Powered By Blogger

domenica 28 aprile 2013

GATTOPARDI



Com’era facilmente prevedibile è nato il governo Letta. O meglio, l’esecutivo Letta-Alfano. Anzi, per dirla tutta ha preso avvio il quinto governo Berlusconi. Insomma, tutto è avvenuto all’insegna dell’inciucio. Che brutta parola, questa! Usata ed abusata negli ultimi tempi. Eppure, nella sua povertà estetica, tale termine indica con chiarezza un pasticcio, un imbroglio, un vero e proprio inganno. Sì, perché si tratta di un vero e proprio raggiro perpetrato nei confronti degli elettori. Sia verso gli elettori del Centro-destra, i quali hanno però dimostrato in passato di essere in grado di digerire qualsiasi cosa - l’importante è che il dettato provenga direttamente dal Capo – ma, soprattutto, nei confronti di chi ha votato per il Centrosinistra. È proprio in questo ultimo ambito che la situazione si presenta come assai delicata. Il Partito Democratico, con le sue sciagurate scelte, prima in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, e dopo con l’accordo sul nuovo esecutivo, rischia di pagare un prezzo molto alto. Esiste un concreto pericolo di spaccatura del partito, di scissione dello stesso in più tronconi, anche se i conti saranno regolati per davvero al momento del prossimo e ormai imminente congresso. Il passaggio parlamentare per la concessione della fiducia al governo Letta non costituirà più di tanto terreno di scontro. Al di là della manifestazione di qualche dissenso e di qualche mugugno (Civati in primis) la maggior parte dei coltelli rimarranno nel fodero, in attesa di essere estratti e impugnati al momento opportuno.
Quale giudizio può essere espresso sul nuovo governo? Innanzitutto, la composizione. Tralasciando il fatto che la consistenza numerica appare eccessiva (quando saranno nominati vice-ministri e sottosegretari si arriverà a quasi cento persone) in tempi nei quali sarebbe opportuno dimostrare maggiore sobrietà e snellezza, occorre dire che alcuni nomi sono di sicuro prestigio (Bonino, Saccomanni, Carrozza), altri rappresentano una novità assoluta (Idem, Kyenge), altri ancora non sono altro che la lunga mano di Berlusconi sul governo (Alfano, Lupi, Quagliariello), altri imposti sempre da lui al di là delle loro capacità e competenze (che c’entrano Lorenzin e Di Girolamo con Salute e Politiche Agricole?) mentre invece la compagine del Partito Democratico appare di basso profilo e comunque formata da elementi che possono essere definiti più che altro post-democristiani.
Il vero problema tuttavia non è tanto la composizione del governo, che potenzialmente potrebbe anche fare bene, quanto la maggioranza che lo sostiene. Quella dell’inciucio, appunto. Un qualcosa di improponibile, di impresentabile, contro natura. Una formula che suscita molta amarezza, che intristisce, che annienta tutte le speranze e tutte le illusioni. Che seppellisce in maniera definitiva il sogno del vero cambiamento. Già, il cambiamento. Un’autentica utopia, nel Paese dei Gattopardi.

venerdì 26 aprile 2013

ALLETTAMENTO



Enrico Letta è impegnato in queste ore nel tentativo di formare il nuovo governo. Sappiamo tutti come si è arrivati al suo incarico. In maniera quasi drammatica. Prima c’era stata l’incredibile, per certi versi, rielezione di Giorgio Napolitano. Il vecchio/nuovo presidente ha accettato il reincarico ponendo precise condizioni. Prima fra tutte la costituzione, ad ogni costo, di un esecutivo di larghe intese. L’unica opzione possibile, e su questo non si può che essere d’accordo. Il governo, alla fine, nascerà. Non sarà di larghe intese, naturalmente, poiché alcune forze politiche si sono già sfilate durante le consultazioni: Sinistra, Ecologia e Libertà (mai con Berlusconi, sarebbe come governare con i fascisti…), la Lega (daremo il nostro apporto pur stando all’opposizione…), il Movimento Cinque Stelle (con questi non ci mescoleremo mai ma non faremo mancare i nostri sì nel caso di provvedimenti che riterremo condivisibili…).
A questo punto per il presidente incaricato la strada potrebbe apparire in salita, invece non è così. Tutto dipenderà dall’atteggiamento del PDL. Il partito di Berlusconi all’inizio delle trattative ha dato l’impressione di voler alzare la posta (abolizione e restituzione dell’IMU irrinunciabili, presenza di ministri politici di alto profilo per tutti i partiti coinvolti e altre assurde pretese) ma in realtà si è trattato di una abile sceneggiata. Berlusconi non ha alcun intenzione di lasciarsi sfuggire questa ghiotta occasione: essere al governo dopo aver perso malamente le elezioni, dopo aver fatto cadere il governo Monti, dopo aver quasi distrutto il Paese.
La verità è che Berlusconi questa volta l’ha scampata per un pelo. Sarebbe stata sufficiente una piccola spinta e la sua lunga parentesi politica si sarebbe chiusa per sempre. Toccava al PD provvedere a questo minimo pungolo, e bastava davvero poco. Sappiamo tutti com’è andata a finire. Invece di disarmare per sempre Berlusconi il Partito Democratico è riuscito nell’impresa (tutt’altro che facile!) di distruggere se stesso nel volgere di pochi concitati giorni. Se continuerà ad esistere dovrà comunque scontare la tremenda pena di governare con il Diavolo, e di sicuro perderà una grande fetta del suo elettorato, che mai come in questa occasione si è sentito tradito.
Il governo dunque nascerà, perché è Berlusconi che lo vuole, mentre il PD non potrà che subire in modo passivo, mettendoci oltretutto la faccia. Il padrone del PDL sa benissimo che, in caso contrario, il presidente Napolitano attuerebbe senza esitazione ciò che ha lasciato intendere, vale a dire niente scioglimento delle Camere ma dimissioni immediate. Un tremendo schiaffo a tutti. Un additare di fronte al Paese, una volta di più, le tremende responsabilità dell’intera classe politica. A quel punto sarebbe la piazza stessa a eleggere il successivo Capo dello Stato: Rodotà. Uno scenario che Berlusconi non si può permettere, che lo terrorizza, che riempie di incubi il suo sonno.
E allora via libera in tempi brevi al governo Letta.
Povero Enrico.


