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domenica 30 giugno 2013

DELINQUENTI E PRESIDENTI


Questa volta ha davvero ragione Beppe Grillo. Com’è possibile che un condannato per evasione fiscale, concussione e induzione alla prostituzione minorile sia ricevuto al Quirinale? Eppure, nel nostro disgraziato Paese, questo è avvenuto. Se Silvio Berlusconi si è recato dal Presidente della Repubblica per parlare dei suoi processi, per lamentarsi della (a suo dire) inumana e continua persecuzione giudiziaria, e per concordare una soluzione ai suoi guai con la Magistratura, ciò è del tutto inconcepibile. Se invece il colloquio tra il delinquente e il Presidente aveva per oggetto questioni politiche legate al sostegno al governo, ci si chiede perché tale incarico non sia stato affidato al segretario del partito, vale a dire Angelino (Tapino) Alfano. È vero che l’avvocato siciliano non conta nulla, che per l’ennesima volta è caduto in disgrazia agli occhi del Padrone (la sua difesa dopo l’ultima sentenza di condanna è stata giudicata dal capo troppo tiepida) tuttavia in uno stato democratico anche la forma assume un valore. In ogni caso la regola che non si discute e non si scende a patti con i mascalzoni dovrebbe essere sempre valida. Napolitano, purtroppo, l’ha ignorata. E questo conferma l’attuale difficoltà dell’anziano Presidente, costretto suo malgrado ad accettare una rielezione che non era nei suoi progetti, e spettatore impotente di una deriva che lo chiama in causa. E che dire, inoltre, di un partito che con il criminale Berlusconi ha fatto un accordo di governo? Si sta parlando del Partito Democratico, naturalmente, impegnato ogni giorno a proteggere l’esecutivo (quello di Letta, quello dei rinvii…) dagli attacchi non dell’opposizione (che non esiste) ma dei propri alleati? L’impressione, come sempre, è quella di essere alla frutta. E questo lo ha compreso lo stesso Silvio Berlusconi. Da un lato rassicura Letta e gli stolti alleati democratici riguardo la tenuta, la durata e la fedeltà all’esecutivo, dall’altro si sta preparando alla prossima giravolta in prospettiva elettorale: la rifondazione di Forza Italia. Il PDL, comunque, non sarà rottamato ma rappresenterà una sorta di Bad Company (o Bad Party) dell’alleanza di centro-destra. Un contenitore destinato a contenere il pattume quale ex-fascisti, ex-democristiani e tutta la gentaglia che ancora si riconosce nel bandito di Arcore ma che dallo stesso è tenuta a distanza perché considerata ormai impresentabile (!).

Tutto ciò, inutile dirlo, avviene mentre il Paese muore.    

lunedì 24 giugno 2013

LETTAME


Tutti in attesa del pronunciamento dei giudici di Milano sul caso Ruby. Silvio Berlusconi rischia una nuova condanna, stavolta per concussione e induzione alla prostituzione minorile dopo quella, già arrivata al secondo grado di giudizio, per evasione fiscale. Nei giorni scorsi la Corte Costituzionale aveva respinto il ricorso sulla non concessione del legittimo impedimento sempre nell’ambito del processo in corso. Berlusconi stesso ha assicurato che le sue sempre più intricate e pesanti vicende giudiziarie non provocheranno fibrillazioni al governo Letta. Nessuno, naturalmente, ci ha creduto.
Già, il governo Letta. Che cosa ha fatto finora questo esecutivo nato grazie a un patto scellerato tra destra e sinistra?
Se l’ultimo governo Berlusconi si era caratterizzato come l’esecutivo degli annunci e delle promesse non mantenute, quello attuale, guidato dall’esponente del Partito Democratico, si è contraddistinto come quello dei rinvii.
In merito si è deciso riguardo all’IMU. Si temporeggia sul rifinanziamento della Cassa Integrazione, è stata rimandata ogni risoluzione per ciò che concerne la questione degli esodati. Negli ultimi giorni è diventato di stretta attualità il problema dell’aumento dell’aliquota IVA (deciso proprio dal governo Berlusconi) che si sta tentando, in maniera alquanto affannosa, di evitare. O di differire.
Una cosa soltanto è ben chiara a tutti: non ci sono risorse per coprire questi costosi provvedimenti.
Tuttavia pure altre faccende a costo zero sono state accantonate, procrastinate a chissà quando, come ad esempio la riforma della legge elettorale, che fino a poco tempo fa sembrava urgente. Ora non più.
La verità è che Enrico Letta è ostaggio del centro-destra, degli umori e delle necessità di Berlusconi e dei suoi accoliti. Dei falchi e delle (finte) colombe del PDL. Si passa, giorno dopo giorno, dagli starnazzamenti di Santanché e Biancofiore agli strepiti di Brunetta, alle uscite sconsiderate di Gasparri. E così via. Tutto ciò avviene senza che il Partito Democratico riesca a far sentire la sua voce, a dettare una sua linea politica che vada al di là della semplice sopravvivenza. E, ciliegina sulla torta, con un Angelino Alfano, vice-presidente del Consiglio nonché ministro degli Interni che, in ossequio al suo padrone, lancia di continuo ultimatum al governo, vale a dire a se stesso.
Il governo Letta, finora, ha partorito soltanto il famigerato decretone “del fare”. Decine e decine di minuscoli provvedimenti, alcuni tra i quali del tutto incomprensibile e difficilmente attuabili, che non riusciranno neppure in minima parte ad affrontare e tantomeno a risolvere i gravissimi problemi che assillano il nostro Paese. E il Presidente Napolitano, costernato, rassegnato e quasi pentito per aver indotto e condiviso un percorso che non porta a nulla, tace.
Bisogna al più presto azzerare tutto, e ricominciare da capo per l’ennesima volta. Potrebbe essere davvero l’ultima.


