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martedì 8 dicembre 2015

ESSERE LIBERO


Il presidente Bertazzoni era seduto dietro l’imponente scrivania, con l’immancabile sigaro tra le labbra. Al suo fianco, in piedi, c’era il direttore sportivo Loschi.
“Accomodati, Furlan” biascicò Bertazzoni, sbuffando una nuvola di fumo.
Libero Furlan sistemò in qualche modo il lungo corpaccione sulla scomoda poltroncina.
“Sai perché ti abbiamo convocato, vero?” sibilò Loschi con la sua voce sottile.
Il calciatore annuì.
“Il contratto, dobbiamo parlare del contratto” disse il presidente.
Libero Furlan, all’inizio Anni Novanta, era rimasto uno dei pochi calciatori a non fare ricorso a un procuratore per essere rappresentato nei propri interessi. Li odiava, i procuratori, li considerava null’altro che squallide sanguisughe. Lui si riteneva perfettamente in grado di occuparsi delle proprie questioni economiche. Tutti i suoi compagni di squadra confermati avevano già provveduto a rinnovare il contratto per la futura stagione. Rimaneva soltanto da discutere la sua posizione, quella del capitano, della bandiera della squadra, del trascinatore che, nella stagione passata, aveva contribuito al grande risultato ottenuto, il secondo posto nel massimo campionato. Un successo incredibile, considerando che la società, fino a quel momento, aveva militato soprattutto nella serie cadetta e, le poche volte che aveva conquistato la promozione nella serie superiore, era subito retrocessa.
“Non siamo riusciti a cederti” disse Loschi, mentre il presidente distoglieva lo sguardo.
Furlan, per un attimo, rimase senza parole. Poi si riprese.
“Che cosa? Intendevate cedermi? Non mi avete detto nulla.”
“Se fossimo riusciti a trovare una buona sistemazione per te l’avremmo comunicato soltanto a cose fatte. Abbiamo pensato a qualcosa di prestigioso, di adatto a un atleta della tua levatura, della tua grande esperienza. Il fatto è che nessuno ti ha richiesto.”
“Per quale motivo non mi volevate più?” chiese Furlan, frastornato.
Bertazzoni sospirò a lungo prima di parlare.
“Rodrigo Macchi” disse. “Dice che non rientri nel suo progetto. In ogni caso, adesso che abbiamo deciso di tenerti, dovrà farsene una ragione e cercare di utilizzarti nel migliore dei modi. Cribbio! Comando ancora io, qua!” E sbatté un pugno sul tavolo. Loschi sobbalzò.
Rodrigo Macchi era il nuovo allenatore, appena ingaggiato. Quello vecchio, Salvatorelli, aveva deciso di ritirarsi, chiudendo in bellezza una lunghissima carriera. Aveva appena compiuto settantacinque anni, dei quali gli ultimi venti trascorsi alla guida della stessa squadra. Salvatorelli, persona serena e bonaria, per Furlan era stato come un secondo padre. La sua decisione di abbandonare lo aveva molto rattristato.
“Torniamo al contratto” disse infine il presidente. Prese la parola Loschi.
“In considerazione della tua età avremmo deciso di rinnovare il contratto per un solo anno, con un piccolo ritocco dell’ingaggio verso il basso. Cerca di essere ragionevole, Furlan, hai appena compiuto trentaquattro anni e la nostra intenzione è quella di investire sui giovani, così come vuole il nuovo allenatore. Allo stesso tempo non vogliamo rinunciare a te, convinti che hai ancora molto da dare alla squadra, al servizio della quale potrai mettere, come sempre, capacità ed esperienza.”
Loschi si asciugò la bocca con un fazzoletto.
Furlan scosse il capo spelacchiato. Aveva perso i capelli a causa dei troppi colpi di testa, amava dire scherzando. Un po’ però ci credeva davvero.
“Almeno due anni di contratto con un piccolo adeguamento verso l’alto” disse, risoluto.
Loschi allargò le braccia. A suo avviso si trattava di una richiesta del tutto irragionevole.
Il presidente Bertazzoni si riaccese il sigaro, che nel frattempo, come spesso gli succedeva, aveva lasciato spegnere.
“Forse possiamo trovare un accomodamento” disse. “Tenendo conto della tua grande ultima stagione to ti offro un anno di rinnovo con l’opzione per un secondo anno, a stipendio invariato.”
Loschi si esibì in una smorfia di contrarietà, mentre Furlan si alzò in piedi e strinse la mano al presidente, a suggello dell’accordo.
Libero Furlan, fresco di rinnovo, due giorni dopo conobbe il nuovo allenatore.
Rodrigo Macchi era un tipo bassotto, dalla pelata talmente lucida che pareva incerata. Indossava sempre occhiali a specchio e aveva la parlantina sciolta, contraddistinta da uno spiccato e quasi fastidioso accento romagnolo.
Furlan gli strinse la mano molliccia poi, da buon veneto, non gliela mandò a dire.
“Mister, ho saputo che non mi voleva”.
L’altro non si scompose per nulla. Anzi, sogghignò.
“È vero. Avrei preferito averti come avversario.”
“Perché?”
“Vedi, un calciatore con le tue caratteristiche non può rientrare nella mia concezione di calcio. Tu sei Libero di nome e anche di ruolo, e a me i liberi non piacciono, non li voglio, per me il ruolo che tu hai sempre ricoperto non esiste.” Sorrise soddisfatto.
“Non giocherò?” domandò Furlan, che già si stava irritando ma che si sforzava di rimanere calmo. Quel tappetto era proprio antipatico e pieno di boria come gli era stato descritto da molti.
“Come ho promesso al cavalier Bertazzoni cercherò, in qualche maniera, di utilizzarti. Tuttavia tu dovrai snaturarti, cambiare completamente modo di giocare, altrimenti con me non avrai spazio.”
“Non farò più il libero?” chiese ingenuamente Bertazzoni. Una squadra senza libero, per lui, era come una messa senza il prete.
Rodrigo Macchi si lanciò in uno degli sproloqui per i quali era ben conosciuto e che rappresentavano la gioia dei giornalisti sportivi.
“I ruoli, nelle mia squadre, sono indefiniti e ininfluenti. Tutti attaccano e tutti difendono…” Si bloccò.
“A proposito, nei quindici campionati che hai disputato, quanti gol hai segnato?”
“Due, entrambi di testa” rispose prontamente Furlan. Era molto orgoglioso di quelle due reti. Segnate da un libero!
“Visto? Questo rafforza ancora di più le mie certezze. Sei antico, preistorico.”
“La devono buttare dentro quelli che stanno davanti, mica quelli dietro!” disse Furlan.
“Lasciami continuare, per favore. I difensori, vale a dire quelli che, indipendentemente dal ruolo inizialmente occupato, si trovano in posizione più arretrata nel momento in cui la compagine avversaria contrattacca, devono rimanere perfettamente allineati, pronti a far scattare la trappola del fuorigioco.”
Macchi prese fiato e Furlan ne approfittò per inserirsi.
“Trappola? Si gioca a pallone, mica alle imboscate!”
Il mister non gli badò.
“Un calciatore, come fa il libero, che ciondola dinnanzi al portiere, impedisce di attuare tale strategia. Insomma, giocare con il libero è come giocare in dieci. Inoltre, anche da un punto di vista etico, il ruolo di libero è un ruolo scorretto, negativo. Il libero è anarchico, perché non segue i movimenti della squadra, è individualista, perché opera da solo, ed è una specie di parassita, anzi un avvoltoio che vive sulle disgrazie dei compagni, che si nutre dei loro errori, che si mette in luce a scapito di altri. Per me, invece, esiste soltanto il collettivo. Tutti sono uguali, tutti sono intercambiabili, tutti sono sostituibili e facilmente rimpiazzabili.”
Furlan notò con disgusto che agli angoli delle labbra di Macchi si era accumulata un po’ di bavetta bianca. Collettivo? Tutti uguali? Questo sarà comunista, pensò, lui che aveva sempre votato per la Democrazia Cristiana.
Rodrigo Macchi lo scrutava, le mani sui fianchi, proprio come il duce. Accidenti, ma questo era rosso o era nero? Libero Furlan prese la sua decisione. Estrasse dal borsone le scarpette e andò a gettarle in un cestino di rifiuti. Poi si avvicinò al mister, che ora sembrava stupito.
“Come dice lei, continuerò a essere Libero di nome, non più libero di ruolo, ma sempre libero di condizione!” gli urlò in faccia. Qualche goccia di saliva finì sui lucidi occhiali a specchio del mister.