giovedì 25 aprile 2013

BACIATO DAL SOLE



Baciato dal sole sulla pelle sgretolata
Avvolto da un fumo denso e irritante
Osservando i tetti foschi di fuliggine
Si intrecciano pensieri senza direzione
Ore che trascorrono insignificanti e vuote
Riempite di immagini che turbano la mente
Dipingendo scenari che appaiono irreali
In spasmodica attesa del prossimo incontro
Il fragile corpo spezzato in mille frammenti
Schegge impazzite che collidono silenziose
Muta angoscia che dilata il petto
Ancora un giorno ancora una notte
Ambiente buio e aria pesante
Odore dolciastro che inebria e ottunde
Spazio ristretto luogo d’incanto
E ricomincia la lunga e trepida attesa
Il tempo che trascorre sempre più lento
Nuovi e cupi pensieri ma stessa matrice
Dilatazione infinita di un tragico dilemma
Con la gioia che non offusca il dramma

LA LISTA



Guardo la donna che mi siede di fronte e quasi non la riconosco. È invecchiata. Ha profonde occhiaie, la pelle del suo viso è secca, i suoi capelli, un tempo vaporosi, si mostrano sfibrati e privi di vita. Questa donna sta soffrendo, eppure non si vuole arrendere. La sua potrebbe apparire come una inutile ostinazione, una balorda caparbietà, ma io so che non è così. Lei davvero ci crede, ne è profondamente convinta. Allo stesso tempo si rende conto di essere ormai impotente, è del tutto consapevole che la sola forza mentale non è più sufficiente per perseguire il suo fine. Uno scopo che, d’altra parte, abbiamo sempre condiviso. Ho deciso di aiutarla. Prenderò il suo posto. La sostituirò, finché ciò sarà possibile, in quel prezioso compito che finora ha sempre svolto lei, con impegno e passione. Credo di possedere l’energia fisica per poterlo fare, quella vigoria che lei ha esaurito. Penso di avere la necessaria determinazione. Almeno, lo spero. In ogni caso, so che lo devo fare, non mi posso sottrarre da tale dovere.
“Andrò io” dico.
Lei scuote il capo.
“Ho deciso” insisto.
“È inutile, ci dobbiamo rassegnare. Dovremo fare come quasi tutti gli altri” risponde con voce piatta, quella di una persona sconfitta. Sventurata donna, ha perso del tutto la sua vitalità, quella dote preziosa che ho sempre tanto ammirato, la qualità che tanti anni fa mi ha fatto innamorare di lei.
Poi finalmente annuisce. È in una condizione di tale fragilità psicologica che mi risulta agevole imporre le mie decisioni, mentre prima non lo era mai stato. La sua volontà è sempre stata superiore alla mia, non ho mai conosciuto altra persona volitiva quanto lei. Adesso però è fiaccata, cedevole. Ne devo approfittare per imporre il mio proposito. Devo farlo per il suo bene.
“Stai tranquilla, posso farcela” ribadisco ostentando una sicurezza che non ho.
“Aspetta la notte” dice.
“No. Sai bene che è più facile avvicinarsi, ma poi?”
“Aspetterai che apra. Io l’ho fatto alcune volte ed è sempre andata bene.”
“Le cose sono cambiate, non è più possibile agire in quel modo. Non ci sono più nascondigli, è troppo rischioso. Preferisco puntare sulla sorpresa, sulla rapidità.”
“E il ritorno? Hai pensato al ritorno?” mi domanda, piena di apprensione.
Mi stringo nelle spalle. So bene che quella è la fase più delicata. In realtà non ho formulato un piano preciso. Potrò confidare soltanto sulla fortuna. Sono costretto a mentire.
“Non c’è problema” dico. “Ho pensato a tutto. C’è chi mi può aiutare e ti assicuro che non correrò alcun rischio inutile.”
Al pensiero di cosa sto per fare, la tensione mi assale all’improvviso. Sudo. Il battito del mio cuore accelera e la bocca diventa asciutta. Mi alzo e bevo un bicchiere d’acqua. Non sono mai stato un individuo molto coraggioso. Nel corso della mia esistenza ho di continuo evitato di espormi, di prendere parte a eventi che non avrei saputo fronteggiare, di essere coinvolto in situazioni che avrebbero richiesto estrema risolutezza e sveltezza di mente. So di non essere adatto per simili imprese, tuttavia è giunto il tempo di lasciare da parte tutte queste incertezze, tutti i dubbi che mi assillano. Lo devo fare per lei, a costo di sacrificare la mia vita.
