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domenica 18 gennaio 2015

L'AULA


Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli…
Lo aveva detto, e lo aveva fatto. Non come quell’altro, quello pelato, che tanti anni prima aveva proferito la medesima minaccia ma non l’aveva attuata, anche se poi si era macchiato di nefandezze ben peggiori. A modo loro, si tratta comunque di due sbruffoni, di due pericolosi gradassi. In ogni caso tocca  a me affrontare quest’ultimo, l’attore riccioluto.
Percorro a piedi le vie della Città Eterna che, come sempre, pare indifferente alle miserie umane. Ne ha viste troppe ormai, ha perso la capacità di stupirsi, preferisce sonnecchiare in paziente attesa che anche ciò che sta accadendo in questi giorni cupi trascorra e si trasformi con rapidità in storia.
Cammino da solo, privo di scorta, perché non l’ho mai voluta e ora comunque non l’avrei più. Nessuna persona amica mi accompagna. Tra i passanti che incrocio, tra quelli che mi riconoscono, colgo sguardi di ostilità e di odio puro. Eppure non ho fatto nulla di male. Al contrario, i miei propositi erano positivi, sono sicuro che avrei potuto dare il mio significativo contributo alla rinascita di questa nazione disgraziata. Lo giuro, la mia non era soltanto ambizione sfrenata. Certamente c’era pure quella, non lo nascondo, ma ho sempre nutrito grande fiducia nelle mie capacità, non vedevo l’ora mi mettermi alla prova. Non ne ho avuto il tempo perché tutto è accaduto così in fretta, in maniera del tutto imprevedibile che anch’io, che mi sono sempre vantato di vivere a velocità doppia rispetto a tutti gli altri, ne sono stato dapprima sorpreso e poi travolto.
Tengo gli occhi bassi, non voglio che la mia espressione, di solito un po’ sfrontata, possa apparire come una provocazione. Ignoro gli insulti che mi sono rivolti e tiro dritto.
“Stronzo!”
“Pezzo di merda!”
“Vattene a casa!”
“Vaffanculo!”
Mi avvicino alla sede del partito, dove mi staranno tutti aspettando. È in quell’edificio che adesso si riunisce il governo, il mio governo, quello che è durato un solo giorno. Che nessuno sa se sia ancora in carica o meno. A me piace pensare che lo sia ancora, anche se ciò rappresenta più che altro un’illusione.
Di fronte al palazzo ci sono due poliziotti. Hanno le giubbe slacciate, parlano e fumano. Il loro atteggiamento è rilassato e strafottente. So bene che, se ci fossero dei disordini, non interverrebbero. Proprio ieri sera un gruppo di scalmanati ha tentato di occupare la sede del partito e la polizia non è accorsa. Gli agenti sono rimasti a guardare. Se non fosse stato per i nostri ragazzi, quelli del nostro servizio d’ordine improvvisato, ora non avremmo neppure un luogo dove riunirci. Saremmo ridotti alla clandestinità.
“Tanto non siete stati eletti! Che volete?” direbbero i cittadini, ormai trasformati in un branco di esaltati, di minacciosi fanatici.
All’ingresso ci sono due robusti giovanotti. Mi riconoscono, mi fanno un cenno di saluto e mi permettono di entrare. I loro sguardi sono affranti, quasi rassegnati.
Mi dirigo con passo spedito verso la sala riunioni, oltrepassando corridoi deserti, e di colpo me li trovo tutti di fronte, seduti intorno al grande tavolo ovale. Ci sono i miei compagni di partito, che mai come in questo momento sento così vicini, e ci sono i miei ministri, diventati i ministri del nulla nonostante le pompose deleghe che ho loro assegnato. Senza dire nulla mi accomodo, mesto quanto loro. So già che questa riunione durerà poco. C’è ben poco che io possa dire, e niente che possa fare.
“Ragazzi, ci sono novità?” domando, anche se conosco già la risposta.