sabato 22 giugno 2013

MAGNÌN SOTTO LA PIOGGIA


Pioveva ormai da giorni e giorni. Nessuno, in paese, ricordava una simile primavera. Così umida, così triste e malinconica. Così tediosa. Tutto era umido e impregnato d’acqua, ogni cosa sapeva di muffa: gli ambienti delle case, gli oggetti, gli abiti delle persone. Un clima del genere non poteva che avere inevitabili ripercussioni sull’umore della gente, aumentandone a dismisura il grado di irritabilità.
Di conseguenza, anche l’atmosfera all’interno dei locali della Società Cooperativa, di solito piuttosto vivace, era invece cupa e pesante.
Quattro uomini erano seduti intorno a un tavolino. Tutti sospiravano, tirando profonde boccate dalle sigarette senza filtro e rendendo così l’aria irrespirabile. Di fronte a loro c’erano tre bottiglie di denso vino rosso e un bicchierino di liquore alla prugna.
Ferruccio, l’oste, si avvicinò al gruppo di amici. Tra le mani teneva uno strofinaccio lurido.
“Dicono che pioverà ancora per qualche giorno” li informò, sconsolato.
Dolfo, il corpulento camionista, picchiò un violento pugno sul tavolo. Bottiglie e bicchieri fecero un balzo e poi ricaddero, per miracolo, in piedi. Poi staccò una tremenda raffica di imprecazioni chiamando in causa madonne, santi, madri e sorelle.
“Oggi non lavori?” domandò Ferruccio. “Fai bene, le strade sono scivolose e pericolose” aggiunse, nel tentativo di calmarlo.
L’altro lo guardò, stupito.
“Il mio camion non sopporta l’acqua” disse, serio.
Nel sentire quella parola, acqua, tutti inorridirono disgustati. Quel termine immondo era proibito, nessuno doveva mai pronunciarlo.
Dolfo, imbarazzato, chiese scusa.
“E fa pure freddo” proseguì l’oste, con indifferenza, posando lo sguardo sul gruppo di amici. Magnìn, il figlio dello stagnino, nonché il capobanda, diede un’occhiata ai suoi abiti. Lui vestiva sempre allo stesso modo, tutto l’anno. Pantaloni di velluto a coste larghe, camicia e gilet. Al collo portava un foulard di seta rossa, utile per ripararlo dall’aria quando andava in moto. Luigino, seduto accanto, indossava invece un pesante maglione fatto da sua madre all’uncinetto. L’ometto, tutto pelle e ossa, aveva sempre freddo. Riusciva a scaldarsi soltanto dopo innumerevoli cicchetti del suo amato liquore alla prugna. Dolfo portava l’immancabile canottiera blu e pantaloni da lavoro. Ed era tutto sudato. Sergio era abbigliato in maniera normale: calzoni grigi ben stirati, camicia azzurra e pullover rosso fuoco.
“Se continuerà a piovere tutta la roba marcirà” disse quest’ultimo.
“Quale roba?” chiese Luigino.
“Ma come! La frutta e la verdura, e i prezzi aumenteranno” disse il socio.
Luigino scrollò le esili spalle. Erano almeno vent’anni che non mangiava né frutta né verdura. In verità lui non mangiava quasi nulla. Qualche acciuga in salsa verde, un po’ di formaggio grasso, pane e rafano, e nulla di più. Viveva grazie all’alcol che ingurgitava da mattino a sera. Gli era sufficiente.
“Ho sentito in televisione che gli albergatori si stanno lamentando. Con questo maltempo i turisti se ne stanno a casa” intervenne Sergio.
Magnìn lo guardò, torvo.
“E dov’è che dovrebbero andare questi turisti, come li chiami tu?” disse.
Sergio distolse lo sguardo poi, prima di rispondere, ingollò una robusta sorsata di vino.
“Al mare, per esempio…”
A queste parole tutti scoppiarono a ridere, compreso lo stesso Sergio. Nulla poteva essere considerato più comico dal gruppo di amici che pensare a gente nuda, con la pelle abbrustolita, alle prese con sdraio, ombrelloni, paletta e secchiello.
Dolfo, terminato di sghignazzare, rivolse gli occhi al soffitto, beato.
“Pensate se piovesse vino!” esclamò all’improvviso, abbandonandosi all’estasi.
Tutti, a tale pensiero, trattennero il fiato e furono percorsi da un piacevole brivido. Gli occhi di Dolfo si inumidirono. A dispetto dell’apparenza era un tipo molto sentimentale.
“Però la pioggia così intensa può provocare alluvioni” intervenne Ferruccio, cercando di riportare tutti alla realtà.
“Basta prendere le barche” sentenziò Luigino, porgendo all’oste il cicchetto da riempire. Gli amici assentirono. La lucida saggezza di quell'uomo era proverbiale.
Seguì un altro giro di bottiglie che, nel giro di poco tempo, furono scientificamente prosciugate. Dolfo sentiva sempre più caldo, non vedeva l’ora di uscire a fare qualcosa.
“Allora, oggi non si fa nulla?” domandò con finta indifferenza.
“Si potrebbe andare a lumache!” propose Sergio con entusiasmo.
Magnìn scosse il capo. Lui preferiva andare in cerca di funghi o, al più, a caccia di vipere.
“E poi che te ne fai delle lumache?” chiese all’amico.
“Per prima cosa le metto a spurgare…” iniziò l’altro, quindi non seppe come proseguire.
“E poi che fai, te le mangi?”
Sergio fece una smorfia. “Sei matto? Le lumache mi fanno schifo!”
