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giovedì 30 maggio 2013

CAMPIONE DEL MONDO!


“Gentili signore e signori, buongiorno.” La voce calda e appassionata di Adriano De Zan proviene dall’apparecchio televisivo posto su un alto trespolo. A quel richiamo gli avventori del bar, fino a qualche istante prima moltitudine scomposta e vociante, si ammutoliscono come d’incanto.
“Venite! Inizia!” grida qualcuno. E tutti si dirigono verso il televisore, sintonizzato sul Primo Programma della RAI. Soltanto un giovane, indifferente al trambusto che lo circonda, non accorre. Si avvicina al juke-box, infila un gettone e seleziona un brano. Le note veloci di “Samarcanda”, di Roberto Vecchioni, si diffondono nel locale.
“Spegni quella roba! Cristo! Non si sente niente!” sbraita Pino, il camionista.
“Non posso ascoltare la musica?” domanda il ragazzo, con finta ingenuità. “Che cosa c’è di così importante alla tele?”
Faustino, il proprietario del bar, allo scopo di prevenire spiacevoli incidenti, si accosta al giovane e gli bisbiglia qualcosa all’orecchio. Poi smorza il volume del juke-box fino a che la musica diventa quasi impercettibile. Con gli occhi, si scusa con il cliente che dapprima si indispone e quindi se ne va, sbattendo la porta.
Adesso gli avventori sono ammassati in una piccola sala, quella che contiene il televisore. Tutti fumano e l’aria è pesante, quasi irrespirabile ma nessuno sembra rendersene conto. Gli sguardi sono puntati sullo schermo. I commenti si incrociano.
“Guarda i nostri! Sono quasi tutti davanti!”
“Chi è quello? Il giovane, dico.”
“È Beppe Saronni. Tira come un dannato.”
“Non ne ha più, guardate com’è bianco in faccia. Però ha fatto un buon lavoro, di belgi e di olandesi ne ha scoppiati parecchi.”
“Speriamo che non succeda come l’anno scorso.”
“Dov’è Bitossi?”
“Madonna come piove adesso!”
“Ahi… ahi…”
“Che c’è?”
“È partito, quello con la maglia bianca!”
“Mi sembra un tedesco.”
“Uno dei nostri gli è andato dietro!”
“È Moser! Dai Checco!”
“Come ha detto che si chiama l’altro?”
“Thurau.”
“È forte?”
“Altroché! Quello è bravo in volata. Fa le Sei Giorni.”
“Francesco, dagli la purga al crucco!”
“Quei bastardi di tedeschi rompono le palle dappertutto!”
“Ludovico, non fare il razzista!”
“Nazista?”
Badòla! Ho detto razzista!”
“E cosa c’entra il razzismo? Me lo vuoi spiegare?”
“Zitti! Quanto manca?”
“Meno di due giri.”
“Ci avete fatto caso? Non c’è un metro di pianura. Tutta salita e discesa. Che razza di percorso!”
“È durissimo!”
“È per gente con le palle!”
“Dai Moser! Non mollare!”
“Robe da matti! C’è di nuovo il sole!”
“Guardate che asfalto brutto, è pieno di gobbe.”
“Lì ti rompi il culo!”
“È peggio della Rubé."
“Il vigliacco non tira.”
“Forse è cotto.”
“Quelli? I tedeschi? Quelli sono furbi…”
“Merda, l’ultimo giro! E Moser non riesce a toglierselo dai coglioni!”
“Vedrai che finirà in volata.”
“Nooo!”
“Ma avete visto ai bordi della strada? Sembra che ci sia la giungla!”
“Eh! Sono in Venezuela!”
“Cazzo c’entra? Se fanno il campionato del mondo sarà ben un paese civile, no?”
“Perché? Se c’è la giungla non può essere un paese civile?”
“Non lo so. Però era meglio se lo facevano dalle nostre parti.”
“Sì, ma non in Puglia! Ti ricordi l’anno passato? Ha portato una sfiga nera!”
“Che avete contro la Puglia?”
Ti sta cìtu, nàpuli!”
“Che succede adesso?”
“Moser ha mollato!”
“Merda!”
“Cristo! Ha bucato! E l’altro non se n’è neppure accorto! Quel mangiapatate è proprio un coglione!”
“Dov’è l’ammiraglia? E Martini?”
“Quanto manca?”
“Mi sembra meno di cinque chilometri.”
“Arriva! Arriva!”
“Gli hanno cambiato la bici!”
“Però! Che velocità!”
“Vai Francesco!”
“L’ha quasi ripreso!”
“Uno sforzo così poi lo paghi…”
“Guarda che quell’altro non ne ha più, si è fatto prendere!”
“Sì, e poi lo ciula alla fine!”
“Moser non deve stare davanti!”
“Mica può fermarsi!”
“È partito!”
“Porca puttana!”
“Vaaai!”
“Non ce la fa a reggere una volata così lunga…”
“Quello è tosto! È un montanaro!”
“Ce la fa! Ce la fa!”
“Ha vinto!”
“Campione!”
“Guarda! Terzo Bitossi!”
“Faustino! Da bere! Subito! Per tutti!”