domenica 6 dicembre 2015

OCCASIONI PERDUTE


Il sole sta per congiungersi con l’orizzonte. Il suoi ultimi stanchi bagliori donano alla superficie dell’acqua un colore grigio brillante con lievi riflessi dorati.
E lei è là, in mezzo alle sue amiche, nell’atrio della scuola. I miei occhi fissano il suo caschetto di capelli neri, il suo viso pallido, le gambe inguainate nei jeans, l’avambraccio nudo, ricoperto da invisibile peluria, che sorregge il pugno di libri legati con una cinghia rossa.
“E quella ragazza sarebbe bella? Lo hai visto il naso? Guardalo bene, ha una gobba” dice il vecchio, che però non esiste.
Gli occhi di Antonella sono scuri, sul suo nasino un po’ schiacciato è presente una minima gibbosità, che non mi disturba affatto. Anzi, questo suo piccolo difetto la rende ancora più bella. La perfezione assoluta non mi attira, mi annoia.
“E così hai deciso di fartela piacere per forza, vero? Sei proprio uno stupido. Ma poi, mi domando, a che serve tutto ciò, tutta questa costruzione mentale, se lei non ti guarda neppure? Dai retta a me, scegline un’altra, che sia bella sul serio, e sbavaci dietro. Tanto, è la stessa cosa”. Ancora il vecchio, che in realtà non esiste.
Mi avvicino al gruppo di ragazze, intente a confabulare tra loro, a ridere e scherzare. La più seria tra tutte è proprio lei, Antonella. La guardo, lei ricambia per un istante la mia occhiata. I suoi occhi brillano. Ancora un passo, soltanto uno. Lo faccio, ma nell’altra direzione.
“Coglione! Sei un povero coglione. Ormai era quasi fatta, qualsiasi cosa avresti detto la bruttona sarebbe caduta ai tuoi piedi. Non aspettava altro. D’altra parte, chi la vuole una come quella? Accidenti quanto è bassa!” Taci, vecchio, che tanto non esisti.
Sfilo la scarpa destra. In superficie la sabbia è ancora tiepida. Sotto, è umida.
Lui dorme sul ciglio della strada. La coperta tirata sul capo, per difendersi dal freddo, per proteggersi dagli sguardi pietosi, che fanno male. Al mattino, quando il suo spirito si risveglia, il corpo intirizzito fatica a rimettersi in moto. Il letto viene rifatto, le coperte sudicie vengono lisciate con cura, i pochi oggetti, uno zaino logoro, un bicchiere di plastica, una bottiglietta d’acqua, vengono allineati accanto al misero giaciglio.
“Tu racconti balle. Non dorme sul bordo della strada, ma sotto il portico, al riparo delle grandi colonne. Ti piace esagerare, adori costruire uno scenario più tragico di come sia in realtà? Quel miserabile è felice, è libero. Oppure quella visione quotidiana rimorde la tua delicata coscienza? Vuoi donargli qualche monetina? Fallo! Vorresti per caso prendere il suo posto? Accomodati!” Queste le parole del vecchio, e non esiste.
A volte mi chiedo se riuscirei a condurre una vita simile. Mangiare quando capita, aspettare paziente gli spiccioli di elemosina, dormire la notte quando il termometro scende sotto lo zero, e il gelo poco alla volta ti afferra e ti strapazza, ti annienta. Mi chiedo quali sarebbero i miei sogni. Morirei. Non voglio morire, voglio continuare a essere un vigliacco, voglio detestarmi, e tiro dritto.
“Hai visto? Non avevo forse ragione?” il vecchio, che non esiste.
È nuda, o quasi. Mi guarda. Mi sfida. Sollevo il frustino e inizio a percuoterla, con colpi deboli. Le frange di cuoio colpiscono la sua pelle con sempre minore forza, pelle che nemmeno si arrossa. Lei è delusa, lo sento, ma non dice nulla. Tacitamente mi invita a riprovare, cerca di incoraggiare la mia inettitudine, allo stesso tempo è sconcertata dalla mia mollezza. Ma il mio braccio è rigido, pesante, faccio fatica a sollevarlo, lo contrasto quando ricade.
“Frustala! Colpisci! Falle male! È quello che vuole, no? Ti chiede soltanto di batterla, di causarle dolore. È questo ciò che le piace, quello che si aspetta da te” dice il vecchio, che non esiste.
Rivoli di sudore freddo rigano la mia fronte. Ho la nausea. È inutile, ho paura di farle del male, abbandono il frustino.
“Dovevi insistere! Ancora qualche colpo ben assestato e avresti scatenato il piacere. Sei un incapace, non osi mai.” Zitto, vecchio, se non esisti.
Tolgo la scarpa sinistra, affondo entrambi i piedi nella sabbia. Sento fresco.
Parole, nel corso della mia vita di parole ne ho pronunciate tante. C’è chi dice, al contrario, che siano state poche. Io ritengo siano state troppe.
“Non è una questione di quantità ma di qualità. Ma, soprattutto, è una questione di opportunità” dice il vecchio, con voce finalmente tranquilla, anche se non esiste.
Sono d’accordo, ciò che importa è il contesto e, soprattutto, sapere scegliere il momento giusto. Quasi mai si riesce a farlo, e si fallisce di continuo. Finché si arriva al momento in cui le parole non sono più necessarie, non servono più. Perché tutte le occasioni sono perdute.
“Bravo, vai adesso” dice il vecchio, che pur non esiste.
Mi incammino verso il mare. Entro in acqua, che ormai è una immensa distesa scura. Chissà fino a dove riuscirò ad arrivare. E il vecchio non c’è più. Non c’è mai stato. Non esiste.