Proposta bocciata, dunque. Magnìn divenne pensieroso, e subito il suo pessimo umore contagiò tutti gli altri. I quattro compari continuarono a bere, per cercare di stemperare il morale basso. Ferruccio, l’oste, passò sul tavolo lo straccio lercio e si diresse verso il bancone, richiamato dal suono della campanella della porta. Un giovane contadino era appena entrato nel bar-osteria, dopo aver parcheggiato il vecchio trattore. Indossava un cappello di paglia, una enorme mantella intrisa d’acqua e, ai piedi, portava degli stivaloni di gomma incrostati di letame. Ordinò una cedrata.
Sempre seduti al loro tavolo, Magnìn e la sua banda lo avevano notato.
“Avete visto Pietrino? Da quando ha avuto l’eredità ogni volta che viene qui sembra un pavone!” disse Sergio, sempre ben informato riguardo tutto ciò che accadeva in paese.
Luigino non reagì. Era come in trance, continuava a tenere gli occhi arrossati fissi sul bicchiere di bibita che era comparso sul bancone. Si sentì rivoltare le viscere. Quel giovane stolto si accingeva a bere pioggia, nient’altro che pioggia colorata e gassata. Un autentico sacrilegio!
“Quale ereditità?” domandò invece Dolfo, curioso.
“Non vi ricordate? Il mese scorso è mancato il padre.”
Magnìn annuì.
“Il padre però era una persona per bene. Beveva” affermò con aria solenne.
“Ha preso tanta roba? Soldi? Case?” incalzò Dolfo, notoriamente alquanto pettegolo.
“Impossibile che abbia preso qualcosa” intervenne Magnìn. “Il buon Carluccio, prima di tirare le cuoia, aveva fatto in pieno il suo dovere e si era bevuto tutto.”
Tutti alzarono i bicchieri in segno di rispetto.
“Magnìn ha ragione” confermò Sergio. “Pietrino però ha ereditato l’unico bene prezioso che ancora possedeva il vecchio Carluccio, pace all’anima sua!”
“Sarebbe?” chiese Dolfo.
“Ha preso il posto di suo padre come socio della Cooperativa. Purtroppo ciò è previsto dallo statuto.”
Seguirono commenti costernati. Indignati. Si trattava di un fatto incredibile, inaccettabile. Pietrino era un giovane per bene, ma il fatto che non bevesse lo rendeva, agli occhi dei quattro amici, una persona indegna, e non era possibile che ora occupasse un ruolo così delicato.
“Che tempi!” sbottò Dolfo.
“Già! Dove andremo a finire?” rincarò Sergio.
Magnìn, per scacciare quei foschi pensieri, decise di prendere l’iniziativa. Di scatto si alzò in piedi e inforcò gli occhiali dalle lenti affumicate. Si strinse il foulard al collo.
“Andiamo a giocare a bocce!” ordinò. Tutti lo imitarono, anche se si reggevano a stento in piedi. Era impossibile contraddire Magnìn, nessuno c’era mai riuscito. Tuttavia era doveroso provarci, e lo fece Dolfo con voce strascicata.
“Piove!” Si lamentò. “Ci bagneremo.”
Magnìn lo squadrò dal basso verso l’alto. Il camionista era grosso il doppio di lui, ma non possedeva neppure la minima parte del suo carisma.
“Ho detto che andiamo a giocare a bocce e così faremo” ribadì. “Tanto c’è la tettoia” Discussione conclusa, come sempre. I quattro si diressero verso uno stanzino nel quale riponevano l’attrezzatura da gioco. Si armarono e uscirono sotto la pioggia battente. L’unico ad attardarsi fu Luigino. Anche se pioveva, anche se faceva freddo, lui non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla sua abituale ed elegante tenuta da gioco. Dopo essersi tolto gli scarponi da bagnato si sfilò i pantaloni di vigogna e ne indossò un paio di tela leggera. Poi calzò delle scarpe di corda. Infine, a fatica, riuscì a infilarsi sopra il maglione, che gli arrivava alle ginocchia, il suo famoso camiciotto a righe. Completò l’operazione sistemando in un taschino posteriore dei calzoni la bacchetta telescopica per misurare i punti e nell’altro un panno giallo per strofinare le bocce. In una tasca anteriore trovò invece posto un pallino di riserva. Infine afferrò e soppesò la borsa contenente le sue sfere da competizione di bronzo luccicante e dal diametro ridotto, pesanti esattamente ottocentonovantacinque grammi. Luigino aveva le mani piccole. Finalmente pronto, uscì a sua volta nel cortile della Società Cooperativa, dove gli amici lo stavano aspettando già completamente inzuppati. Tra le pietre del selciato spuntavano qua e là ciuffi di muschio dal colore verde brillante. I quattro compari puntarono decisi verso il campo da bocce, dove trovarono altri giocatori già impegnati in una partita, e che all’istante smisero di giocare. Sgombrarono in fretta il campo, uno di loro passò il rullo e un altro spazzò il terreno con una grossa scopa di rami di melo intrecciati. Poi si sistemarono attorno al campo di gioco, incuranti del diluvio. Non volevano perdersi neppure un attimo dello spettacolo.
“Giochiamo io e Luigino contro voi due” stabilì Magnìn.
Dolfo protestò piagnucolando.
“Non vale! Il bocciatore e il puntatore più forti contro i più deboli. Non c’è storia!”