“Cos’hai lì?” dice lei, indicando un rigonfiamento nella mia giacca.
Estraggo la lucente pistola e la soppeso sul palmo della mano.
“Dove l’hai presa?”
“Me la sono procurata attraverso un collega di lavoro” rispondo con finta noncuranza.
“È proprio necessario?” chiede lei con voce stanca. “Io sono sempre andata senza armi”.
“Lo so, ma ormai tutto è diverso. Comunque si tratta soltanto di una precauzione in più, non ho alcuna intenzione di usarla.”
“Nel caso lo faresti?”
“Eh? Può darsi.”
Lei annuisce senza aggiungere altro.
Strano. Avevo preferito non dire nulla dell’arma perché temevo da parte sua una reazione contraria e ostile. Invece nulla. A questo punto tanto vale essere sincero fino in fondo. Appoggio un piede sullo spigolo del tavolo. Dallo stivaletto estraggo un coltello affilatissimo, adatto per il combattimento corpo a corpo, lo mostro e lo ruoto, facendo riflettere sulla lama le luci del lampadario. Inutile dire che non lo saprei usare.
“Per ogni evenienza” dico, in tono tutt’altro che determinato.
A lei scappa un mezzo sorriso, che subito si spegne.
“La signora Orlandi non aveva con sé nessuna arma. In ogni caso non le sarebbero servite” dice, con amarezza. “A lei come ad altri, ormai.”
“È stata colpita mentre stava uscendo, vero?”
“Sì.”
“E non si sa chi sia stato…”
Lei si alza di scatto. Quasi ribalta il tavolo.
“Che dici?” grida. “Non si sa? Non si sa? Sono stati quei bastardi! Quelli del Centro Commerciale! Hanno riempito i tetti di cecchini! Per questo non voglio che tu vada! Ti uccideranno!” Si siede e inizia a singhiozzare.
“Calmati, per favore. Non c’è nulla di certo, lo sai. D’accordo, quelli del Centro stanno conducendo una lotta senza esclusione di colpi ai… agli altri, ci sono state intimidazioni e aggressioni e tre persone purtroppo ci hanno rimesso la vita in circostanze oscure, tuttavia non esistono prove certe riguardo un loro diretto coinvolgimento.”
Lei mi guarda. Il suo volto è irriconoscibile, simile a una maschera tragica.
“Smettila! Non negare la realtà!” mi urla in faccia, sputando saliva.
Mi abbandono sulla sedia.
“Hai ragione, è come dici tu. Intendevo soltanto tranquillizzarti.”
Lei riprende a piangere.
“Ascolta, non mi succederà nulla. E poi lo rifarò. Non ci dobbiamo sottomettere a questo stato di cose, dobbiamo reagire. Finora lo hai fatto tu, da adesso in poi tocca a me.”
“Scusami, sono molto provata” sussurra lei tra i singulti.
Le accarezzo una mano, poi una per una le dita rinsecchite. Noto le unghie mangiucchiate e distolgo lo sguardo, preso da compassione.
“Su, dammela” dico.
Lei solleva il capo. Il volto è rigato dalle lacrime, i capelli sono sempre più scompigliati, senza forma.
“Non andare, ti prego.”
“È inutile stare a discutere, tanto lo sai che ho deciso. Ci andrò. Dammela, lo so che l’avevi preparata, come hai sempre fatto.”
Lei fa cenno di sì. Infila una mano al seno ed estrae un pezzo di carta sgualcito, me lo porge lentamente, sospira. Lo prendo e lo scorro, riconosco la sua minuta calligrafia. Leggo ogni voce con attenzione. Impossibile memorizzare tutto, allora lo infilo nel taschino della camicia mimetica.
“È tutto chiaro?” domanda lei, che sembra essersi un po’ ripresa.
Sorrido, per rassicurarla.
“Sì, tranne una cosa. Hai scritto prosciutto crudo, ma quale?”
Ora sorride pure lei.
“Il signor Romualdo sa bene quale tipo di prosciutto prendo di solito. Lascia fare a lui. Me lo saluti? Sai, è sempre così gentile…”