sabato 28 novembre 2015

IN TAVOLA ARRIVANO I PISELLI


E poi in tavola arrivano i piselli.
 “I piselli! I piselli!” urla mentre nessuno bada a lui. I piccoli grumi verdastri portati alla bocca uno a uno, le pellicine sottili trafitte dai denti e la sostanza farinosa disgustosa che si appiccica al palato. Si volta. Il venditore d’auto viene incontro con il suo abito blu da agenzia di pompe funebri, con il garofano rosso all’occhiello e i capelli lisciati all’indietro con la brillantina.
“Se mi cede la sua carretta in cambio le offro due automobili nuove. Guardi come si somigliano, sono praticamente identiche, sono gemelle. Non vuole? Dice che è affezionato al suo rottame? Non vuole o non può? Se è tale l’affetto che prova per quel mucchio di lamiere perché non la porta alla casa di riposo?”
La casa è d’epoca. Suona il campanello dorato sente uno scatto metallico entra. La portineria è un salone con al centro una grande scrivania di mogano seduta dietro una donna molto grassa con i riccioli neri e unti che stillano grasso le gocce cadono sul piano lucido e lo incerano e lo rendono splendido splendente e l’avvocato è lungo il corridoio a destra poi a sinistra poi di nuovo a destra con le scarpe impolverate e stanche che finalmente provano sollievo nel camminare affondare sul morbido tappeto con motivi psichedelici.
Sulla porta con avv. Tal dei Tali c’è un campanaccio che scuote sbatte percuote finché non appare una testa ornata da una parrucca di piume. Buonasera signor avvocato buonasera come sta? Entri pure si accomodi si distenda sulla sedia a sdraio è più comoda come vede non sono solo c’è anche la giudice è mia ospite così  le potrà illustrare direttamente la questione parli pure con lei che io ho bisogno di una doccia, si sa, le udienze sporcano. La giudice smette di sferruzzare lo scruta con occhi di civetta, con pochi abili colpi di forbice si scuce la bocca e gli porge qualcosa.
“Vada a prendere il latte!” ordina sentenzia con voce maschile poi picchia sul tavolo con una mazza e lo rompe in due. Giustizia è fatta.
La stradina di campagna è ricoperta di ghiaia sottile che scricchiola sotto i sandaletti blu. Il baracchino del latte è bianco a forma di anfora e lui toglie il coperchio che é legato al manico con una cordicella e poi annusa l’interno e l’odore di plastica calda è rivoltante subito richiude tappa sigilla. Apre la porticina di metallo si ritrova sull’ampia aia polli tacchini anatre cani lerci che abbaiano che tentano di mordere che rizzano il pelo.
“Non dicono niente” dice il fattore con gli stivali di gomma la grossa pancia che deborda con il bastone in mano che sventaglia davanti a sé si fa strada tra i pennuti come se fosse cieco con i cani fedeli alle calcagna che mi guardano male che pensano se potessimo affondare i denti nei tuoi polpacci teneri.
La lattaia esce dalla stalla con l’odore di merda vaccina che si spande in tutta corte regge il pesante secchio sbuffa con le due mani lo appoggia su un tavolino che traballa sotto il sole delle cinque della tarde. E il toro rinchiuso legato che mai vide luce emette suoni lugubri non pensa all’arena pensa alle vacche pezzate quelle dei suoi sogni proibiti. La superficie del latte nel secchio è ricoperta da mosche alcune morte altre che si agitano in preda ai primi sintomi di annegamento il colo le sposta le allarga si fa strada tra di loro poi il mestolo che accoglie il liquido giallognolo grasso e tiepido e lo introduce nel contenitore dove subito si acquieta e lui che fruga nelle tasche alla ricerca delle monete le afferra le conta le appoggia sul palmo calloso poco femminile poco curato senza traccia di manicure invece grande nodoso e sudicio. E poi scappa di corsa ma attenzione il latte non si deve versare il baracchino non deve cadere altrimenti chi la sente la nonna e se accade poi lo rimanderà alla cascina e tutto ricomincerà da capo, per sempre, prendendo una brutta piega.
“Guardami, sono tutta una piega” piagnucola la tovaglia. Non ti preoccupare, non vedi? Il ferro è già caldo appoggia la lingua sulla piastra rovente la lingua si incolla la stacca a fatica poi inizia tra sbuffi enormi di vapore che raggiungono il soffitto a massaggiare a passare e ripassare sull’asse finché lei si rilassa si spiana ritrova la sua dignità dopo il trauma del lavaggio la vergogna dell’asciugatura così esposta a tutti con la pelle che si secca con le rughe che diventano sempre più marcate il momento dove ognuno dimostra la sua vera età.
Passa e ripassa, con movimenti circolari, premendo schiacciando prima una piastrella poi un’altra fino a che diventano lucide. Ma non troppo! Se il lucido è eccessivo poi si scivola non va bene devi imparare a disciplinarti dice la madre puntando l’indice e lui sfrega e sfrega con la mano destra che poi si stanca con la mano sinistra con le ginocchia sul marmo freddo le ginocchia magre con le rotule appuntite che dolgono premute sulla superficie dura spietata indifferente. Non si va a tavola fino a quando non avrai finito ancora la genitrice a Cenerentolo con sguardo arcigno, già non hai raccolto i fiori di malva, aggiunge, oggi toccava a te.
E poi in tavola arrivano i piselli.
“I piselli! I piselli!” urla mentre nessuno bada a lui. Minuscoli granelli verdastri accompagnati alla bocca con cautela prudenza circospezione schiacciati tra le fauci sprizzano materia farinosa mentre gli occhi sono umidi di pianto.