Magnìn osservò l’amico per un istante. Il figlio dello stagnino era un tipo testardo ma era pure un grande sportivo. Decise di concedere al camionista una possibilità. Luigino, dal canto suo, rimase imperturbabile. Era già concentrato sulla partita.
“Tiriamo a sorte?” suggerì Sergio, speranzoso.
Magnìn scosse il capo, fece schioccare le labbra, poi azionò la macchinetta a benzina e si accese una delle sue sigarette senza filtro. Notò con disapprovazione che la cicca era un po’ umida. Dedusse che il tabacco assorbe l’umidità, e di quella ce n’era davvero tanta.
“Facciamo così” disse dopo aver aspirato alcune boccate. “Chi tira la boccia più lontano può scegliere il socio.”
Nessuno ebbe qualcosa da ridire. Erano tutti entusiasti. Le idee di Magnìn erano sempre geniali. Soltanto Sergio manifestò un piccolo dubbio.
“Ma dove le tiriamo le bocce?” domandò.
Magnìn buttò il mozzicone, che toccò terra sfrigolando.
“Tiro libero” disse a bassa voce. E l’approvazione fu ancora una volta totale.
Tornarono nel cortile.
“Andate a chiamare Ferruccio” aggiunse il figlio dello stagnino. “A turno ci riparerà con l’ombrello.”
E l’oste arrivò reggendo un gigantesco parapioggia nero a due piazze. Ognuno dei quattro compari aveva in mano una boccia da allenamento, di quelle che Ferruccio metteva a disposizione dei clienti non abituali. Le preziose sfere da gara, truccate con il mercurio, erano state lasciate all’asciutto. Guai se si fossero bagnate! Avrebbero perso la loro sfolgorante lucentezza.
“Comincio io!” disse Sergio, deciso. Poi sporse la lingua, impugnò ben stretta la boccia e fece oscillare il braccio a pendolo. A un certo punto lanciò. La sfera, resa scivolosa dalla pioggia che continuava a cadere torrenziale, gli scappò di mano e andò a infrangere il vetro di una finestra del Salone della Musica.
“Come facciamo a misurare?” chiese Dolfo. Sergio si strinse nelle spalle.
“Sabato sera, quando i musici faranno le prove, la andrò a recuperare” disse infine il maldestro lanciatore, un po’ imbarazzato, rivolgendosi allo sbalordito Ferruccio.
“Dolfo, tocca a te!” disse Magnìn.
La boccia quasi sparì, affondata nell’enorme mano del camionista. Dolfo ruotò più volte il braccio, aumentando sempre di più la velocità, e alla fine mollò. La sfera assunse una traiettoria perfettamente verticale, si confuse con il grigio delle nuvole e tutti la persero di vista. Dopo alcuni lunghi istanti carichi di tensione la palla di metallo ricadde perforando l’ombrello di Ferruccio, sfiorando il grosso naso dell’oste e andando a conficcarsi nel terreno impregnato d’acqua. Tutti rimasero ammutoliti, tranne Magnìn e Luigino. Il primo si accese l’ennesima sigaretta, dopo averla prima leccata con estrema cura. L’altro, impassibile, estrasse la bacchetta telescopica e, stando in ginocchio, misurò il lancio di Dolfo.
“Due centimetri in lunghezza, sette in profondità” fu il suo preciso responso. Dolfo scosse il capoccione, insoddisfatto. Ferruccio, ancora pallido come un cadavere per il pericolo corso, non disse nulla. Si limitò a gettare a terra l’ombrello, ormai inservibile, e a rifugiarsi sotto il porticato. Proprio quando arrivò il turno di Luigino la pioggia aumentò ancora d’intensità. Un autentico diluvio, ma l’ometto con il camiciotto a righe non si lasciò intimidire dalla furia degli elementi. Sputò a terra, asciugò la boccia con il suo panno giallo, poi la impugnò di sottomano. Luigino era il migliore puntatore del paese, e non solo. In ogni suo lancio riusciva ad accostare la boccia a non più di un centimetro dal pallino. Spesso lo baciava. Era in grado di imprimere alle bocce direzioni impossibili, di farle saltare e curvare. Tuttavia adesso si trattava di usare la forza, e quella proprio non la possedeva, perché era di costituzione minuta. Allora scelse l’astuzia. Lanciò la boccia direttamente sulla strada, che in quel punto era in leggera pendenza. La palla di ferro prese un buon abbrivio, all’improvviso curvò, come per prodigio, e imboccò una ripida china, quella che conduceva verso la chiesa. E scomparve alla vista. Un volenteroso giovane, incurante del nubifragio, inforcò la bicicletta e si recò a verificare l’esito del tiro. Fu di ritorno dopo qualche minuto, tutto trafelato e completamente zuppo d’acqua.
“Ha preso in pieno il sacrestano che stava uscendo dalla chiesa!” gridò. “Sulla caviglia!” precisò.
Luigino annuì, infilò le mani in tasca e andò a mettersi al riparo. Aveva la gola secca, e ordinò a Ferruccio un bicchierino di liquore alla prugna. L’oste lo servì subito.
Magnìn prese posizione proprio in mezzo al cortile della Società Cooperativa. Naturalmente avrebbe potuto rinunciare alla sua prova. Luigino aveva vinto, e avrebbe sicuramente scelto lui come compagno per la partita. Tuttavia il figlio dello stagnino non era un tipo che rinunciava facilmente alle sfide. Era in gioco la sua reputazione. Che cosa avrebbero detto in paese se si fosse arreso senza lottare?