Tutti scuotono il capo, all’unisono, sconsolati.
“Perché la polizia non interviene, perché non fa nulla?” Mi rivolgo al mio ministro dell’Interno. Non ho mai potuto soffrire quel tipo, pure se sono stato costretto a collaborare con lui. Non sopporto i suoi occhi bombati e falsi, i suoi incisivi da roditore. Eppure adesso per lui provo quasi pena, tanto è il suo disorientamento, la sua evidente incapacità.
“Gli agenti dicono che non interverranno mai contro i cittadini” risponde con un filo di voce.
“E la magistratura?” Interpello il ministro della Giustizia, un bravo ragazzo del mio stesso partito.
“Tutto fermo, tutto immobile. I magistrati vogliono capire, attendono l’evolversi della situazione”.
“E da oltre confine?”
“Osservano con apprensione, ma non c’è ancora stata nessuna presa di posizione ufficiale. Si tratta di questioni interne, dicono. Nessuno ha intenzione di ingerire.” La giovane ministra degli Esteri è livida in volto, ha profonde occhiaie.
Annuisco.
“Qualcuno di voi ha parlato con il Presidente?”
Il mio sottosegretario si schiarisce la voce prima di intervenire.
“È rintanato da giorni nei suoi alloggi. Non vuole parlare con nessuno. È deluso e scoraggiato. Mai avrebbe pensato di vivere una simile situazione. Si sente soprattutto tradito, tradito dai cittadini.”
Sospiro.
“Bene, a questo punto non mi rimane che andare là”.
“No! Non farlo, può essere pericoloso.”
Scrollo le spalle, indirizzo a tutti un saluto e mi avvio verso l’uscita. Nessuno tenta di fermarmi.
Esco in strada, scorgo i due poliziotti seduti su un gradino. Stanno giocando a carte.
Cammino in direzione del Parlamento. Almeno, quel che ne è rimasto. L’aula del Senato non esiste più, è andata a fuoco ed è completamente distrutta. In fondo è stato semplice ridurre il numero dei parlamentari. È bastato incenerire i loro poggiaculo e tutti i senatori sono spariti come per incanto.
È facile ormai entrare a Montecitorio. Non ci sono più controlli, non ci sono più neppure le porte.
L’emiciclo appare buio e quasi deserto. Dopo i primi giorni, quando i cittadini si sono riversati in massa nell’aula spinti soprattutto dalla curiosità, seguiti dai turisti intenti a scattare fotografie, l’interesse è presto scemato. Sul banco della presidenza c’è una donna anziana e malvestita che sta arringando un gruppo di disgraziati. Parla di pensioni, infarcendo il suo sconclusionato discorso di innumerevoli luoghi comuni. Le stesse argomentazioni che, fino a poco tempo fa, si ascoltavano soltanto al bar.
In un angolo, accovacciati intorno a un barbecue, ci sono alcuni deputati. Stanno arrostendo salsicce. Riconosco tra loro l’avvocato Lo Russo, uno degli esponenti di spicco dell’altra opposizione. Adesso però fa comunella con loro. Mi abbottono la giacca – sono l’unico che la indossa – e mi avvicino. L’avvocato appare male in arnese, il suo pizzetto non è curato come di solito, i suoi abiti sportivi sono stazzonati e sporchi.
“Che cazzo ti guardi?” mi apostrofa. Finge di non conoscermi. Mi allontano, desolato.
Che ci faccio qui? Ormai è tutto inutile. Mentre sto per uscire scorgo lui, l’attore riccioluto. I suoi occhi lampeggiano. Mi viene incontro, combattivo come sempre.
“Siete finiti! Finiti!” strepita. “Statevene a casa! Il vostro tempo è scaduto!”. Alcune gocce di saliva si depositano sui risvolti della mia giacca. Non indietreggio, so che questa è la mia ultima possibilità di dialogare con lui.
“Ascolta…” tento di dire, accennando un sorriso.

“Vaffanculo!” mi urla con un ghigno. Poi mi volta le spalle, si sbottona i calzoni e piscia su uno scranno.