domenica 22 novembre 2015

CONDOMINIUM


Il grande complesso residenziale, quando sarà ultimato, potrà ospitare più di cinquantamila famiglie. L’intera area che lo ospita, alla quale è possibile accedere attraverso decine di porte sorvegliate, è circondata da un alto muro di cemento. Esibisco il mio pass a un guardiano dall’aria annoiata ed entro. Gli edifici sono tutti collegati tra loro, una specie di serpente in muratura del quale non si intravede la fine. Il cantiere è ancora in piena attività: brulichio di operai affaccendati, urla, enormi gru che si innalzano verso il cielo. Inizio a percorrere gli interminabili portici. Sono bui, le armature impediscono quasi del tutto alla luce di filtrare. A terra scorgo macerie di ogni tipo, pezzi di ferro, cartacce, bottiglie di plastica. Noto con stupore che alcuni negozi sono già aperti, vendono abbigliamento, scarpe, materiale informatico. Ci sono dei bar e dei ristoranti, farmacie. Deduco che molte persone già risiedano nel mega condominio. Imbocco una scala che scende nelle viscere di quello che è chiamato Blocco 1. Dopo un po’ i gradini spariscono per far posto a uno scivolo elicoidale sul quale lascio scivolare le lisce suole delle mie scarpe. Poi mi arresto, quando non riesco più a vedere nulla. Non ci sono più luci. Sento un ansito, qualcuno sta risalendo lo scivolo. Si tratta di un’anziana donna, che reca con sé due sporte colme. Si ferma, mi guarda, cerca di riprendere fiato.
“Le scale sono le scale” dice, con un sospiro. Poi riprende la faticosa salita.
Subito dopo, dall’oscurità, spunta un uomo. È vestito in modo elegante, con giacca, cravatta e uno sgargiante panciotto, illuminato dalla torcia che tiene in mano.
“Torni indietro” dice, con un sorriso.
“Che cosa c’è lì sotto?” domando.
“Oh, nulla. La profondità” risponde.
Torniamo in superficie. Sempre seguito da quello strano individuo, mi avventuro su un graticcio di legno.
“Attenzione!” mi urla.
Il fragile telaio scricchiola sotto il mio peso. Sento abbaiare dei cani, li intravedo attraverso le fessure. Sono due pastori alsaziani con la bava alla bocca. Mi immobilizzo, ho paura di cadere tra le loro fauci.
“Sono i cani del custode del blocco” dice l’uomo.
“Mi aiuti” sussurro in prede al terrore.
Lui butta sul graticcio una spessa asse sulla quale cammino con attenzione. Quando sono ormai salvo sento un rumore che proviene da un ampio spiazzo. Un enorme escavatore, che sembra impazzito, ruota su se stesso finché non si rovescia a terra e prende fuoco. Poi, un’esplosione.
“Stanno girando un film” dice l’uomo. “Venga, l’accompagno in un luogo più tranquillo” aggiunge.
Senza badare se lo seguo o meno, si incammina di buon passo, tanto che fatico a tenere il suo passo. Marciamo per più di venti minuti, finché non arriviamo in prossimità dell’ultima parte del condominio.
Oltre, ci sono soltanto prati.
“Guardi” mi dice. “Non è bello? È il parco giochi”.
Schermandomi gli occhi dal sole con una mano, osservo con attenzione. Vedo centinaia e centinaia di altalene, blu e rosse, disposte su più file, perfettamente allineate. Sono tutte vuote, i loro seggiolini ondeggiano lentamente per effetto del vento.

domenica 25 ottobre 2015

IO E ME


Avevo giurato a me stesso che non sarebbe mai accaduto. Invece, proprio alla soglia dei settant’anni, è capitato. L’altra sera ero seduto in poltrona, di fronte al televisore, e stavo seguendo il telegiornale. Quando è stato trasmesso il solito servizio che prevede la sfilata dei politici, prima quelli della maggioranza, poi quelli dell’opposizione, intenti a pronunciare le trite due battute utili soltanto per mettersi in mostra, ho sbottato.
“Basta! Smettetela di prenderci in giro!”
Poi mi sono voltato, prima da una parte e poi dall’altra, per cogliere le reazioni alla mia decisa affermazione. Niente, e non poteva essere altrimenti. Allora ho cambiato canale, dove stavano intervistando una famosa attrice, per la quale ho sempre avuto un debole. Non più giovane, però con ancora due gambe fenomenali, che stava mettendo in mostra.
“Però!” Ho detto, appagato da quella piacevole visione.
Da quel momento è stata una deriva. Non riesco più a frenarmi, non riesco più a fermarmi.
Stamattina, come sempre da quando sono in pensione, mi sono alzato presto. Erano da poco passate le sei.
“Adesso ci facciamo una bella colazione e dopo ci mettiamo in moto!”
E poi: “Buoni questi biscotti!”
Ancora: “Diamoci da fare, laviamo tutto per bene e poi andiamo finalmente a vestirci. Dobbiamo uscire!”
Ciò che mi dà soprattutto fastidio, al di là della cosa in sé, è l’enfasi di queste mie frasi. Quel punto esclamativo che sempre le conclude. Eppure non riesco proprio a farne a meno, non ce la faccio a pronunciarle in un altro modo. È assolutamente indispensabile che siano perentorie.
Ho sempre guardato con compatimento chi sapevo fosse affetto da quella afflizione che adesso è pure la mia. Non ho mai compreso come ci si potesse ridurre a quel modo. E, mi rendo conto adesso, io di questi individui vedevo solo la facciata pubblica, quella più irrilevante, minima, perché quando si è in presenza di altre persone ci si trattiene, si fa di tutto per evitare di essere commiserati, di essere additati come soggetti un po’ tocchi. Eppure non credo che nella mia mente alberghi l’insania, sono convinto di essere tuttora un uomo equilibrato. Quando sono per strada, infatti, taccio. Oppure parlo soltanto quando è necessario. Ma, appena mi ritrovo da solo, ecco che riemerge l’affezione, se così la si può definire.
“Ahhh! Sono tornato a casa! Ora ci prepariamo una bella cenetta!”
“Buono questo formaggio!”
“Basta. Basta con il pane! Non esageriamo!” E via di questo passo.
Come: “Su, alziamoci da questo divano, è ora di andare a dormire!”
“La finestra! Chiudiamo ‘sta finestra, cribbio!”
Avevo giurato a me stesso che non sarebbe mai accaduto. Invece, proprio adesso che mi appresto a essere vecchio, è successo. E so che non smetterò più, perché in fondo mi piace. Sì, mi piace parlare da solo ad alta voce.