sabato 25 maggio 2013

LA GUERRA DELL'ACQUA



Fa caldo, molto caldo in quell’estremo lembo della penisola. E l’estate è lunga, interminabile. Il sole picchia con cattiveria durante tutta la giornata. In questo periodo è raro che la pioggia offra il suo piacevole ristoro alla terra arida e assetata.
“Mannaia! ‘A stamu levando la pasta i casa?” urla l’uomo.
È un pezzo d’uomo, alto, robusto. Si aggira impaziente nell’aia della piccola casa colonica e sembra un leone in gabbia. Non è abituato ad aspettare. Indossa dei pantaloni di tela legati in vita con uno spago e una vecchia e logora canottiera, dalla cui scollatura spuntano folti ciuffi di peli neri. Il cranio invece è completamente glabro, lucido e abbronzato.
Fa la sua comparsa una donna ancora giovane, dal fisico solo in apparenza gracile. È tutta vestita di nero.
“Un momento! Sta arrivando! Si sta calzando!” dice rivolta al marito. 
“Mannaia!” è la sola risposta.
La donna rientra in casa, spaventata. Subito dopo esce un ragazzino. Di corsa. Si avvicina al padre e, mentre tenta di giustificare il ritardo, riceve un ceffone. Il bambino cambia espressione, ma stringe i denti e trattiene il pianto.
Mannaia lu pisci stoccu! Siamo in ritardo! Non senti che l’aria si sta già riscaldando?” sbraita l’uomo. Sono le sette del mattino.
Infine, i due si avviano. Escono dal cortile, attraversano la strada comunale e imboccano uno stretto e tortuoso sentiero sterrato. Camminano veloci sollevando la polvere. Accanto a loro sfilano un’infinità di piante d’ulivo, dai tronchi contorti e con folte chiome di aguzze foglie argentate. E dopo gli aranci. E i limoni. L’uomo sbuffa, la sua fronte si imperla di sudore. Il ragazzino cammina in silenzio, lo sguardo a terra. Piante e ancora piante. E, ogni tanto, una discarica abusiva. Mucchi di rottami, di stracci, mattoni e calcinacci. E ratti che al loro passaggio si immobilizzano, ma non scappano. I grossi bestiacci  non hanno paura. Finalmente, padre e figlio raggiungono il loro campo, con il vasto aranceto. Poco più in là, la fiumara. Completamente asciutta.
“Perché non parli? Perché non dici niente?” chiede l’uomo, dopo essersi fermato.
“Come mai non è potuta venire anche Rosetta?” risponde il ragazzino, triste, il capo abbassato.
“Mannaia!” grida il padre. “Rosetta è una femmina! E deve aiutare sua madre. Lo sai che cosa dobbiamo fare domani? Lo hai capito o no?”
“Sì” è la risposta, pronunciata con un filo di voce.
“Ascolta” riprende l’uomo, con un tono più disteso. “Adesso mi siedo un attimo, e tu vai ad aprire l’acqua. Ti ricordi come si fa? Ti ricordi che l’altra volta ti ho insegnato?”
“Sì padre” afferma il bambino. “Me lo ricordo bene. È facile.”
“Vai allora, vai!”
E lui si mette a correre, finché non vede più il genitore. Dopo rallenta, ma il suo passo è sempre spedito. E cammina, in mezzo a enormi distese di alberi. Si vede che le piante soffrono il clima arido; i rami sono protesi, in attesa di un po’ di refrigerio, in attesa dell’agognata acqua. Ci contano. Ci sperano, anche se ben sanno che quel liquido vitale non arriverà loro dal cielo. Bensì dalla terra. A quel punto, i torti e robusti artigli si inzupperanno e assorbiranno con avidità nuova vita.
Finalmente è arrivato. Laggiù, poco lontano, si intravede la presa dell’acqua. Il ragazzo aguzza lo sguardo. C’è qualcosa di strano. All’improvviso, si accorge di non essere solo in quel luogo sperduto. Si ferma, e poi riprende a camminare piano. Adesso vede con chiarezza i due uomini. Si arresta davanti a loro. Il primo è un tipo anziano, ed è seduto su una pietra. Nonostante il caldo, che già comincia a farsi sentire, indossa abiti pesanti. Pantaloni di fustagno, un logoro panciotto grigio e una giacchetta marrone. E la coppola. Sta fumando, e guarda nella sua direzione. L’altro è più giovane. Porta una camicia a quadretti, sbottonata. Il suo volto è duro, e lo sguardo è beffardo. Sotto il naso pronunciato spiccano i baffetti neri ben curati.
“Ragazzino, che vuoi?” domanda il vecchio. Nella sua voce cavernosa si coglie il fastidio.
“Devo aprire l’acqua, per l’aranceto.”
I due si guardano, e il più giovane sorride piegando lievemente un lato della bocca.
“Niente acqua. Non c’è acqua” afferma l’anziano.
Il ragazzo osserva il piccolo canale. E l’acqua che vi scorre. Gli altri notano la sua occhiata.
“L’acqua non c’è. Tu non hai visto niente. Capito?”
“Ma mio padre…”
“E chi è tuo padre?”
“Pettenuzzo, quello…”
“Ah!” e nuovo sguardo di intesa tra i due.
“Ascolta bene, e non farmi perdere la pazienza. Non ne ho molta. L’acqua, come hai visto, non c’è. Il guardiano si è dimenticato di aprirla. Questo dirai a tuo padre, capito?” ribadisce il vecchio in tono tagliente.
“Mio padre non mi crederà…” tenta di ribattere il ragazzino.
L’individuo più giovane allora infila una mano in tasca. Estrae un coltello. Lo fa scattare. E parla, con voce bassa e roca.
“Facciamo così, adesso ti taglio la gola. Poi ti apro e ti svuoto come faccio con gli agnelli. E se tuo padre viene qui, fa la stessa fine. Adesso hai capito?”
Il bambino diventa pallido. Annuisce. Ora ha veramente paura. E allora si volta di scatto e fugge di corsa. Il cuore gli martella nel petto. Ha la nausea, ma non si ferma finché non torna nel posto dove lo attende il padre, che lo vede arrivare e lo guarda stupito. Posa il coltello con il quale stava affettando del pane. Vicino a lui, adagiata su un tovagliolo, è in bella mostra una salsiccia.
“Salvo! Che succede? Hai già fatto tutto?” chiede, ancora meravigliato.
Il figlio è tutto sudato, e stravolto.
“Non c’è acqua. È tutto asciutto. Il guardiano si è dimenticato di aprirla” dice tutto di un fiato il ragazzino, affannato.
“Mannaia! Jacopo! Quello si è di nuovo ubriacato. E pensare che ieri sono andato apposta in paese per avvisarlo. Quel disgraziato! Vado a controllare la bocchetta.”
“No padre, è inutile, non si può fare nulla.”
“Hai ragione, se è come dici, non si può fare nulla.”
L’uomo riflette un attimo, poi prende pane e salsiccia e ne offre al figlio.
“Non ho fame” risponde lui.
“Andiamo allora. Torniamo a casa che c’è tanto da fare. Per domani.”
I due si incamminano sulla strada del ritorno.
“Padre…”
“Che c’è?”
“Vero che non importa se non abbiamo irrigato l’aranceto? Tanto domani partiamo” domanda il ragazzo.
“Salvo! Su di malu pitignu! Che vuol dire che non importa? Noi partiamo, ma tuo zio Vincenzo rimane. E ha bisogno dell’aranceto. Deve dare da mangiare ai tuoi cugini. Mannaia!”
Padre e figlio continuano a camminare, ma il ragazzino non parla più. Si sente umiliato. Prima da quei due crudeli sconosciuti, poi dal suo stesso genitore, che in qualche modo ha invece protetto. Per la prima volta nella sua breve vita ha incontrato il sopruso e l’ingiustizia. Ne ha patito. E ciò non dovrà accadere più, si ripromette. O almeno lo spera.