domenica 21 aprile 2013

IL BIVIO



La casa sorge su un’ampia radura, circondata da un bosco di betulle, e sembra disabitata. I muri sono sbiaditi e l’intonaco è in parte scrostato. Ho lasciato l’auto poco distante, lungo il viottolo dissestato, e mi avvicino a piedi. Scosto il cancello arrugginito ed entro nel cortile.
Lui è nell’orto. Mi scorge e si rialza, con una mano solleva il berretto sulla fronte, si terge il sudore.
“Hai visto quanto sono belle le zucche quest’anno?” dice.
Annuisco.
“È per via del tempo. Non ha quasi mai piovuto.”
Poi infilza la vanga nel terreno asciutto, si pulisce le grosse mani nodose sugli spessi pantaloni di fustagno e mi viene incontro.
“È da tanto tempo che non ti fai vedere” dice.
“Lo so.”
Lui scuote il capo, si volta e si dirige verso l’abitazione. Lo seguo, in silenzio.
Entriamo nel tinello. La stanza è fresca e buia, arredata con i vecchi e poveri mobili che ben ricordo. Sempre senza parlare mi invita a sedere al tavolo. Poi prende una bottiglia di vino e due grossi bicchieri e versa da bere. Quindi anche lui si accomoda.
“Ti devo parlare” dico, un po’ in impaccio. Poi bevo un sorso di quel vino denso e forte.
“Pure l’ultima volta mi dovevi parlare. Vieni da me soltanto quando ne hai bisogno” dice, ma nella sua voce non c’è il minimo rimprovero.
“Hai ragione, quando tutto va bene non penso mai a te” rispondo.
“In fondo è ciò che desidero. Essere dimenticato.”
“Sono in imbarazzo” dico.
“Su, bevi e non fare tante storie. E parla”.
Faccio come dice, poi mi schiarisco la voce. Sono molto in ansia.
“Mi trovo di fronte a un bivio” dico infine, con un filo di voce.
Lui ride, poi cala una manata sul tavolo. L’improvviso rimbombo mi scuote.
“Lo trovi davvero così divertente?” domando.
“Un bivio? Perché non un trivio?” risponde, sempre ridendo.
“Che cos’è un trivio?”
“Lascia stare. Le mie battute rallegrano soltanto me. Che cosa ti devo dire, ragazzo?”
“Faccio appello alla tua esperienza. Anche a te è capitato qualcosa di simile, tanti anni fa, e hai saputo scegliere.”
“Che dici? Io avrei scelto? No, ti sbagli. Non ho saputo prendere alcuna decisione.” Nella voce del vecchio c’è scoramento, quasi disperazione. Il suo volto è ora serio, le sue tante rughe appaiono più marcate.
“Anche il non decidere rappresenta una scelta” lo incalzo, e cerco di approfittare del suo momento di debolezza.
“Stronzate, sono tutte stronzate!” si infiamma il vecchio. “La verità è che ho avuto paura.”
“Tu? Paura? Di che cosa?”
“Ti stupisci? Invece ho avuto paura della sofferenza.”
“Ho capito. Hai temuto che operare una scelta ti potesse procurare dolore.”
Lui sospira. Scuote il capo con energia.
“Mi dispiace ma non hai capito nulla. Della pena che avrei procurato a me stesso non mi sarebbe importato nulla. Il patimento che ci infliggiamo in seguito alle nostre balorde decisioni può essere governato e con il trascorrere del tempo si finisce con il rielaborare il tormento. È possibile, pur con molta fatica, riuscire a ritrovare un po’ di serenità. Si rimuove, almeno in parte, ciò che ci ha causato strazio e angoscia anche se non si riesce mai a dimenticare. Ricordati, una cattiva scelta ti affliggerà per sempre ma tu non potrai mai rinnegarla del tutto, perché così facendo rinnegheresti te stesso.”
Il vecchio tace e beve un sorso di vino. Poi si accende un sigaro.
“E allora?” chiedo, incitandolo a proseguire.
“Ho procurato sofferenza a due persone. Ciò per me è imperdonabile, non posso fare a meno di pensarci praticamente ogni giorno. Questa è la mia condanna, che mi porterò dietro fino alla tomba.”
“Per tale ragione hai deciso di vivere da solo, isolato da tutto e da tutti?”
“Vissuto, dici? No, non credo di aver più vissuto. Con la vita ho chiuso allora, quando sono fuggito.”
“In base alla tua esperienza che cosa mi consigli? La mia situazione è molto simile alla tua. Prima o dopo dovrò prendere una decisione. Oppure anch’io dovrò scappare?”
“Ragazzo, non so che dirti. Forse sceglierai, o forse no. È possibile che saranno gli eventi stessi a condurti a una risoluzione. In tal caso sappi che la gioia di un essere umano andrà a scapito della sofferenza di un altro. Questa è la vita, quella che io mi sono rifiutato di vivere. Adesso vai, e non tornare mai più da me. Non voglio sapere come andrà a finire la tua vicenda. Non ho nessuna intenzione di stare a consolarti o a compatirti. Non sono in condizione di farlo, non ne ho voglia.”
Il vecchio spegne il sigaro, si alza e ritorna nell’orto, mentre io rimango seduto, sempre più preda della mia disperata inquietudine.