LA CASA ABBANDONATA


“Dici che verranno?” domando a Giuseppe.
“Certo. Le donne sono curiose” risponde il mio amico.
Sospiro, poi appoggio la mano sulla cintura, alla quale è appesa la fondina che contiene il pugnale. Giuseppe ha con sé una grossa roncola, agganciata per l’uncino del manico a un passante dei calzoni.
“Non era meglio se portavi il coltello a serramanico?” gli dico.
Lui scuote il testone.
“Naa… mi sento più sicuro con questa.”
“Non è che vuoi metterti in mostra?”
“Eh? Io? Ma che dici?”
“Vai a vedere se arrivano” dico.
Giuseppe fa qualche passo, fin dopo la curva, con il falcetto che gli sbatte sulla coscia, poi torna indietro.
“Ci siamo, biciclette in vista. Te l’avevo detto che sarebbero venute” dice. Nella sua voce colgo l’emozione. La stessa che provo anch’io.
Tutto era accaduto poco più di tre ore prima, quando eravamo ancora a scuola.
“Perché non glielo chiediamo?” mi aveva bisbigliato Giuseppe indicando Simonetta e Rosa. Anche loro stavano confabulando tra loro, ignorando come tutti il povero don Aldo, impegnato in una fumosa illustrazione del concetto di carità cristiana.
“Chiedilo tu” avevo risposto. “Ce l’hai la lingua”.
“Ma tu sai parlare meglio” aveva ribattuto il vigliacco. Avevo annuito.
Simonetta era seduta proprio nel banco davanti al mio. Durante le lezioni non guardavo quasi mai l’insegnante di turno, il mio sguardo era sempre fisso su quella massa di capelli neri e ricci. A volte allungavo una mano e li toccavo, senza che lei se ne accorgesse. In quei momenti provavo una grande eccitazione. Simonetta mi era piaciuta sin dalla prima volta che l’avevo vista, all’inizio della scuola media. Lei era una ragazza molto socievole, io tutto il contrario, dunque era stato molto difficile attirare la sua attenzione. Infatti non c’ero riuscito. In ogni caso mi ero fatto coraggio e l’avevo sfiorata sulla schiena. Simonetta si era voltata e io avevo provato un tuffo al cuore. Mi ero sporto sul banco e mi ero venuto a trovare vicino al suo viso, al suo naso perfetto, alle sue sopracciglia ben marcate, a quella boccuccia rossa e intrigante.
“Tu e Rosa verreste oggi pomeriggio alla casa abbandonata?” avevo chiesto, indicando con il mento Giuseppe. Poi ero arrossito. Lei non aveva risposto, si era morsicato il labbro inferiore e poi si era ricomposta. Il mio imbarazzo era stato grande. Quel bastardo di Giuseppe sogghignava. Non importa, l’avrebbe pagata cara! Lo sapevo, una come Simonetta non poteva essere interessata a noi. Era una donna, ormai, noi soltanto dei ragazzini. Si diceva che avesse un ragazzo, uno molto più grande, che girava con una grossa moto. Ma forse non era vero, era qualcosa che aveva detto lei stessa per darsi importanza. Mi piaceva pensare che fosse così.
All’uscita dalla scuola, però, avevo trovato Simonetta che mi aspettava, in compagnia di Rosa. Aspettava me!
“A che ora oggi pomeriggio?” aveva chiesto, a bassa voce.
Incredulo di ciò che stava accadendo non ero riuscito a rispondere, avevo soltanto alzato tre dita. Poi mi ero allontanato. Anzi, ero scappato, ed ero andato alla ricerca di Giuseppe, per avvisarlo.
Le ragazze scendono dalle biciclette. Sono accaldate, bellissime. Simonetta indossa una camicetta leggera e una gonna corta, color ruggine, dalla quale spuntano le lunghe gambe snelle fasciate da calze scure. Rosa invece ha le gambe nude, gambe corte ma ben tornite che conservano ancora la bronzea tinta estiva. Devo ammettere che pure Rosa è una bella ragazza, anche se Simonetta è di un’altra categoria, e capisco che a Giuseppe possa piacere, pure se lui non lo vuole ammettere.
“Perché portate quei cosi?” domanda Simonetta indicando roncola e pugnale.
“Non si sa mai” bofonchia Giuseppe.
“Può esserci qualcuno?” dice Rosa, indicando il rudere della casa abbandonata.
“Al massimo ci sono dei topi” dico io.
“Ahhh!” strilla lei.
“Paura?” dico.
“Macché! Però mi fanno schifo” dice lei facendo una smorfia.
“Mettiamo dentro le bici” suggerisco. “Così nessuno le vede”.
Entriamo tutti. Anche la recinzione della casa è in parte diroccata, sufficiente comunque a nasconderci alla vista di eventuali passanti. La casa abbandonata, in ogni caso, si trova in un luogo abbastanza isolato, e sulla strada acciottolata che le scorre davanti transitano a volte soltanto alcuni contadini con i loro rumorosi trattori.
Nel cortile interno le erbacce sono alte quasi un metro. Giuseppe inizia a sferzarle con la roncola, ne fa strage. Sfoga così la sua evidente agitazione.
“Smettila, che tanto c’è il sentiero” lo fermo. Noto che è tutto sudato e rosso in faccia.
Percorriamo in silenzio, in fila indiana, lo stretto viottolo. Simonetta mi cammina davanti. Osservo con grande interesse la sua vita stretta, l’ondeggiare dei fianchi, le caviglie sottili. Cammina un po’ a fatica sul terreno sconnesso a causa delle scarpe che hanno un piccolo tacco. Giungiamo di fronte alle rovine della casa.
“E adesso?” domanda Rosa. Un sottile velo di sudore le imperla il labbro superiore, dove noto una quasi invisibile peluria, decolorata. Chissà se quel sudore ha un sapore salato, penso, prima di essere colto da una breve vertigine.
“Si può entrare, anche se è pericoloso” sta dicendo Giuseppe. “Noi conosciamo una via sicura.”
“Ma è tutto crollato!” sbotta Simonetta.
“No, quella parte è ancora in piedi. Si può salire, anche se la scala non è molto stabile. Si può arrivare al primo piano e percorrerlo tutto, il pavimento ha ceduto in alcuni punti ma procedendo con cautela si può fare.” Noto con piacere che Giuseppe ha ritrovato la favella. È nel suo elemento, adesso. Al contrario, io sono assalito dal dubbio. Che ci facciamo qui?
“No!” Il rifiuto di Simonetta è categorico. “Io lì sopra non ci salgo”.
“Neppure io” dice Rosa.
Giuseppe si stringe nelle spalle ed entra nella casa. Guardo per un attimo le ragazze, con una espressione di scusa, poi lo seguo.
“Sei impazzito?” bisbiglio alla sua schiena. Lui comincia a salire sulla scala pericolante, senza rispondere. Quando lo raggiungo siamo già al primo piano. Sul pavimento si aprono dei buchi, qua e là, occorre molta prudenza oppure si finisce di sotto.
“Non vedi che a loro non interessa? Perché non le portiamo al parco?” dico, arrabbiato
“A fare che cosa?” dice lui.
Sbuffo.
“Dai, torniamo giù” dico toccandogli una spalla. Alla fine ubbidisce.
Quando siamo nel cortile vediamo che le biciclette non ci sono più. E neppure le ragazze.
“Se ne sono andate” dice Giuseppe. Sembra sinceramente sorpreso.
“Cosa credevi? Che stessero ad aspettare il ritorno dell’eroe?”
“Peggio per loro” dice.
“Peggio per noi, invece!” Sono davvero infuriato con il mio amico.
“Siamo troppo piccoli per loro” dice Giuseppe, un po’ mortificato.
“Non dire sciocchezze! Hanno la nostra stessa età!” ribatto.
“No, siamo troppo piccoli, ti dico. Non hai visto? Avevano il viso tutto truccato”.

