non storpiare il nome di un uomo che è considerato un eroe nazionale. Se avrete la possibilità di passare di fronte al Campidoglio, e ne dubito, osservate il busto che è stato collocato sulla piazza. Si tratta proprio del grande sindaco Marino”.
“Io l’ho visto quel busto, quando ero piccolo, ed è brutto da far schifo! Mi metteva paura.”
“Luchetti smettila, per favore. Un po’ di rispetto!”
“In ogni caso, di quell’epoca, è rimasta qualche significativa testimonianza” riprende il professor Caprotti. “I monumenti, per esempio. Sapete ricordarne qualcuno?”
“Il Nuovissimo Stadio Olimpico!” esclama Sarti.
“Ah! Dimenticavo il nostro esperto di sport. È vero. Il nuovo stadio fu costruito in previsione delle Olimpiadi del 2024. Si tratta di un’opera faraonica. Pensate, dispone di quattrocentomila posti!”
“Ma adesso viene usato come discarica a cielo aperto” dice Lucia Flavi, mostrando i suoi luccicanti piercing sulla lingua.
“Purtroppo sì, tuttavia dall’esterno si rivela comunque un’opera architettonica incredibile. Altri esempi?”
“Il Colosseo!” dice Emilio Ghezzi, appena risvegliatosi da un lungo sonno.
“Ma va’! Non stiamo parlando della Roma antica. Ghezzi, cerca di prestare più attenzione. E poi il Colosseo non c’è più”.
“L’Arena Andreotti”. Ancora Sarti.
“Bravo Sarti. Anche questo imponente impianto fu edificato in occasione delle Olimpiadi. Matteo Renzi riuscì a convincere il Comitato Olimpico Internazionale a introdurre per quella volta nel programma delle gare il combattimento tra gladiatori. Qualcosa a cui non si assisteva da molto tempo. Ricordo che quella disciplina ebbe un grande successo”.
“Però vinse un ucraino.”
“Come dici Sarti?”
“Ho detto che la gara fu vinta da un ucraino, Aleksey Pavlychko, che sconfisse nella finale il gladiatore giapponese Nakamura. La grande speranza azzurra, Nando Onofri detto Maciste, si fermò in semifinale. Si trattò di una decisione arbitrale molto discussa quella che…”
“Basta così, Sarti. È inutile addentrarci in particolari tecnici che potrebbero risultare troppo complicati per i tuoi compagni. E anche per me. In ogni caso mi complimento per la tua preparazione in storia dello sport. Se fosse del medesimo livello nelle materie scolastiche saresti considerato un genio.”
“Grazie, professore.”
“Tra i monumenti di rilievo mi permetto di aggiungere il grande Centro Commerciale Aldo Moro, a Tor Vergata. Pensate, più di centomila metri quadrati di negozi, cinema, discoteche, teatri e tante altre cose. Un vero capolavoro.”
“Mi hanno detto che adesso è tutto vuoto e pieno di ratti più grossi dei gatti” dice Annabella Viviani, una ragazzina con le sopracciglia depilate e i capelli azzurri.
“Eh? Può essere, può essere…” mormora il professor Caprotti, pensieroso.
Il suono improvviso della campanella scatena il caos. Tutti gli studenti si alzano in piedi, si agitano, urlano.
“Ragazzi, dove credete di andare?” strepita Caprotti cercando di farsi sentire. “Tanto lo sapete che non potete uscire finché non arriverà la scorta a prelevarci. Nell’attesa, se volete, possiamo riguardare un pezzetto di film. Non avete voglia di rimirare ancora una volta la grande bellezza della Roma di un tempo?”
“Nooooo!”