venerdì 17 maggio 2013

VIDELA & C.




È il 12 settembre 1973. Il giovane Salvo, dopo la lunga camminata, torna a casa. Attraversa il cortile dal fondo dissestato e ingombro di macerie: sacchi di cemento vuoti, travi di legno, tondini di ferro, mucchi di sabbia e ghiaia. Entra nell’abitazione. Sua madre e sua sorella sono in cucina, affaccendate.
“Finalmente!” esclama la donna, che ha le mani imbiancate di farina.
“Me la sono fatta tutta a piedi!”
“Da dove?”
“Con Cataldo siamo andati alla scuola. Abbiamo controllato gli orari e poi siamo passati in cartoleria a ordinare i libri.”
“Ce ne sono molti da comprare?” chiede la madre, allarmata.
“Non preoccuparti, ne ho prenotati soltanto due. Quelli che mancano me li procurerò usati. Sono già d’accordo con un ragazzo di seconda.”
“Guarda che se proprio c’è bisogno…” aggiunge la donna.
“Mamma! Tranquilla! Piuttosto, quando si pranza?” domanda Salvo.
“Quando sarà pronto!” sbotta Rosetta, la sorella.
“Scusa! Dobbiamo aspettare papà?”
“Sì. Un momento… mi sembra che stia arrivando proprio adesso.”
Dall’esterno si sente il rumore scoppiettante di una motoretta. Dopo alcuni istanti fa il suo ingresso in cucina l’imponente figura di Pettenuzzo padre. E subito l’ambiente appare più ristretto. L’uomo indossa ancora gli abiti da lavoro. Sul viso bruno e serio spicca una macchia di grasso, proprio sotto l’occhio destro. Non saluta, si limita a squadrare con sguardo severo moglie e figli.
“Mi do una sciacquata e poi sono pronto” dice con voce tonante. Posa a terra la logora borsa. La moglie annuisce.
Salvo lancia un’occhiata alla sporta.
“Posso prendere il giornale?” domanda, ossequioso.
Il padre esprime parere favorevole alla richiesta con un grugnito stanco. Il figlio apre le cinghie in cuoio della borsa e sfila “l’Unità”. Poi si allontana in direzione dell’ampio ingresso, un corridoio dal pavimento di marmo sul quale si affacciano le varie stanze. Si stende a terra. Come tutti i giorni, sta per iniziare a sfogliare il quotidiano al contrario, partendo dal fondo, dalle notizie sportive. Ma la sua attenzione questa volta è attirata da un titolo in prima pagina, scritto in caratteri cubitali: COLPO DI  STATO IN CILE – ALLENDE DEPOSTO DAI MILITARI SI E’ UCCISO DOPO UNA VANA RESISTENZA. Un brivido freddo, che nasce dal fondo della schiena, gli percorre tutto il corpo. Inizia a leggere, con frenesia. Assediato dai golpisti, (che significato ha questo termine? Si ripromette di cercarlo sul vocabolario subito dopo pranzo) il presidente cileno ha preferito suicidarsi, dopo aver guidato un’eroica opposizione. Si è sparato con un mitra, un AK-47 dono dell’amico Fidel Castro. Da solo, nel suo studio, dopo aver convinto i suoi collaboratori ad arrendersi, per salvare le loro vite. Il palazzo presidenziale, la Moneda, è stato addirittura bombardato dall’aviazione. Si è incendiato.
L’angoscia di Salvo aumenta. Scorre altri articoli sullo stesso argomento. Apprende che quello è solo il tragico epilogo di una situazione di crisi che aveva investito il paese sudamericano da anni, da quando Allende era diventato presidente. Il primo presidente socialista. Socialisti e comunisti sono la stessa cosa? Dovrà farsi forza e domandarlo a suo padre. Lui è comunista, dice. Il ragazzo vuole capire. Ora, subito. Perché finora è stato così cieco?
“Salvo, vieni a tavola!” grida Rosetta dalla cucina.
“Arrivo subito!” risponde il ragazzo, che tuttavia non riesce a staccare gli occhi da quelle pagine che odorano d’inchiostro e che macchiano le dita di nero. Guarda le fotografie. Quella grande, molto sgranata, raffigura il tetto del palazzo presidenziale in fiamme. Sulla destra, racchiusa in un piccolo riquadro, c’è invece l’immagine di Salvador Allende: il suo volto sorridente, la sua espressione bonaria. Salvador. Nota che il Presidente porta il suo stesso nome, e per un attimo è compiaciuto da quella scoperta. Poi si rende conto che quell’uomo dagli occhi buoni è morto. Ed è morto inseguendo sogni di democrazia e libertà. Salvo, invaso adesso da un grande senso di tristezza, volta la pagina. E lo vede. Il suo cuore ha un sussulto. Capisce subito che è lui. Si tratta di un militare, in divisa scura. Indossa occhiali dalle lenti nere e ha dei baffi sottili e ben curati. La sua posa è impettita. Il ragazzo comprende di avere di fronte, effigiata in quella fotografia dai toni grigi, la rappresentazione non solo di tutte le ingiustizie, ma di tutto il male del mondo. E ne è sconvolto.
“Mannaia! Sbrigati che si raffredda tutto!” Suo padre, la voce adirata.
Salvo non riesce neppure a rispondere. In quel momento si sente confuso e smarrito.  Avvicina gli occhi a quella tremenda immagine. Legge la didascalia. Vi compaiono soltanto un nome e un cognome: Augusto Pinochet.