sabato 17 ottobre 2015

L'UNICO BACIO



Entriamo in classe.
Rumore di banchi spostati, di zainetti buttati a terra senza alcun riguardo, brusio molesto.
Il professor Pezzana è in piedi davanti alla cattedra, i suoi occhi ci scrutano curiosi dietro le spesse lenti. Indossa il solito abito grigio, la camicia azzurra d’ordinanza e la cravatta rossiccia con qualche macchia di troppo. Solleva il mento, dal quale spunta una ridicola barbetta appuntita che non lo fa assomigliare né a D’Annunzio né tantomeno a Pirandello, come lui vorrebbe, ma soltanto a una stupida capra. Aspetta, per un tempo che pare interminabile, che ci sistemiamo, poi inizia a declamare con la sua voce nasale.
S’i’ fosse foco, arderei ‘l mondo;
 s’i’ fosse vento, lo tempestarei;
 s’i’ fosse acqua, i ’l’annegherei…
Che lagna. Roba vecchia, roba stantia, roba che annoia. Il capo mi crolla sul banco. Intendiamoci, io amo la poesia. Fatemi sentire versi di Federico Garcìa Lorca o di Dylan Thomas e il mio corpo sarà scosso da brividi. Cecco Angiolieri, al contrario, mi fa cagare.
Mentre il povero Pezzana si accanisce, del tutto inascoltato, con l’analisi del testo appena recitato, la mia distrazione diventa totale. Con lo sguardo cerco Luana. È seduta due banchi avanti, di lei scorgo soltanto i lunghi capelli lisci e neri. Pure lei è disattenta, sta parlando a bassa voce con Margherita. Chissà, forse stanno discorrendo di me. Questa mattina, quando ci siamo incontrati davanti alla scuola, io e Luana abbiamo appena scambiato un minimo cenno di saluto. Poi, quando stavo salendo i gradini, mi sono accorto che mi stava guardando, e che sorrideva. Un po’ imbarazzato ho ricambiato il sorriso.
Dopo ciò che è accaduto ieri tra noi mi sarei aspettato, da parte di entrambi ma in particolare da me, ben diverso comportamento. Avrei dovuto dirle qualcosa, soprattutto avrei dovuto dirle la verità.
Pezzana, dopo aver a lungo predicato nel deserto, decide di cambiare registro e di interrogare. Subito si presenta volontaria Valeria, miss Secchiona, rovinando così il divertimento al vecchio caprone. Lo confesso, in quattro anni di scuola non ho mai rivolto la parola alla mia compagna Valeria, una stangona che indossa sempre degli eleganti tailleur. Tailleur! Sembra mia nonna, che cosa potrei mai dire a una così? Preferisco ignorarla. Mentre Valeria sdottora su Petrarca cerco ancora Luana. Ha il viso rivolto alla finestra, lo sguardo spento. Oppure sognante? Non lo so, mi limito a scrutare il suo delicato profilo, mi soffermo sulle sue labbra socchiuse. Le sue labbra! Cristo, le devo proprio parlare, lei deve sapere, merita di sapere.
Ciò che è accaduto ieri ci ha traumatizzato. Non mi riferisco a quel che è successo tra me e Luana, bensì a quell’altro fatto, a quel fatto molto grave. Per mesi, per anni, ci siamo riempiti la bocca di espressioni sempre più dure, sempre più violente. Ne andavamo fieri, ne godevamo nel pronunciarle, finché non siamo stati messi di fronte all'autentica brutalità. A quel punto ci siamo resi conto di non essere attrezzati per affrontarla. Ci siamo sgonfiati, ne siamo rimasti sconvolti. Nessuno naturalmente lo ha ammesso, ma è sufficiente guardare i volti turbati angosciati impauriti dei miei compagni per comprendere che nulla sarà più come prima. Siamo stati ridimensionati, siamo stati ridotti a ciò che in effetti siamo, ragazzotti che a parole giocavano, ora non più, a fare i grandi.
Otto! Soddisfatta, compiaciuta e ancora più stronza, Valeria torna al suo posto. Interrogazione perfetta, come sempre. Mi auguro che adesso Pezzana chiami me. Sono del tutto impreparato perché ieri, agitato per la faccenda di Luana, frastornato per l’altra vicenda, ho trascorso il pomeriggio davanti al televisore passando da un telegiornale all’altro, meditando sulla mia misera condizione personale. Gli occhi incollati al video, nella retina immagini di sangue, proprio in quei momenti ho maturato la decisione di informare Luana. Lei deve sapere.
Invece lo sguardo caprino del professor Pezzana non si posa su nessuno. Nell’ultimo quarto d’ora spiegherò, dice con voce stanca, rassegnata. Intorno a me sento sospiri di sollievo. Tutti si rilassano. Luana si volta all’improvviso e mi fissa. I suoi occhi brillano, risplendono di una luce particolare, che dopo un po’ mi mette a disagio. Abbasso la testa, fingo di prendere appunti, incapace di sostenere quell’occhiata che esprime desiderio, sete d’amore.
Ieri, appena abbiamo appreso la notizia, siamo subito usciti dall’aula. Come automi ci siamo diretti nell’atrio, dove è sorta dal nulla un’assemblea spontanea alla quale, fatto unico e raro, hanno partecipato anche gli insegnanti. Toni concitati, a tratti rabbiosi. La rabbia vuota di chi si sente smarrito. Dopo ci è stato consentito di andare a casa, anche se nessuno ne aveva voglia. Sono passato attraverso diversi capannelli di compagni. Alcuni erano ancora infervorati, la maggior parte di loro aveva un atteggiamento mesto. Mi sono allontanato perché ho sentito il bisogno di stare solo. Ho raggiunto il retro della palestra, dove lascio la mia bicicletta. Lì ho incontrato Luana. Era immobile, vicino alla recinzione, le braccia strette al corpo, come se avesse freddo. Mi sono avvicinato a lei, le ho chiesto se andava tutto bene. Ha risposto con un cenno affermativo, con scarsa convinzione, però. Non so perché l’ho fatto, forse ero ancora sotto choc, ma l’ho abbracciata. Lei si è stretta a me con forza. L’ho guidata verso il muro della palestra, in un punto dove nessuno ci poteva scorgere. Ho sollevato le braccia dalla sue spalle e le ho afferrato il viso, l’ho indirizzato verso il mio. Immediatamente lei ha schiuso le labbra, alle quali ho appoggiato le mie, ho incollato le mie. Il bacio è stato lunghissimo, sembrava non dovesse finire mai. Io tenevo gli occhi aperti, i suoi erano socchiusi. Alla fine ci siamo separati, bisognosi d’aria. Luana ha sorriso, lo stesso sorriso di stamattina. Dovevi farlo prima, ha aggiunto con voce roca, sensuale, prima di andarsene. Attonito, ho slegato la bicicletta e sono tornato a casa.
Suona la campanella, Pezzana non riesce neppure a completare la parola che stava pronunciando. Un’intensa onda sonora lo travolge, gli scolpisce sul volto una smorfia triste, poi tutti si lanciano verso la porta dell’aula. Io esco per ultimo e trovo Luana che mi aspetta, sulla soglia. Ho un paio di minuti prima che la professoressa Sarti faccia il suo rumoroso ingresso in classe. Adesso o mai più. Glielo devo dire. Sì, glielo devo proprio dire, alla povera Luana, che io durante quel bacio, quell’unico bacio, non ho provato nulla. Che se quello stesso giorno, appena poche ore prima, non avessero rapito Aldo Moro io non l’avrei mai baciata.