RESTAURAZIONE



La riconferma di Giorgio Napolitano al Quirinale ha rappresentato la fine di uno psicodramma collettivo che è durato per tre interi giorni. Se, da un lato, tale evento ha dimostrato ancora una volta il grande spirito di servizio e di sacrificio che anima l’anziano Presidente, dall’altro ha sancito la disastrosa disfatta di quello che era l’unico vero partito presente nel nostro Paese, il Partito Democratico. Il suicidio politico di una intera classe dirigente, e del suo segretario. Tutti esponenti dell’unica forza politica non contaminata da spinte populiste, la speranza di chi ancora nutriva qualche illusione riguardo al cambiamento. In tutto ciò prevale, in ogni caso, una nota stonata. L’essere stati costretti, in ultimo, a ricorrere ancora a Napolitano per porre termine a una situazione che stava assumendo toni drammatici, sancisce la morte della politica, mette fine alle aspettative di rinnovamento e conduce in una direzione tutt’altro che auspicata ma divenuta ormai obbligata.
Continuiamo a ritenere che Pierluigi Bersani sarebbe stato un ottimo Presidente del Consiglio. L’uomo è onesto e capace, tenace e ostinato. Se avesse vinto ampiamente le elezioni, se fosse stato sostenuto da una maggioranza omogenea e coesa, se non fosse stato tradito dai suoi… Tutto questo però non si è verificato, e il segretario è entrato suo malgrado in una zona buia. Sono emerse con crudezza le sue scarse attitudini politiche, i suoi errori sono stati clamorosi, uno dietro l’altro, uno più grave dell’altro. La catastrofe è stata così inevitabile, le sue dimissioni un atto di correttezza, la sua fine politica definitiva. Sono rimaste soltanto le macerie, le rovine dell’Italia.
Silvio Berlusconi, dal canto suo, ha invece trionfato su tutti i fronti. È riuscito a stoppare l’elezione al Colle di Romano Prodi, che sarebbe risultata per lui alquanto indigesta. Parteciperà, pur essendo stato sconfitto alle elezioni politiche, al nuovo governo, e ne detterà in gran parte la linea. Quando si tornerà al voto (tra un anno?) di sicuro vincerà e riuscirà a imporre il nuovo Presidente della Repubblica (lui stesso?) dal momento che il nuovo mandato di Napolitano sarà di sicuro a termine. In grande difficoltà, Berlusconi è stato in pratica resuscitato dai suoi stessi avversari, che hanno perseguito con tenacia e successo il solito incomprensibile autolesionismo.
Anche il Movimento Cinque Stelle risulta alla fine sconfitto. Per un attimo ha vagheggiato di poter imporre il proprio orientamento a tutti gli altri attraverso la proposta e il fermo sostegno della candidatura di Stefano Rodotà (personalità di indiscusso prestigio) ma dimostrando poi l’abituale dilettantismo e l’usuale scarsa elasticità di strategia quando non ha compreso che l’opzione Prodi poteva risultare decisiva e vincente. Grillo comunque sarà ugualmente soddisfatto. I suoi soldatini staranno all’opposizione (vanificando così il voto di milioni di italiani che credevano nel cambiamento) e potranno diligentemente dilettarsi nell’opera di pignoli guardiani. Il fatto è che i controllori, pur diligenti, non contano nulla e non decidono nulla. Tutto ciò lascia ancora più sconcertati.
Siamo di nuovo precipitati nell’incubo. Un brutto sogno che sempre di più corrisponde alla realtà.

sabato 20 aprile 2013

SENZA RAGIONE



Parole e ancora parole schizzate sulla carta
Macchie d’inchiostro che esprimono pensieri
Segni indelebili di un’espolsione dell’anima
Spirito tormentato che mai trova pace
Serenità turbata da sofferta finzione  
Finché corporea non affiora la realtà
Consistenza umana di dolce apparenza
Cospetto inatteso accolto con stupore
Calda meraviglia di carne e di sangue
Intreccio complesso di corpo e sentimento
Affetto rituale che diviene passione
Quando tutto si trasforma
Cambiamento improvviso che stravolge
Girare a vuoto in direzione contraria
Tumulto continuo di un petto in affanno
Angoscia incessante dell’oggi e del domani
Futuro incerto che riflette sul passato
Non c’è tempo per il pentimento
Rimorso quotidiano annullato dal richiamo
Appello irresistibile che non concede scampo
Rifugio di sguardi di gesti e di discorsi
Scambio appagante di umori e di languori
Felice e doloroso abbandono ai sensi
E la ragione non esiste più 