Magnìn era immobile, con la boccia in mano, un occhio socchiuso per prendere meglio la mira. Sembrava una statua. Nessuno osava parlare. Trascorse mezz’ora, poi un’ora, e lui non si muoveva. Gli portarono del vino, per riscaldarlo. Tentarono persino di accendergli una sigaretta, ma non ci riuscirono, poiché pioveva sempre più forte. e tirava vento. D’un tratto sopraggiunse un camion. Magnìn ne sbirciò la targa, e vide che era quella di un’altra provincia. Con un abile movimento del polso riuscì a gettare la boccia sul cassone del veicolo in corsa. Quella palla di ferro, prima di fermarsi, avrebbe percorso chissà quanti chilometri! Aveva vinto! I presenti applaudirono. Qualcuno si inchinò in segno di rispetto. Dolfo, esaltato per l’impresa dell’amico, ordinò da bere per tutti. Quindi il camionista lanciò un'occhiata alle nubi che si addensavano sempre di più, gonfie d'acqua a dismisura, si strizzò la canottiera e poi andò di corsa verso il campo da bocce. In fondo, che importava se non c’era il sole?  

domenica 16 giugno 2013

MAGNÌN AL MATRIMONIO


Il corteo nuziale giunse strombazzando nella piazza di fronte alla chiesa. In coda c’erano due rombanti moto, tirate a lucido per l’occasione. Sulla prima c’era Magnìn, che trasportava sul sellino posteriore il corpulento Dolfo. L’altra era quella di Luigino, con il suo passeggero Aurelio Berta detto “Stringhini”.
Le automobili parcheggiarono in maniera selvaggia. I due centauri spensero il motore e arrivarono a destinazione a ruota libera. In gran fretta smontarono e issarono le moto sugli alti cavalletti.
“Sbrighiamoci, prima che non ci sia più posto!” urlò Dolfo, il camionista, che pareva un invasato.
Poi tutti e quattro gli amici si misero a correre. Non in direzione della chiesa, bensì verso l’edicola-osteria di Albino, che si trovava sull’altro lato della piazza. Entrarono e si sistemarono al solito tavolo, che per buona sorte era ancora libero. Nei giorni di matrimonio era sempre difficile trovare posto all’osteria, dal momento che in chiesa ci entravano solo donne e bambini e qualche parente degli sposi.
Magnìn, con un impercettibile cenno del capo, ordinò il primo litro della giornata. A Luigino, senza che ciò fosse stato richiesto, Albino servì il solito bicchierino di liquore alla prugna.
“Finalmente si beve!” esclamò Dolfo portando il bicchiere alle labbra con grande soddisfazione. Gli altri lo imitarono. La lunga traversata nel deserto finalmente aveva avuto termine.
Magnìn e la sua banda erano stati invitati al matrimonio del loro giovane compare Italo, che quel giorno aveva deciso di andarsi a impiccare. Il primo brindisi fu quindi alla sua salute, anche se gli sguardi degli amici erano molto addolorati. Luigino si limitò a scuotere il capo per esprimere la sua disapprovazione. Il vino, in ogni caso, calava senza tregua in quelle gole riarse. I quattro erano già stati al rinfresco alla cascina dello sposo, ma ne erano rimasti piuttosto delusi.
“Che gli è preso a Italo? Ci invita al ricevimento e poi ci fa bere soltanto acqua! Mai vista una roba del genere!” Stringhini era davvero disgustato.
“Guarda che quello che ti sei scolato era vermouth” lo corresse Dolfo, che era già ubriaco. Era grande e grosso ma reggeva lo spirito meno degli altri.
“Che cosa ho detto? Acqua!” ribadì l’altro, e tutti annuirono convinti. Anche lo stesso Stringhini, che era un tipo accomodante e facile da convincere.
“Forse era la sposa che voleva così. È una ragazza raffinata” intervenne con delicatezza Albino, l’oste dal fisico massiccio e dalla vocetta sottile. “Guardate! Sta arrivando adesso!”
Magnìn e gli altri si alzarono in piedi, senza abbandonare i bicchieri, che sembravano incollati alle loro mani, e sbirciarono attraverso la finestra.
Da una Fiat 1500 grigio scuro e lucidata a specchio scese la sposa accompagnata dal padre.
“Porco di un Giuda!” strepitò Dolfo. “È due volte il povero Italo!”
“Che madamùn!” convenne Stringhini, spaventato.
“Grossa è grossa…” analizzò Luigino con la consueta flemma sorseggiando il liquore.
Magnìn non disse nulla. Rabbrividì. Lui era allergico ai matrimoni, e soprattutto al suo. I quattro si risedettero, sapevano che la funzione sarebbe stata lunga e che c’era ancora parecchio tempo per dissetarsi.
“Come siete eleganti!” li adulò Albino. “Dei veri figurini!”
Luigino indossava l’abito che aveva portato alla cresima. Da allora l’ometto non era cresciuto molto, anche se pantaloni e maniche della giacca erano comunque un po’ corti. Magnìn aveva preso in prestito dal fratello “francese” un elegante abito scuro. Roba di lusso, e si vedeva. Al posto della cravatta però si era annodato al collo un foulard rosso, di seta. Utile per andare in moto perché riparava dall’aria. Stringhini vestiva uno spezzato molto attillato, calzoni blu e giacca color ruggine, che metteva ancora più in risalto la sua figura allampanata e secca. Dolfo, invece, si era messo il vestito del “suo” matrimonio, avvenuto quasi vent’anni prima. Da quel tempo lontano il camionista era un po’ ingrassato, di almeno venti chili, e quindi non c’era verso di abbottonare la giacca. E neppure la camicia, anche quella la stessa di quel giorno infausto. In più, sembrava avere avuto qualche problema con la sgargiante e fuori moda cravatta. Il nodo era enorme e dalla sua parte inferiore spuntava una misera striscia di stoffa lunga non più di dieci centimetri.
La cerimonia in chiesa purtroppo terminò e Magnìn e i suoi amici furono costretti ad alzarsi, un po’ traballanti, per andare ad accogliere gli sposi sul sagrato.
“Il riso! Preparate il riso!” sbraitarono alcuni indemoniati invitati.
Una signora tutta agghindata che pareva uno scherzo mise tra le mani di Magnìn un intero pacco di riso. Un chilo, valutò il figlio dello stagnino, il peso esatto di una delle sue bocce da gara. Naturalmente non si scomodò ad aprirlo. Lo soppesò un attimo e si limitò a scagliarlo con grande forza contro gli sposi, che erano appena apparsi. Sia Italo che l’anziano don Felice schivarono con abilità il grosso proiettile. Il mattone colpì in pieno il sacrestano e lo abbatté sui gradini della chiesa.
“Viva gli sposi!” gridò Dolfo per sviare l’attenzione dei partecipanti.
“A bocciare sei sempre il più bravo” si complimentò Luigino con Magnìn. L’altro non disse nulla, fece scattare la macchinetta e si accese una delle sue sigarette senza filtro.
Dopo un po’ il corteo si avviò di nuovo, diretto al ristorante. Di tutto ciò che era avvenuto fino a quel momento agli invitati, tranne a qualche parente degli sposi, non era importato un bel nulla, ma adesso la questione diventava più seria. Finalmente si andavano a mettere le gambe sotto il tavolo.