(tratto dal romanzo: "Oltre il ponte" - 2010)


domenica 12 maggio 2013

UN GIUDICE A BERLINO?



“Ci sarà pure un giudice a Berlino…”
No, stavolta non è stato il mugnaio di Potsdam a pronunciare queste parole. È stato Silvio Berlusconi. Un’invocazione tanto accorata quanto falsa proferita in occasione della sentenza di condanna (in Appello) pronunciata nei suoi confronti dal Tribunale di Milano. E non sarà l’ultima, perché la persecuzione della Magistratura continuerà fino alla distruzione politica e personale del Grande Imprenditore, del Grande Statista, del Grande Benefattore. O del Grande Bugiardo e Corruttore. Si sa, è questione di punti di vista.
In ogni caso, la reazione di Berlusconi alla riconferma del verdetto di condanna è stata pacata, contenuta nei toni, proprio ciò che ci si aspettava da chi, negli ultimi tempi, aveva richiamato tutti al senso di responsabilità, aveva auspicato la pacificazione sociale in nome del bene supremo del Paese.
Tale stato di calma naturalmente si è protratto per un paio di giorni soltanto. Poi si è deciso, come sempre, di passare al contrattacco. È stata indetta una manifestazione di piazza, a Brescia, per protestare con forza contro le prepotenze e le vessazioni del potere giudiziario e per ribadire la preponderanza del ruolo del PDL nel neonato governo Letta. Berlusconi ha paragonato il suo caso giudiziario a quello di Enzo Tortora, suscitando sdegno e disgusto, ha invocato le “sue” riforme: quella della giustizia (separazione delle carriere e responsabilità penale dei magistrati), l’elezione diretta del Capo dello Stato, e le altre solite amenità…
In piazza, a Brescia, ci sono state contestazioni, alcuni tafferugli. Molti esponenti del PDL sono stati scortati dai carabinieri nel loro percorso dall’albergo che li ospitava al vicino palco. L’ineffabile Berlusconi e i suoi accoliti non si sono scomposti più di tanti, lo show è comunque proseguito, le grida di risentimento dei contestatori sono state ignorate e gli stessi, da parte di qualcuno, sono stati pure irrisi (la solita gentaglia dei centri sociali, quelli che non hanno voglia di lavorare…)
Alla manifestazione contro uno dei poteri dello Stato (quello giudiziario) hanno preso parte esponenti delle istituzioni: il Vicepresidente del Consiglio dei Ministri nonché ministro dell’Interno Angelino Alfano e un paio di altri ministri del governo Letta. Si tratta di qualcosa di inqualificabile, che avrebbe meritato una diversa reazione da parte di alcuni soggetti politici. Invece abbiamo assistito all’assordante silenzio del Presidente della Repubblica, al tentativo malriuscito di minimizzare il fatto da parte di Enrico Letta, all’evidente imbarazzo (e vergogna?) del Partito Democratico che proprio poche ore prima aveva eletto Guglielmo Epifani quale segretario-reggente.
Ecco, forse si dovrebbe proprio ripartire da questo disagio del PD. E ci si dovrebbe porre una domanda, preceduta da una breve premessa. È vero, l’esito del voto non lasciava alternative se non il quasi immediato nuovo ricorso alle urne, ed altrettanto è vero che il Paese aveva urgente bisogno di un governo. Ma aveva davvero necessità di questo governo? Che si regge sull’accordo (connivente? complice?) con un pluri-indagato, un pluri-imputato, un condannato? E con tutto ciò che ne consegue? Era proprio indispensabile vendere l’anima al Diavolo?