giovedì 18 aprile 2013

LUGLIO



L’enorme trattore bianco procede lento, quasi a passo d’uomo, sul campo assolato. Alla guida c’è un contadino di circa quarant’anni. È a torso nudo, e la sua pelle è molto scura, bruciata dal sole. Un copricapo di paglia gli ripara la testa dai raggi infuocati. Il suo naso, spellato sulla punta, è piuttosto pronunciato. L’ombra della barba vela le sue guance scavate. Ha lo sguardo assorto, concentrato sul compito che sta assolvendo. Dietro al trattore è attaccata una strana macchina, collegata a un lungo rimorchio. L’attrezzo, lentamente, sputa sul pianale balle di fieno compatte e dalla forma regolare. In equilibrio precario sul traino ci sono due bambini. Anch’essi indossano soltanto un paio di sgualciti pantaloncini e un cappello dalle larghe falde. Aiutandosi a vicenda, sistemano in modo ordinato i fagotti di fieno profumato sul cassone. Lo sforzo e la fatica sono evidenti. I loro giovani corpi sono sudati e impolverati. L’uomo, ogni tanto, si volta nella loro direzione e ne approva il lavoro con impercettibili cenni del capo. E i ragazzini, compiaciuti, riprendono la loro attività con rinnovata lena. Con entusiasmo. Il contadino adesso scruta il cielo. Le sue narici fremono. Sente qualcosa nell’aria. In lontananza vede grosse nubi nere che si stanno addensando. Capisce che bisogna fare in fretta perché sta per arrivare un temporale. La pioggia potrebbe, in modo brutale, rendere vano l’impegno degli ultimi giorni. Allora accelera leggermente, e dallo scappamento del potente mezzo fuoriesce un soffio di fumo caliginoso.
Dietro al trattore cammina una donna. Impugna a due mani, con energia, un lungo rastrello di legno. Raccoglie il fieno che l’attrezzo agricolo non riesce a incorporare e ne fa piccoli mucchi. Indossa un leggero vestito di cotone stampato, sbracciato. La donna ha lunghi capelli castani, raccolti in modo approssimativo sulla nuca. Il suo viso, dai tratti delicati, è arrossato per il caldo e per la fatica. Anche lei si accorge dell’acquazzone in arrivo, e i suoi movimenti si fanno più veloci, quasi frenetici. L’afa aumenta d’intensità. A un tratto, la donna si immobilizza. Comincia a sbottonarsi il vestito. Lo toglie e rimane in sottoveste. L’indumento, di colore rosa, è di tessuto molto sottile, trasparente. Sotto, si intravede l’ombra scura della biancheria. Raccoglie da terra l’attrezzo e ricomincia il lavoro. Il seno, non più trattenuto dallo stretto abito, oscilla morbido e sembra volersi liberare e uscire. Le robuste cosce, scottate dal sole, nella parte superiore sono invece candide, lattee e incontaminate. Il corpo della donna sprigiona non solo vigore e vitalità, ma anche un’inebriante sensualità.  

venerdì 12 aprile 2013

CAROSELLO



È il mattino del 2 gennaio 1977, e il bambino sta ancora dormendo. Sogna. Qualcosa di indefinito ma piacevole. Si rigira tra le coperte emettendo dei piccoli gemiti. Sul suo viso dai tratti infantili è dipinto un sorriso beato. A un tratto, la donna irrompe nella camera. Rumore. Luce. Il ritorno alla realtà è brusco e inaspettato. E all’improvviso, come a un segnale convenuto, tutta la casa si anima. Una porta sbatte. Dalla cucina, un gatto miagola e reclama cibo e attenzioni. La caffettiera brontola solitaria sul fuoco.
“Sveglia! È tardi! Vestiti che la colazione è pronta” dice la donna.
Il bambino si mette a sedere sul letto. Si stropiccia gli occhi. L’inatteso chiarore gli dà fastidio. Appare imbronciato.
“Sbrigati! Dobbiamo andare in chiesa!” lo martella la madre con voce squillante.
“Mamma, non voglio andare a messa. Fuori fa freddo” risponde il bambino, lo sguardo fisso sulla finestra dai vetri appannati.
“Poche storie. Svelto!”
“Mamma, se vengo a messa questa sera posso rimanere alzato anche dopo Carosello?”
“Carosello? Guarda che da oggi in poi non ci sarà più” risponde la donna, in maniera frettolosa, mentre sta per uscire dalla camera.
“Non c’è più? Mai più?” domanda il piccolo con la voce incrinata.
“Esatto. Non lo faranno più. Mai più” ribadisce distrattamente la madre, che ormai è già in cucina.
Il bambino inizia a piangere.