domenica 11 ottobre 2015

NOBEL OBLIGE


Mancava meno di un mese alla data di assegnazione del Premio. Erano le sette del mattino, il famoso scrittore P.R. era già seduto al tavolo del suo studio, di fronte al computer. Quel mattino si era destato all’improvviso, in preda a una feroce ispirazione. Aveva riflettuto per giorni interi per cercare di trovare la soluzione di quel problema che tanto lo angustiava. Poi, all’improvviso, durante la notte si era svegliato e finalmente aveva ben chiaro in testa ciò che doveva fare. Rifletté ancora un attimo prima di decidersi a premere un tasto con il dito indice, l’unico che usava per scrivere. Sul video apparve una virgola. Ecco, finalmente si era sbloccato, la crisi creativa era finita. Soddisfatto, si portò le mani alla testa e si scompigliò i radi capelli bianchi massaggiando il cranio. Strinse a sé i lembi della elegante giacca da camera che indossava e ricominciò a pensare. La sua intensa meditazione fu quasi subito disturbata dal suono insistente del campanello. Dapprima lo ignorò poi, infastidito, si alzò e si avvicinò al video citofono. Scorse la brutta faccia di Smith, il suo agente. P.R. sospirò e aprì. Dopo pochi istanti Smith comparve sulla soglia. Appariva trafelato, doveva aver fatto le scale di corsa. L’agente entrò e, ansimante, si buttò su un divano. P.R. si accomodò di fronte a lui, su una poltrona.
“Ti chiedo scusa se ti disturbo a quest’ora, anche se vedo con piacere che eri già al lavoro” disse Smith.
“Lo ero finché tu non mi hai importunato con la tua visita” ribatté acido lo scrittore.
“Ti chiedo di nuovo scusa ma proprio non potevo aspettare” disse l’altro.
“Esiste anche il telefono”.
“Tu non rispondi mai”.
“Vero. Allora? Che cosa mi devi dire di tanto importante?”
“Ci sono novità. Grosse novità.”
“Il Premio?” domandò lo scrittore, che era stato colto da un lieve senso di ansia.
“Esatto. Questa volte, forse, è la volta buona.”
I lineamenti del volto rugoso di P.R. furono alterati da una smorfia.
“Forse?” riuscì a domandare con fatica.
“Ho avuto una soffiata dal mio amico all’Accademia. Sembra che siate rimasti in lizza soltanto tu e un altro. Lo stronzetto muso giallo e quell’imbecille di norvegese sono fuori.”
“Ah! E chi sarebbe invece quest’altro? Il mio unico rivale, insomma.”
“L’altra, per la verità.”
“L’altra? Vuoi dire che si tratta di una donna?”
“Esatto” confermò l’agente.
P.R. scosse il capo.
“All’Accademia si stanno rimbambendo. Lo dovrebbero sapere che scrivere è un impegno da uomini.”
“Sono perfettamente d’accordo.”
“Non ti ho chiesto se gradisci qualcosa da bere. Un bicchiere di latte?”
“Grazie, ma preferirei qualcosa di più forte.”
“Bene, più tardi ti farò un po’ di tè.”
Smith strabuzzò gli occhi.
“Grazie” disse infine, rassegnato e disgustato.
“Parlami di questa donna. Chi è?” chiese P.R.
“Bah, non la conosce quasi nessuno. Pare sia soprattutto una giornalista. Il nome non me lo ricordo, è pieno di consonanti.”
“Una giornalista? Per loro non c’è il Pulitzer? Perché deve rompere le palle proprio a me?”
“Non è americana.”
“Ah no? E di dov’è?”
“È bielorussa.”
“Russa, hai detto?”
“No, bielorussa.”
P.R. cominciò a innervosirsi.
“Mi stai prendendo per il culo? È russa oppure no?”
“Ti spiego. Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica…”
“So benissimo che cosa era l’Unione Sovietica!” lo investì lo scrittore.
“Aspetta…”
P.R. ormai era un fiume in piena.
“Non me ne importa un cazzo dell’Unione Sovietica, della Russia o di altre menate simili! Dimmi piuttosto che cosa ha scritto di tanto importante questa stronza!”
“Stai calmo P., ti prego. In questo modo ti si alza la pressione. Questa bruttona, perché ti assicuro che è davvero orrenda, ha scritto nient’altro che alcuni reportage.”
“Vale a dire?”
“Il più conosciuto parla di Chernobyl.”
“Chernobyl! E chi sarebbe questo Chernobyl? Un uomo politico? Un calciatore?” P.R. si stava di nuovo irritando.
“No. Non ti ricordi? La centrale nucleare…”
“No! Non mi ricordo più un cazzo di niente! Sono anziano, ormai. Ma sono il più grande scrittore vivente, per Dio!”
“Hai ragione P., ma calmati o ti sentirai male.”
“Non me ne fotte niente di schiattare, l’importante è che prima mi assegnino il maledetto Premio!”
“Lo avrai, ne puoi essere certo. Sei il più grande.”
“E poi? Oltre che di questo Cernobyl, che cos’altro avrebbe scritto quella donna?”
“Ha scritto un libro sull’Afghanistan” disse Smith, cauto.
“Afghanistan? E cosa sarebbe? Una guida turistica? Che vergogna!”
“Non te la prendere P., l’Accademia si è fatta prendere la mano dalle solite manovre politiche. Sai, pare che questa giornalista sia stata perseguitata nel suo paese, è stata anche costretta, per un certo periodo, a rifugiarsi all’estero.”
“L’esilio sta diventando una moda, anche tra gli scrittori.”
“E sembra che non sia affatto simpatica pure a Putin” aggiunse Smith.
“Putin! Quello sciagurato! Saranno almeno trent’anni che non legge un libro.”
“Già, pare sia stato impegnato un tutt’altre faccende. In ogni caso non ti devi preoccupare, sono sicuro che questa sarà davvero la volta buona. Dovranno finalmente riconoscere il tuo immenso valore”.
“Non possono conferire il Premio a quella donna” disse P.R., con voce lamentosa. “Persino il vecchio dinamitardo si rivolterebbe nella tomba.”