venerdì 10 maggio 2013

LO STRADINO


L’uomo in bicicletta avanza lentamente. Finalmente non piove più, e adesso è arrivato il momento di darsi da fare. Di rimediare ai danni del maltempo. Si tratta di un uomo ormai anziano, dal fisico minuto e in apparenza gracile. In quel corpo però è racchiusa ancora molta forza. E grande volontà. Indossa una mantella di lana nera e pesanti pantaloni grigi. E un berretto. Ai piedi porta dei pesanti scarponi. Avanza tenendo il manubrio con una sola mano. L’altra impugna un badile dal manico molto lungo, che tiene appoggiato sulla spalla. A un tratto, dietro di sé, sente il rumore di un motore. Un’auto si sta avvicinando. La strada è stretta, allora l’uomo si ferma, poggia un piede a terra e si accosta al bordo. Aspetta, paziente. La pazienza è la formidabile risorsa di quell’omino. La macchina sopraggiunge, ma non rallenta. Le sue ruote piombano a gran velocità su un’enorme pozza. L’uomo cerca di sottrarsi ma è comunque investito dagli schizzi di acqua sporca, fangosa. L’auto si allontana rapidamente. Allora, lo stradino cala la bicicletta nel fosso che costeggia la carreggiata. Esamina i pantaloni bagnati. Scuote la testa. Poi afferra il badile a due mani e si dirige con decisione verso la sponda erbosa del piccolo canale. Conficca l’utensile con energia, aiutandosi con il piede, in una grossa zolla. Dapprima la ferisce, quindi incunea l’attrezzo in profondità e la estrae. Fa due passi e poi la getta rivoltata sulla pozzanghera. Riprende fiato per alcuni istanti e quindi ricomincia il lavoro. Appiattisce la zolla con la pala, poi vi sale sopra e batte e schiaccia con i piedi, finché la superficie non appare liscia e compatta. Fa ancora freddo, ma l’anziano cantoniere sta sudando. Si passa la mano callosa sulla fronte, sollevando un po’ il berretto. Osserva con aria critica la sua opera e alla fine decide che è soddisfacente e soprattutto funzionale. Infine, l’uomo recupera la sua bicicletta, rimette in spalla il badile e prosegue lungo la strada.   

POVERA ITALIA! (Le recensioni)



Un saggio graffiante, satira sarcastica, toni velenosi, linguaggio sulle righe, critica feroce in forma di diario quotidiano degli ultimi due anni politici, eppure un'opera di spessore, documentata ed attenta, informata anche se dichiaratamente partigiana, dalla quale trasuda un amore sviscerato per il paese, una tristezza sconfinata per le sue sorti, una rabbia indicibile nel constatare l'inadeguatezza addirittura imbarazzante della sua odierna classe dirigente. Ogni giorno malefatte, gaffe clamorose, dichiarazioni inquietanti, ed atti di governo vergognosi, costituiscono oggetto di lucida analisi e considerazioni drammatiche sul futuro di quello che una volta era uno dei paesi più importanti del mondo, una democrazia presa a calci ogni giorno con atti sconsiderati ed assai discutibili, da politici ridanciani, figure quasi caricaturali, diventate note per ignavia e cialtroneria, in ogni angolo del mondo, diventato ormai villaggio globale. Un libro rendiconto e piuttosto amaro, sulla difficile empasse in cui è stato cacciato il nostro paese, dopo anni di pressappochismo, populismo sciatto, cesarismo demenziale e relative tragiche conseguenze, con la caduta di ogni credibilità a qualsiasi livello sulla scena internazionale ci fa dire... povera... Italia, speriamo sia solo un raffreddore!! (Giovanni Lossi)


Appassionata testimonianza di un’Italia che vorrebbe essere diversa e tuttavia non riesce a darsi forma politica. Con il difetto storico del particolarismo e tradizionalmente poco incline all’autocoscienza. Un’Italia, verrebbe da dire scorrendo le pagine di questo libro lucide e impietose, senza speranza. E’ l’eterno Seicento del Manzoni. E piaccia o non piaccia lo spettacolo è così desolante che forse ci restano aperte soltanto, oggi come allora, le vie segrete della Provvidenza. (Antonio Bianchessi)


Uno scritto che è anche manifesto, grido e appello disperato per un’Italia che sembra non approdare mai al lido sicuro di una serena e laboriosa disposizione al meglio, quale si vorrebbe. Oggi, se possibile, l’Italia è messa ancor peggio rispetto ai tempi in cui lo scritto di Enzo Sopegno è stato steso. Uno scritto tuttavia che merita una lode particolare per l’appassionata testimonianza dell’autore. Da riassumere in futuro, quando questa tremenda fase politica avrà trovato finalmente un suo punto fermo, sempre che non sia il punto fermo del disastro totale. Non ce lo auguriamo. Questa nostra POVERA ITALIA merita davvero altro. (Gian Primo Brugnoli)


Un libro che deve essere letto anche se il cuore fatica. Anche se viene, vigliaccamente, voglia di chiudere gli occhi e la mente. Davvero povera patria nostra! E invece gli occhi occorre tenerli ben aperti su queste pagine di Enzo Sopegno il quale con una lucidità spietata nonché con la solita maestria, descrive alcuni degli anni più tragici della nostra storia dal dopoguerra ad oggi! Un libro splendido che deve dare, invece, coraggio e spingerci a non dimenticare. (Franco Piantanida)