domenica 7 aprile 2013

SERATA



Da solo mentre si fa sera
Su una macchina che è puttana
In ardente attesa del chimico frutto
L’aria fresca d’aprile e il cielo cupo
Passo dopo passo è giunta l’ora
L’ultima infinita esitante attesa
Scrivo i numeri della visione
Risate sguaiate di ragazzi giapponesi
Odore d’umanità nella soffocante cabina
L’artiglio contratto sul campanello luminoso
E poi lei appare
Abiti vecchi e sorriso da sogno
Stoffe informi sulle curve ambite
Quindi tutto e nulla
Il troppo pieno e l’improvviso vuoto
Il tormento e lo smarrimento
Traboccanti umori caldi e umidi
Il corpo combatte e la mente vacilla
E subito diventa tardi
Stracci ributtati sulle ossa dolenti
L’ultimo disperato risucchio di labbra
E poi fuori dalla stanza arroventata
Furtivo come un ladro nell’androne
L’uomo/donna sbuca all’improvviso
Tette enormi e alta statura
Un invito che è un gioco
La risposta è un bacio simulato
All’aperto sul selciato
Urla e grida e schiamazzi di animali
E poi da solo attraverso la notte
Su una macchina che è sempre più puttana
Quando l’anima è un vulcano

venerdì 5 aprile 2013

IL COMPAGNO DI SCUOLA



Oggi mi sono alzato tardi. Era da parecchio tempo che pregustavo questa lunga dormita. Gli ultimi due mesi di lavoro sono stati terribili. Sono stato impegnato a lungo, giorno e notte si può dire, in quella delicata inchiesta sulle presunte – e ora accertate – complicità tra la criminalità organizzata e alcuni esponenti di spicco del Partito della Nazione. Ho ricevuto molte pressioni, intimidazioni e minacce ma, con l’aiuto di un valido collega, sono riuscito ad arrivare fino in fondo. Proprio ieri è stata pubblicata l’ultima parte del mio lavoro, quella più esplosiva – e grave per le conseguenze che ne potrebbero derivare per l’assetto politico nazionale – e dunque ho deciso di concedermi un’intera giornata di riposo, in serena attesa delle inevitabile reazioni che di sicuro non si faranno attendere. Il mio direttore mi ha invitato a essere prudente, ha proposto per l’ennesima volta l’impiego di una scorta per garantire la mia protezione, pagata dal giornale tra l’altro, ma ho rifiutato. Non ho paura, non temo vendette tuttavia mi ripugna l’idea, seppure del tutto intangibile a mio parere, di mettere a repentaglio vite di altri incolpevoli esseri umani. Ormai ho scritto tutto ciò che sono venuto a conoscere, in dettaglio. Un atto di violenza nei miei confronti non farebbe altro che confermare e rafforzare quanto contenuto in quei famosi articoli. Inoltre, ritengo che ciò non torni per nulla utile, in questo momento, a chi ne è coinvolto. Temo di più, nel lungo periodo, tentativi di delegittimazione, campagne diffamatorie, secchiate di fango che potrebbero colpirmi appena avrò abbassato la guardia.
Non sono uscito a comprare i giornali, non ho acceso il computer. Ho intenzione di non rispondere al telefono. Non voglio sapere nulla, almeno fino a domani. Quando tornerò in redazione, so che troverò l’inferno. Ma oggi no, oggi mi voglio godere in assoluta tranquillità questo magico momento di sospensione. Sarà breve, e nulla e nessuno lo dovrà turbare.  
Metto sul fuoco la seconda caffettiera. Preparo, con cura, una fetta di pane tostata e la ricopro con un abbondante strato di marmellata. Accendo lo stereo, attendo l’attacco del pianoforte nel concerto di Brahms – una vera delizia – e mi siedo. Chiudo gli occhi e proprio in quell’istante sento il suono del campanello. Scatto in piedi, con il battito del cuore accelerato. Chi può essere? Il postino? Oppure qualcuno con brutte intenzioni? Mi avvicino alla porta d’ingresso e sbircio dallo spioncino. Vedo un uomo, pressappoco della mia età e con un aspetto per nulla minaccioso. La prudenza mi suggerisce di non aprire, ma la mia incoscienza e la mia innata curiosità prevalgono. Socchiudo la porta e noto che l’uomo non ha nulla tra le mani.
“Buongiorno. Desidera?” Lui mi guarda e non parla. Sembra sorridere, anche se il movimento della sua bocca è quasi impercettibile.
“Mi dispiace, ma non ho bisogno di niente” aggiungo, nel tentativo di congedarlo. Mi sforzo di essere gentile, la sua aria dimessa un po’ mi intenerisce.
“Non mi riconosci?” dice finalmente.
“Come?”
“Sono io. Bellini Angelo, il tuo compagno di scuola.”