È trascorso quasi un mese. Il famoso scrittore P.R. è seduto al tavolo del suo studio, a testa china sul computer. Piange. Ha appena sentito alla radio che il Premio è stato assegnato. E ancora una volta non è toccato a lui. Vorrebbe suicidarsi, ma non ne ha la forza. Rialza il busto, sgranchisce le vecchie ossa rese rigide dall’artrosi, e decide di riprendere a lavorare. Vuol dire che sarà per l’anno prossimo, pensa. Sì, ne è sicuro, il prossimo sarà l’anno buono. Pieno di rinnovate energie, cala il dito indice sulla tastiera, l’unico che usa per scrivere, e cancella una virgola.


sabato 10 ottobre 2015

STIVALICIDIO


Non erano mai stati i preferiti, tranne che in caso di bisogno, di assoluta necessità. Ciò avveniva quando pioveva. Di notte, quando sentivano cadere le prime gocce di pioggia, i due compari iniziavano a ridere, e ridevano fino a sganasciarsi. Anzi, fin quasi a scucirsi. Sapevano che l’indomani sarebbe toccato a loro, alla faccia di tutti gli altri che, in quel momento, stavano riposando all’interno delle loro scatole: quelli con il tacco alto, altissimo, quelli di pelle lucida e morbida, gli altri dal pelo delicato, che non dovevano assolutamente mai prendere acqua, pena la loro fine prematura.
Un giorno nel ripostiglio fu posata un’altra scatola, che odorava di nuovo. Destro e Sinistro si destarono di soprassalto.
“Ehi, è arrivato qualcuno” disse il primo.
“Ancora? Ma non finiscono mai!” rispose l’altro.
“Andiamo a dare un’occhiata”.
Cercando di non fare rumore, nel buio del piccolo sgabuzzino, i due sollevarono il coperchio della loro vecchia e consunta scatola e uscirono. Destro emise un fischio.
“Ma guarda! Roba di lusso!” esclamò.
“Buon per noi” rispose il compagno. “Sarà il solito paio di fighetti.”
I due si avvicinarono di soppiatto all’elegante scatola. Con cautela sollevarono il coperchio da un angolo.
“Guardali” disse Sinistro, sogghignando. “Dormono come due angioletti”.
“Ti ricordi?” domandò l’altro.
“Che cosa?”
“Quando siamo arrivati noi, tanto tempo fa, dopo aver lasciato il negozio. Eravamo molto stanchi. Prima tutte quelle prove, intorno a quei piedi che non conoscevamo, poi il lungo viaggio. Eravamo così esausti che abbiamo dormito per due giorni consecutivi.”
“Mi dispiace ma non ricordo nulla. Rammento soltanto la prima volta che abbiamo preso la pioggia: che goduria!”
“Alziamo un po’ di più il coperchio, li voglio vedere bene”.
Così fecero.
“Ehi! Ma sono dei tappetti!” disse Destro.
“Non gridare!” rispose l’altro annusando l’aria. Dai due stivaletti neri proveniva un intenso odore di cuoio nuovo.
“Non dobbiamo temere nulla da questi due sfigati, hanno pure un po’ di tacco” disse ancora Destro. Il compare non rispose, era intento a osservare con attenzione un particolare che all’altro era sfuggito.
“La suola” disse infine, con tono preoccupato.
“Come?”
“La suola, porco sandalo! Guarda bene la suola”.
Destro si avvicinò.
“No! È a carrarmato!” esclamò.
“Lo sai che cosa vuol dire?”
“È a prova d’acqua”.
“Quindi?”
“Siamo finiti, non sentiremo mai più l’acqua sotto le suole” disse Destro con un filo di voce.
“No, non è detto” rispose Sinistro. Nel suo sguardo comparve una luce… sinistra.
“Davvero lo vorresti fare?”
“Non abbiamo scelta. O noi o loro”.
Agirono la notte successiva.
Di soppiatto, ancora una volta lasciarono la loro vecchia e confortevole scatola e si diressero verso quella nuova e lucida. Buttarono all’aria il coperchio e si gettarono addosso ai due giovani stivaletti che si svegliarono all’improvviso e quasi non compresero ciò che stava loro accadendo. Furono presi a calci con estrema violenza, tramortiti e storditi. Uno dei due, con la pelle ormai tutta squarciata, perse subito i sensi ma i due stivali da pioggia continuarono a infierire su di lui. L’altro, intravedendo la porta dello stanzino socchiusa, tentò una disperata fuga. Saltellando in preda all’angoscia, attraversò il soggiorno, subito inseguito da Sinistro, e si buttò contro la porta-finestra. Era soltanto accostata, allora il terrorizzato stivaletto si lanciò sul balcone, spiccò un prodigioso balzo e scavalcò la ringhiera. Precipitò in strada dove, proprio in quel momento stava transitando un tipo un po’ alticcio che era appena uscito dal bar. Lo stivaletto cadde proprio davanti alle sue scarpe, che assistettero con orrore a quella scena tragica. L’ubriacone, colto da insolito senso civico, raccolse la sventurata calzatura e la gettò in un bidone della spazzatura. Dall’alto, Sinistro sogghignò soddisfatto. Fu raggiunto sul balcone dal complice.
“Tutto a posto?” domandò.
“L'altro non si muove più, è stecchito” rispose l’altro, che aveva ancora il fiatone.
Proprio in quell’istante il cielo si coprì di nuvole scure, grosse e pesanti. Una prima grassa goccia d’acqua cadde proprio sulla punta di Sinistro. Una agghiacciante risata risuonò nella notte.