Ancora una volta l’autore ci regala una delle sue amare e lucide riflessioni, e stavolta non in forma di romanzo o racconto, ma di cronaca e analisi ragionata dell'attualità politica e sociale italiana. E gli strumenti di indagine sono gli stessi: lo stesso sguardo disilluso e un po’ cinico, la stessa capacità di raccontare estraniandosi come da un punto di osservazione lontanissimo e al tempo stesso perfettamente a fuoco, le stesse drammatiche sintesi che fanno delle sue affabulanti pagine una esperienza di lettura illuminante e preziosa.
(Carlo Crescitelli)

domenica 5 maggio 2013

L'EROE



Spari in piazza, proprio di fronte a Palazzo Chigi, mentre il nuovo governo si appresta a giurare poco distante, al Quirinale. Immediato sdegno e pronta condanna da parte di tutta l’opinione pubblica per il folle gesto. Enorme dispiacere e sincera solidarietà nei confronti dei due militari colpiti, umili lavoratori, fedeli servitori dello Stato. Con la politica in prima linea nell’esprimere tali sentimenti, nell’assecondare l’indignazione dei cittadini, e nel cercare di esorcizzare la propria pura. Quegli stessi cittadini, o almeno una gran parte di loro, che quando si trovano tra i banchi del mercato oppure al bar manifestano un ben diverso stato d’animo.
“Bisognerebbe buttare una bomba su Montecitorio!” strilla l’operaio.
“Dovremmo linciarli tutti!” schiamazza il pensionato.
“Sono dei ladri, pensano soltanto alle loro tasche!” grida il disoccupato.
“Datemi un fucile che vado a farli fuori!” minaccia lo studente.
“Sono tutti uguali, dei veri infami!” urla la casalinga.
Chi strepita queste invettive naturalmente non da mai seguito agli insani propositi. La sera torna a casa, cucina o mangia, poi lava i piatti e stira o si sdraia sul divano, davanti all’ipnotico schermo, e subito si addormenta, perché la stanchezza è tanta, la vita di tutti i giorni faticosa. Qualcuno di loro sogna, e in sogno, a volte, ci si può anche trasformare in un eroe. 