Magnìn e Luigino ripartirono con le loro assordanti moto, zigzagando tra i terrorizzati autisti delle automobili. Entrambi avevano in corpo più alcool che non benzina nei serbatoi.
In qualche maniera arrivarono tutti sani e salvi al ristorante, compreso Magnìn e la sua banda. Dopo una interminabile attesa finalmente il pranzo ebbe inizio. Il menu, evidentemente, era stato scelto da Italo che, almeno a riguardo, non aveva lasciato mettere becco alla sposa. Per antipasto furono serviti salame all’aglio, peperoni arrostiti, acciughe in salsa verde, vitello tonnato e uova sode con rafano. Poi seguirono i primi: agnolotti e cotiche di maiale. E infine i secondi, arrosto con patate e spinaci e pasticcio di piccione. Magnìn, Luigino e Stringhini, ovviamente, non mangiarono nulla. Loro erano lì per bere, non certo per abbuffarsi. Dolfo, invece, onorò tutte le portate, e in più spazzolò anche le porzioni degli amici. Insomma, aveva pranzato per quattro, anche se alla fine sentiva ancora un certo languore allo stomaco. Lo mise a tacere inghiottendo in un attimo quattro enormi fette di torta.
Magnìn e i suoi soci, seduti in fondo al lungo tavolo, e ormai dietro a una barriera di bottiglie vuote, si addormentarono, qualcuno di loro con ancora la sigaretta stretta tra le labbra violacee. Furono svegliati di soprassalto da alcune grida.
“Bacio! Bacio! Bacio!” urlarono in coro quasi tutti gli invitati.
Dolfo, ancora intontito, schioccò un rumoroso e umido bacio sulla guancia imberbe di Stringhini.
“Ehi!” protestò l’altro. “Sei passato sull’altra sponda?” protestò l’amico.
“Credevo fosse come in chiesa quando dicono del segno di pace…” si giustificò, confuso, il camionista.
Al tavolo di Magnìn si avvicinò il fotografo, accompagnato da Italo e dalla sposona.
“Facciamo la foto con gli amici” disse lo sposo con la voce impastata.
Fecero alzare i quattro ma si accorsero che non erano in condizione di stare in piedi. Allora li puntellarono l’uno all'altro e in qualche modo il fotografo riuscì a fare un paio di scatti. La sposa si volle piazzare davanti e li coprì tutti. Magnìn e Luigino si risedettero, gli altri due crollarono sotto il tavolo. Nessuno se ne accorse.
Il pranzo era terminato e giunse così il momento degli scherzi. Un paio di giovani contadini appoggiarono sul tavolo un mastello colmo d’acqua, un grosso pezzo di sapone e alcuni panni, perlopiù enormi mutandoni e reggiseni. Poi legarono un grembiule alla vita di Italo il quale, ormai del tutto annebbiato, non comprese la burla. Afferrò la bacinella e versò l’acqua addosso ai due malcapitati, infradiciandoli. Quindi emise una agghiacciante risata. I soli ad applaudire entusiasti furono Magnìn e Luigino, che avevano ritrovato un minimo di lucidità e avevano ripreso a versarsi da bere.
Un ragazzino si fece avanti con un paio di forbici in mano e si diresse verso lo sposo. Era arrivato il momento più atteso: il taglio della cravatta! Tutti misero mano al portafogli. Magnìn estrasse dal taschino della giacca un rotolo di banconote da centomila e le buttò sul tavolo. Erano gli ultimi soldi che possedeva, per fortuna. Il giorno successivo avrebbe così potuto riprendere a lavorare, accumulare altro denaro per poi smettere di nuovo ogni attività finché non avesse dilapidato tutto. Lui viveva così.
Il giovane iniziò a tagliare la cravatta dalla punta. Diede una violenta sforbiciata, si vide una scintilla e l’attrezzo andò in pezzi. Italo si esibì in una nuova raggelante risata. L’astuto contadino aveva, in precedenza, passato un robusto fil ferro lungo l’intera circonferenza della cravatta che in tal modo aveva resistito al taglio. Tutti gli invitati si guardarono, strabiliati per il trucco. Giacomo Concia, detto “Turèt”, scosse l’enorme capoccione. L’uomo era, per così dire, imparentato con lo sposo per via di alcuni vitelli che gli aveva venduto. Si alzò, uscì dal ristorante reggendosi a stento sulle corte gambe malferme e si mise a trafficare nel bagagliaio della sua Fiat 500 giardinetta. Ritornò poco dopo con un ceppo di legno e una motosega che, con pochi abili colpi, avviò. Il locale si riempì all’istante di fumo nero e denso. Seguì un fuggi fuggi generale.
“Metti la cravatta sul tronco!” gridava Turèt con il volto sempre più rubizzo inseguendo un terrorizzato Italo.
Luigino rimase impassibile. Il suo sguardo era concentrato sulla rombante motosega.
“È tedesca, senti che bel rumore” disse, rivolto a Magnìn, il quale assentì ammirato.
Alla fine Turèt fu neutralizzato con la promessa di un bicchierone di fernet.
Italo e l’imponente sposa si congedarono dagli invitati. Dovevano andare a preparare le valigie per il viaggio di nozze. Sarebbero partiti l’indomani. La destinazione era la Liguria, dove avrebbero trascorso due soli giorni. Il giovane Italo era un tipo sentimentale e proprio non riusciva a staccarsi dalle amate vacche per troppo tempo.
Poco per volta tutti sciamarono fuori dal ristorante. Pochi erano in grado di camminare come cristiani. Alcuni si spostavano a quattro zampe, altri addirittura strisciavano. Soltanto qualche bambino era rimasto abbastanza sobrio. Magnìn e i suoi compagni, invece, si erano un po’ ripresi. Merito del costante allenamento quotidiano. Il figlio dello stagnino, baldanzoso, si diresse verso la sua moto. E con un balzo fu in sella.
“Ehi! Guarda che sei seduto al contrario!” disse Dolfo. In effetti Magnìn stava cercando di impugnare il manubrio ma non lo trovava. Alla fine si rese conto che la sua posizione in sella era un po’ strana.
“Non importa, ormai sono messo così e parto così!” disse. Magnìn era un tipo piuttosto testardo ed era impossibile fargli cambiare idea. Nessuno c’era mai riuscito. Dolfo, rassegnato, alzò le spalle e prese posto anche lui sulla moto. Sempre al contrario, naturalmente. Magnìn protese le braccia all’indietro e finalmente riuscì ad afferrare le manopole. Scalciò sulla messa in moto, inserì la marcia e riuscì a partire.
“Ma così non ci vedi niente!” urlò preoccupato il padre di Italo, che aveva assistito alla terrificante scena.
“Sono talmente lordo che tanto ci vedrei doppio o triplo e sarebbe ancora peggio” rispose Magnìn mentre già si allontanava ondeggiando sulla strada ghiaiosa.
Alcuni volenterosi issarono Luigino sulla moto, perché da solo proprio non ci riusciva. Poi sistemarono dietro di lui Stringhini, che si abbioccò all’istante ma riuscendo miracolosamente a reggersi in equilibrio sul sellino.
“Sicuro di farcela?” disse un parente della sposa, un po’ in apprensione, a Luigino.
“Io no, ma la moto conosce la strada” rispose l’altro, prima di dare gas.