Avrei preferito che ci fosse il sole e più confusione, più rumore. E invece il cielo è grigio e nuvoloso. Quando c’è il sole tutto appare più nitido, più netto. Ci sono le ombre, e ci si sente meno soli. Tutto quanto ci circonda è più limpido e chiaro: la strada, le automobili, gli alberi e i palazzi. All’opposto, quando tutto è avvolto da questa cappa calda e umida, anche lo sguardo si appanna e si sdoppia. Sì, fa caldo, molto caldo. Eppure mi stringo nel mio giubbotto nero, le mani in tasca, e ho l’impressione che il mio corpo sia percorso da brividi. Un tremore provocato dall’ansia e dall’agitazione che tentano di impadronirsi di me e che mi sforzo di combattere. Mi siedo su una panchina, chiudo gli occhi e provo a rilassarmi. Poco per volta ci riesco e ritrovo la necessaria compostezza. Intorno a me non c’è nessuno.
Perché il silenzio poco ha da spartire con quello che devo fare. Non lo posso negare, avrei voluto essere immerso nel disordine piuttosto che essere avvolto dalla quiete. Intendiamoci, io amo il silenzio. Non mi ha mai fatto paura. Per me è segno inequivocabile di pace e serenità. Ho trascorso la vita a inseguire la tranquillità. Oggi, tuttavia, questa atmosfera calma, priva di rumori, senza alcun disturbo, mi sembra stonata, per nulla in sintonia rispetto a quanto mi accingo a compiere. Per una volta, una volta soltanto, mi sarebbe piaciuto fondermi nel frastuono per evitare di pensare troppo e scongiurare così ripensamenti che comunque non ci saranno. Ne sono sicuro.
Da qualche parte suona una campana, il mio momento si avvicina. La chiesa si trova alle spalle della piazzetta in cui mi trovo. Si tratta di un bell’edificio, che ho visitato a più riprese. Ne ho percorso il sagrato, ne ho ammirato le eleganti navate. Ho osservato con attenzione i preziosi affreschi. Intendevo fissare bene nella memoria ciò che lui ha visto tante volte; tutti quelle peculiarità alle quali, probabilmente, non presta più attenzione da tempo. La chiesa, quella sua chiesa che oggi sarà mia complice. Con il richiamo di quella campana al quale è impossibile resistere. Una voce sorda e ammaliante, per me il segnale che l’istante decisivo è davvero arrivato. Mi alzo in piedi, indosso gli occhiali scuri. Le mani sempre affondate nelle tasche. La destra si contrae, si avvolge e si modella attorno a un freddo strumento di morte.
Tra due minuti si aprirà il portone e avrò la mia occasione. Le occasioni non capitano a caso, bisogna crearle. E io l’ho fatto, con pazienza e grande perseveranza. Non ho trascurato nulla. Ho studiato, ho condotto lunghi e tediosi appostamenti, ho memorizzato ogni minimo particolare. Adesso sono pronto. Nulla, nella mia azione, è improvvisato. Non sono uno squilibrato, non sono un disperato come chi, l’altro giorno, ha sparato ai quei due poveri carabinieri. Non sono mai stato così lucido e determinato. Sono consapevole che questa opportunità sia irripetibile. Insomma, non posso fallire e non fallirò. Mi avvicino con noncuranza al portone, che oggi, come tutte le domeniche, non è sorvegliato. Niente scorta in attesa, nessuna auto blindata con il motore acceso.
E tu di certo non sospetti niente, sarai tranquillo e strafottente. E arrogante, come sempre. Non è mai stata mia intenzione compiere una strage, colpire persone innocenti. No, io ho individuato quello che ritengo essere uno dei colpevoli, il principale, e mi accanirò soltanto su di lui. Perché odio il suo sorriso falso, la sua superbia e la sua prepotenza. La sua proverbiale sfrontatezza. Le sue promesse vane. Applicherò la mia personale giustizia, senza alcuna esitazione. Lo so che la giustizia possiede molte facce, e finora ho sempre accettato quel suo elemento preponderante, quell’equità ammantata di diritti che non è mai vendetta. Ora non più. La mia sarà una punizione immediata, sarà rappresaglia senza appello. Sapere che lui non sospetta nulla è la principale delle mie soddisfazioni, è ciò che più alimenta il mio compiacimento.
Tu non puoi certo immaginare che è l’ora di pagare. Ho dovuto scegliere freddamente il mio bersaglio, e l’ho fatto. Perché proprio lui e non un altro? Non lo so, non mi sono mai posto questa domanda, non posso certo farlo adesso, quando è giunto il momento di agire, non più di pensare. In ogni caso, sarà la stessa domanda che si porrà lui, se avrà il tempo di farlo. Il suo sguardo attonito e sorpreso rappresenterà per me qualcosa di impagabile. Chissà se si renderà conto che la sua ora è venuta. Per me non sarà più tempo di ulteriori riflessioni, dovrò limitarmi a eseguire la sentenza.  
Ti aspetto qua perché te l’ho giurato, tu sei lo sporco che va lavato (le lacrime si sono fatte mare, ti toccherà annegare).
Ormai, per me, lui non è altro che un grumo di fango. Rappresenta tutta la lordura del mondo. Non mi importa se sotto quella melma rappresa e indurita c’è un fragile corpo di carne e sangue. Trafiggerò quell’involucro freddo e lurido come ho deciso di fare, e ne spargerò i miseri resti sul selciato rovente. Quando lui non sarà altro che un povero essere inanimato, ed io lontano, forse ritroverà parte della sua umanità perduta. O forse no, perché la morte, nella sua pietà, annulla ciò che è stato ma non può riparare i torti compiuti, le nefandezze portate con sfregio a chi è più debole, a chi vive di speranza.
E voi, nascosti dietro alle finestre, farò io quello che voi vorreste. Vi mostrerò che cosa si può fare invece di strisciare.
Non vi vedo, anche se so che voi scorgete me. Nelle vostre case infuocate, qui sulla piazzetta e ovunque, scostate le tendine di pizzo e incollate il naso al vetro. Sgranate gli occhi. So che vorreste incitarmi, dirmi che state dalla mia parte, ma non avete il coraggio di farlo. Avete compreso bene ciò che mi accingo a compiere, lo approvate, anche se non osate esprimerlo a voce alta. Avete paura, avete paura persino di voi stessi. Vi capisco. È difficile sollevare il capo quando per tanto tempo si è stati schiacciati. O servili per convenienza. Avrete la vostra piccola rivincita. Esulterete, anche se non lo ammetterete mai. Non so se quanto farò potrà servire per far sì che non vi nascondiate più. In fondo non mi importa.
Così domani sui giornali leggerete che un bandito ha preso a calci l’ordine costituito. E parleranno i corvi, i topi e gli sciacalli e voi lì… ad ascoltarli. La vostra contentezza sarà di breve durata. Non avrete né il tempo né il modo di manifestarla. L’informazione al servizio del potere tapperà subito le vostre pavide bocche. Vi unirete ai cori di esecrazione e di ripugnanza per quanto è stato compiuto. Approverete tutto e l’attimo di intima ribellione che avete provato rimarrà soltanto uno sbiadito ricordo che tenterete di non fare affiorare mai più. Non ci sarà alcuna benevolenza nei confronti del delinquente, del pazzo che ha avuto la presunzione di farsi giustizia da sé, che non ha osservato le regole proprio perché la sua mente di sicuro è alterata. Scuoterete il capo, sconsolati per tale livello di violenza. Apparirete sinceramente increduli e sconcertati. Condannerete.
Poi ritorno al presente e ti riesco a sentire. Ci siamo, lo so che stai per uscire. Respiro profondo, mi metto tranquillo, si apre il portone… do inizio al ballo! È incredibile quanto possano essere infiniti pochi minuti. Il ritorno alla realtà è, al contrario, immediato. Soltanto il portone di legno e vetro mi separa da lui. Lo sento armeggiare con le chiavi. Poi, gli scatti secchi della serratura. Indietreggio di un passo, butto fuori tutta l’aria dai polmoni, poi inspiro. Assaporo una fragranza di fiori estivi. La porta finalmente si schiude completamente, vedo ben chiara la sua figura. Tolgo la mano dalla tasca e prendo la mira.
E che nessuno si permetta di chiamarmi eroe. L’ho fatto per motivi solamente miei. Sono troppo diverso dai vostri eroi. L’ho fatto per me, non per voi. E non si tratta di coraggio e neanche di paura, il fatto è che qui si è passata la misura. Son troppo diverso dai vostri eroi, l’ho fatto per me, non per voi. L’ho fatto perché non l’avreste fatto voi.

“Ehi! Svegliati! Ti sei addormentato sul divano! Che facevi? Stavi sognando?” dice la donna.
L’uomo si riscuote dal torpore. Si guarda il braccio destro, ancora  rigido, proteso, ma nella mano non stringe nessuna pistola. Abbassa gli occhi, imbarazzato. Sua moglie si allontana brontolando, lui si infila le pantofole e si dirige verso la stanza da bagno.

(*) I versi in corsivo sono tratti dalla canzone “L’eroe” dei Mercanti di Liquore, alla quale il racconto è liberamente ispirato.

sabato 4 maggio 2013

PICCOLA STORIA IGNOBILE



ANTEFATTO
Le elezioni politiche del 24-25 febbraio 2013 non producono un risultato limpido. Alla Camera il Partito Democratico ottiene la maggioranza (grazie al premio) mentre al Senato nessuna forza politica ha numeri sufficienti per prevalere sulle altre. Inizia così per Pierluigi Bersani un cammino in salita. L’inizio delle sue pene. Il segretario del PD propone una alleanza al Movimento Cinque Stelle per formare il governo. La risposta è picche. Due sono gli errori di strategia di Bersani: il limitarsi a domandare semplicemente il sostegno senza che sia concordato un vero programma comune e l’insistere troppo sul suo nome per la guida dell’esecutivo. Proposte di collaborazione formulate in maniera differente avrebbero quasi di sicuro condotto al medesimo esito, tuttavia manca la controprova. Il risultato, in ogni caso, è quello di uno stallo totale. Tutto ciò avviene intanto che Berlusconi continua a invocare il governissimo, vale a dire l’intesa contro natura tra PDL e PD. Il presidente Napolitano, non in grado di dipanare l’intricata matassa, prende tempo, costituisce le commissioni dei Saggi e rimanda il tutto al suo successore, che sta per essere eletto.

FATTO
Ci si appresta a eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Il PD, in nome della più ampia condivisione possibile, come indicato dalla Costituzione, e dopo molte esitazioni, lancia il nome di Franco Marini. L’ex sindacalista viene impallinato di brutto nel corso della prima votazione proprio da chi l’ha proposto. Confusione. Caos. Che fare? Riproporre Marini fino alla quarta votazione, quando i voti necessari sono molti meno? Sembrerebbe una soluzione logica, ma non è perseguita. La candidatura Marini viene ritirata e, alla quarta votazione, viene presentato Romano Prodi, scelta di parte ma prestigiosa. Insomma, una virata netta, decisa. Berlusconi e i suoi sono inviperiti. Il PD non ha rispettato i patti! Preoccupazioni e timori che si rivelano del tutto inutili, dal momento che pure l’autorevole candidatura di Prodi viene brutalmente stroncata da ben 101 franchi tiratori del centro-sinistra. Prodi, indignato, rinuncia. A questo punto l’enorme pasticcio è completato. Il PD è in agonia. Pierluigi Bersani si dimette. Quasi tutti i partiti implorano Napolitano di acconsentire alla sua rielezione. Il vecchio presidente accetta ma, quale condizione imprescindibile, pena le dimissioni, impone il famigerato governissimo. In più, nel suo discorso di insediamento, sferza tutte le forze politiche, ne evidenzia mancanze, errori e incapacità. I parlamentari applaudono le parole del presidente con grande convinzione (sic!).

MISFATTO
Nasce il governo Letta, sostenuto da PDL, PD e Scelta Civica. L’esecutivo delle (quasi) larghe intese. Il suo programma è ambizioso, ma è fondato più sulle parole che sui numeri. Gli elettori berlusconiani accettano passivamente (perché così ha ordinato il Capo), quelli del PD hanno la bava alla bocca. Mai più al governo con Berlusconi, era stato detto dai dirigenti del loro partito fino a pochi giorni prima. Appunto. Un governo che comunque non potrà durare a lungo, e che non riuscirà a risolvere nessun problema. Si limiterà a tappare qualche buco, a operare qualche rattoppo. Un governo democristiano, del quale non c’era nessuna necessità. Il Paese aveva invece bisogno di ben altro. Di andare verso un vero cambiamento.Peccato che gli elettori, al momento del voto, non l’abbiano compreso. Comunque chiedo scusa per quest’ultima affermazione, perché gli elettori hanno sempre ragione, no?

mercoledì 1 maggio 2013

PRIMO MAGGIO



Primo Maggio di volti tutti uguali
Medesimi  baffi e facce smorte
Mentre bombardano insistenti
Le Sorelle della Misericordia
Primo Maggio di urla furiose
Rabbiosi suoni di gola
Mentre bombardano tenaci
Sul Tempio dell’Amore
Primo maggio di dolore
Male profondo come l’abisso
Mentre bombardano ostinati
E invocano Maria
Primo Maggio di corpi rassegnati
Arresi al sacrificio
Mentre bombardano indefessi
Sempre di Più
Primo Maggio di triste festa
Solenne tragico giorno
Mentre bombardano instancabili
La Mia Riflessione
Primo Maggio di beffa
Scherno che genera violenza
Mentre bombardano caparbi
Prima e Dopo e Sempre
Primo Maggio di nulla
Niente circonda le figure
Mentre bombardano vigorosi
Il Dominio di Madre Russia
Primo Maggio di disgusto
Repulsione per ciò che è stato
Mentre bombardano risoluti
Le Sorelle della Compassione