giovedì 13 giugno 2013

SENZA FESTE


La donna esce di casa e si arresta sulla soglia. Si guarda attorno, in cerca di qualcuno. Ma non vede nessuno. Allora sbuffa, spazientita. In lontananza, le campane rintoccano per dodici volte.
“Pietro!” urla. “Dove sei? È pronto! Sbrigati!” Aspetta una risposta che subito arriva.
“Vengo, un po’ di pazienza, che diamine!” È la voce di un uomo, un uomo anziano. Anche la donna è anziana. È rimasta ferma, aspetta.
Finalmente l’uomo sbuca, proveniente dal retro della casetta.
“Mi stavo lavando le mani. Ho trafficato un po’ nell’orto, ma adesso ho finito” dice, quasi scusandosi.
“Ti devi sempre fare aspettare…” brontola lei e torna dentro.
L’uomo si ferma di fronte alla porta d’ingresso. Si sfila gli stivali infangati e indossa delle pantofole chiuse, di stoffa marrone. Poi entra.
“Siediti, che si raffredda tutto!”
“Aspetta che accendo la radio.”
E il vecchio si avvicina a un mobile, sul quale è appoggiato un grande apparecchio con il rivestimento di legno. Lo mette in funzione. Ruota lentamente la manopola della sintonia, mantenendo lo sguardo fisso su una fioca luce verde. L’occhio magico. All’improvviso, una voce stentorea invade la piccola stanza da pranzo.
“Possibile che non riesci a mangiare senza la radio?” dice la donna con tono di rimprovero.
“Zitta. C’è il giornale radio” la fa tacere il marito.
Lei farfuglia qualcosa e poi si dirige nel cucinino. Sui fornelli sono poste due marmitte. I fuochi sono spenti. Toglie un coperchio, afferra con energia una pentola e la porta nell’altra stanza. La appoggia sul tavolo imbandito.
“Hai sentito? Le hanno tolte! Robe da matti!” dice l’uomo, agitato.
“Cosa? Che cosa hanno tolto?” risponde distratta la donna.
“Le feste! Hanno tolto le feste! La Befana! Il Corpus Domini! E anche la mia festa! La festa del mio santo!”
La donna adesso è più attenta, cerca di capire.
“Ma non si possono togliere le feste…” dice con voce piatta.
“Ti dico di sì, si può fare. E lo hanno fatto.”
La donna si siede, sconsolata.


domenica 9 giugno 2013

MARTIRI DI REGGIO EMILIA


Intorno a me, una distesa fredda e desolata. Non so dove mi trovo, e non riconosco il suolo che sto calpestando. Sono circondato dalla nebbia, una coltre scura e spessa, caliginosa. Avanzo tentoni, quasi alla cieca. Cerco, invano, di penetrare con lo sguardo quella bruma ostile ma, da ogni parte, intravedo soltanto il nulla.
Proprio mentre sto per essere soverchiato dal greve senso di angoscia che mi opprime sempre più, di fronte a me si stagliano alcune ombre. Dapprima vaghe e indistinte, poi sempre più nette. Si tratta di persone.
Mi fermo, e loro fanno altrettanto. Sebbene i contorni delle loro figure non siano ancora perfettamente tracciati, scruto con attenzione i lineamenti indistinti dei loro volti, finché non li riconosco. Quando ciò avviene, provo un tuffo al cuore. Non ho alcun dubbio, sono loro, sono i cinque martiri.
C’è Ovidio, con il suo solito disarmante sorriso. Accanto a lui, con l’espressione corrucciata, scorgo Lauro. Più discosti distinguo Afro ed Emilio, seri e impettiti e, dietro di loro, nell’abituale atteggiamento umile, Marino.
Le loro fisionomie sono rimaste inalterate, il tempo sembra non essere trascorso. Adesso non ho più paura, l’ansia mi ha abbandonato per lasciare posto a un sentimento di benevolenza. E di compassione.
“Siete voi! Siete usciti?” esclamo, profondamente toccato.
“Sì, siamo venuti fuori” dice Ovidio, con voce sommessa.
Poi si avvicina a me. Mi appoggia le dita sull’avambraccio. Sono gelide.
“Mia madre, dimmi di mia madre” chiede, accorato.
“Tua madre non c’è più” rispondo.
Lui scuote la testa, sconsolato.
“Il tempo per noi non esiste” dice Afro, con mestizia. “E Anita?” aggiunge all’improvviso Ovidio.
“Ti ha pianto a lungo, subito non riusciva a trovare consolazione. Poi, per forza di cose, ha proseguito la sua vita.”
Ovidio annuisce, pensieroso, quindi si allontana.
“È servito a qualcosa?” domanda Emilio. “Il nostro sacrificio, intendo” precisa.
“Sì, è servito.”
“Dopo però ce ne sono stati altri, vero?” chiede Lauro, cupo.
“È vero, dopo ce ne sono stati tanti altri. E tutti inseguivano lo stesso vostro ideale, la libertà. Nulla, però, è stato vano.”
Tutti tacciono. So bene che cosa vorrebbero domandarmi. Li abbraccio con lo sguardo.
“I vostri familiari, genitori, mogli e figli, non hanno mai smesso di invocare giustizia. Si sono battuti per anni come leoni.”
“Come i leoni di San Prospero?” domanda, timido, Marino.
“Sì, proprio come loro. E sono riusciti a mantenere viva la memoria, il ricordo del vostro sacrificio.”
A Marino, per chissà quale motivo, sono sempre piaciute quelle sculture di pietra rossa. Ciò suscita in me un’ondata di tenerezza.
“Voi non vi conoscevate, vero? Prima, voglio dire” domando.
Fanno segno di no. Soltanto Marino guarda in direzione di Lauro.
“Ho conosciuto lui” dice. “Ma in quel momento era già morto.”
“E tu?” mi chiede all’improvviso Emilio, fissandomi negli occhi. “Tu c’eri?”
“No” dico. “Sono venuto al mondo subito dopo.”
Lui acconsente.
“Perché lo fai, allora?” mi interroga ancora.
“Non lo so. Credo sia mio dovere farlo. Non si può dimenticare.”
“No, non si dovrebbe, anche se a volte purtroppo accade.”
“Adesso è ora di andare” dice Afro. “Siamo stanchi, dobbiamo tornare da dove siamo venuti, anche se quel luogo è buio, freddo e triste. ”
Gli altri, arrendevoli, approvano le sue parole.
“Prima di lasciarti, lo possiamo fare?” chiede Marino.
“Che cosa?” rispondo, colto alla sprovvista. Poi comprendo.
“Certamente” dico.
I cinque martiri si dispongono l’uno accanto all’altro. Mi accorgo che le loro figure stanno cominciando a sbiadire. Abbasso lo sguardo e faccio appena in tempo a scorgere, ai piedi di Lauro, un paio di ciabatte, le stesse che portava quel tragico giorno.
Subito dopo, mentre loro, poco per volta, stanno ridiventando ombre, sento un canto. Dapprima soltanto un lieve sussurrare, che poi diventa sempre più forte e chiaro. Quelle voci però sono profonde, cupe, come se provenissero da un altro mondo.

Avanti o popolo, alla riscossa
bandiera rossa, bandiera rossa
Avanti o popolo, alla riscossa
bandiera rossa, bandiera…

Qualcosa si spezza dentro di me e non riesco più a trattenere le lacrime. E quasi non mi rendo conto che la nebbia sta diventando sempre più fitta.

Infine non scorgo più nulla, e mi ritrovo di nuovo solo. 

(tratto dal mio romanzo "Sangue del nostro sangue" - prologo)

martedì 4 giugno 2013

DAL MACELLAIO


“A chi tocca?” domanda il macellaio con la sua voce vellutata.
È sabato mattino e il negozio è colmo di clienti. Si fa avanti una giovane donna bionda e graziosa.
“Alfredo, ci sono io!” dice.
“Che cosa le servo oggi di buono, madamìn?
“Un bel pezzo di bollito. Però mi raccomando, non come quello dell’altra volta che era tutto nervi.”
“Non si preoccupi” risponde il macellaio, incurante dell’appunto. “Una signora così bella deve essere servita bene!”
La moglie, seduta alla cassa, gli lancia un’occhiata torva.
“Allora, a me che sono vecchia e grassa, mi serve male?” lo rimbecca una donna anziana, risentita.
“Stia tranquilla, signora Rosina, lo sa che lei era già la cliente prediletta di mio padre?”
“Suo padre? Ma suo padre buonanima è mancato vent’anni fa! Allora è proprio vero che sono vecchia!” ribatte la donna e poi scoppia in una risata grassa.
A un tratto, proveniente dall’esterno, si sente un rumore. Che diventa sempre più forte. Tutti i clienti si voltano verso la vetrina. E lo vedono. Un trattore, un vecchio e decrepito trattore che si sta avvicinando. Il motore scoppietta e dal tubo di scappamento si sprigiona un fumo denso e nero. Il mezzo agricolo percorre ancora un breve tratto, sul marciapiede, e poi si arresta a un metro dall’ingresso della macelleria.
Il guidatore scende. È un giovane contadino di non più di trent’anni. Alto e grosso. Indossa un pesante giaccone di pelle, sbottonato, dal quale sporge un’enorme pancia. I pantaloni, dal colore indefinito, sono sporchi e allacciati in vita con una corda. Ai piedi, calza degli stivali di gomma incrostati di letame. La testa leonina è incorniciata da lunghi capelli, sui quali galleggia un piccolo cappello di paglia, e da una barba fluente e incolta. Le sue movenze appaiono rallentate, quasi senili.
Lo strano personaggio entra in macelleria. Non saluta. Pare non accorgersi degli altri clienti che, ammutoliti, si scostano al suo passaggio. Punta dritto verso il grande bancone di marmo. Alfredo, il macellaio, lo accoglie con un sorriso nervoso.
“Piersandro! Tutto bene? Hai visto che bravi?” dice strizzando l’occhio ai clienti. “ Ti lasciano passare. Lo sanno che tu hai sempre fretta e sempre tanto da fare!”
L’uomo guarda stupito il macellaio. Non capisce.
“Dammi del filetto” ordina.
“Pronti!” risponde Alfredo, sempre più teso. Si volta, afferra un grosso pezzo di carne e lo appoggia sul piano di marmo. Poi impugna un lungo e affilato coltello.
“Allora, quante fettine ne vuoi? Te le faccio spesse o più sottili?” chiede il negoziante.
Piersandro riflette per un interminabile attimo.
“Prendo tutto. Taglialo in due.”
“Tutto? In due?” farfuglia Alfredo. “Va bene, subito. Faccio subito.”
Il macellaio esegue e incarta la carne. Porge l’involto allo strano individuo che si dirige verso la cassa. Ma sua moglie è sparita. È scappata nel retro. Anche alcune clienti, nel frattempo, sono uscite. Piersandro si blocca di colpo e rimane immobile al centro del negozio.
“Paga pure a me” dice il macellaio.
Il gigante comincia a frugare, prima nel giaccone e poi nei pantaloni. Alla fine, estrae un rotolo di banconote. I soldi sono lerci. Li butta sul bancone.
“Prendi cosa ti serve, io non ho pazienza a contare” dice.
Il macellaio, schifato, comincia a conteggiare il denaro. Nello stesso tempo, pensa che anche questa volta è andata bene. E allora osa.
“Piersandro, era un po’ che non ti vedevo. Da prima di Natale. E l’anno nuovo, l’hai cominciato bene l’anno nuovo?” domanda.
Gli occhi del contadino si accendono. Adesso l’espressione è furba.
“L’ho cominciato stando nel letto!” risponde.
“Ma come? Un ragazzo giovane come te che passa Capodanno stando nel letto?”
Adesso Piersandro sembra finalmente accorgersi delle altre persone, che lo stanno guardando. E si volta.
“L’ho passato nel letto, ma non nel mio!” ed esplode in una raggelante risata.