Dice proprio così, Bellini Angelo, prima il cognome e poi il nome, come sta scritto sui registri scolastici. La sua voce è bassa e dal tono ruvido. Allora mi concentro sui tratti del suo viso. Sono sottili, sfuggenti. I capelli, sporchi, gli ricadono sugli occhi. Ma ciò che alla fine mi colpisce sono quelle macchie, quella spruzzata di lentiggini proprio alla radice del naso. È solo in quel momento, quando il mio sguardo si fissa in quel punto, che davvero lo riconosco. Sono trascorsi più di trent’anni, eppure qualcosa all’improvviso scatta nella mia mente. L’immagine che mi trovo di fronte, di quest’uomo ormai maturo, è messa a confronto con un’altra, quella di un bambino minuto, con il muso appuntito, con le gambette nude e secche – simili a due ramoscelli – che spuntano dal grembiulino nero. Mi sovviene, di colpo, anche il ricordo di un enorme fiocco azzurro, sempre slegato, fissato a un colletto rigido, di plastica bianca. Adesso ne sono sicuro, è proprio lui. Angelo, il mio compagno di banco della prima elementare. Dopo un attimo di incredulità, reagisco.
“Scusami, ma subito non ti avevo riconosciuto. Vieni, entra.”
“Non vorrei disturbare.”
“Ma che dici? Ci rivediamo dopo così tanto e non vuoi nemmeno entrare? Dai, non fare complimenti.” Si guarda attorno, guardingo, poi finalmente si decide. Si liscia la giacca marrone, di una taglia più grande, e fa due passi in avanti. Mi accorgo che è nervoso perché si muove a scatti. Lo guido verso il salotto. Passando, tolgo la caffettiera dal fuoco e guardo con rimpianto la fetta di pane cosparsa di marmellata che era pronta per essere addentata, ma che invece dovrà aspettare.
“Posso offrirti qualcosa?”
“No, grazie. Preferisco non prendere nulla.” Allora anch’io rinuncio al caffè, un gesto di cortesia che tuttavia mi costa molto.
“Siediti, almeno” lo invito.
“No, grazie. Non intendo fermarmi a lungo.”
“Hai premura? Devi andare al lavoro?” Non risponde. Forse non ha sentito, oppure ha finto di non aver sentito. Insisto con delicatezza.
“Ma... dopo tanti anni ricompari, a sorpresa, e non vuoi neppure fermarti un po’?”
“Un’altra volta. Intendevo solo salutarti” ribadisce.
Allora decido di prendere l’iniziativa. Mi avvicino a lui – è molto più basso di statura rispetto a me – appoggio dolcemente le mani sulle sue spalle e lo costringo ad accomodarsi sull’enorme poltrona di pelle nera. Mi siedo anch’io, proprio di fronte, sul divano.
“Allora Angelo, che cosa mi racconti?” Vedo che, poco alla volta, si rilassa. I tratti del suo viso che fino a qualche istante fa sembravano come accartocciati, si distendono.
“Ti devo delle scuse” dice. Anche il suo tono di voce è più sicuro.
“Perché?”
“Me ne sono andato senza neppure salutarti. Non è stata una cosa bella da fare, tuttavia vorrei che tu comprendessi che non è stata colpa mia, non è dipeso da me.”
“Non preoccuparti. Ti credo.”
Mentre sto parlando, mentre lo ascolto, cerco di scavare nella memoria, in quei ricordi lontani, ormai sfumati e indefiniti. Mi torna in mente il primo giorno di scuola, mia madre che mi accompagna in classe e, su indicazione della maestra, mi fa sedere al primo banco, dove è già accomodato, a braccia conserte e con lo sguardo serio – questo lo rammento con precisione – un altro bambino, Angelo Bellini, la versione infantile di questo singolare individuo seduto ora davanti a me. Penso alla paura che mi assale quando mia madre esce dall’aula, al terrore che provo di fronte a quel gesto che, dentro di me, considero come un abbandono, pur sapendo che non così. Nei giorni precedenti, tutto mi è stato spiegato più volte dai miei genitori, senza risparmiarmi nulla; conosco bene ciò che mi aspetta, vale a dire la scuola, la maestra, i compagni e così via, però la sensazione che avverto in quel preciso istante rappresenta un qualcosa che poche volte ho poi riprovato nel corso della vita. Anche adesso, rivivendo quell’evento a distanza di tanti anni, ne patisco.
“Per quale motivo non tornasti più a scuola dopo le vacanze di Natale? La maestra non ci diede alcuna spiegazione. Un nostro compagno – non ricordo quale – le chiese se per caso tu fossi morto. Tutti gli altri si misero a ridere e fummo rimproverati con severità.”
“Mio padre cambiò lavoro all’improvviso, da un giorno all’altro, e allora ci trasferimmo in un’altra città.”
“Quindi ti toccò cambiare scuola. Fu una brutta esperienza?” Non risponde, mi guarda, sorride ma non risponde. Allora non insisto.
“Ti ricordi quando mi chiedesti in prestito il temperino?” mi domanda invece.
“Sì.” È vero, me lo ricordo sul serio. Vedo la mia matita che cade dal banco, quasi al rallentatore, e che atterra di punta sul pavimento. Lesto, mi abbasso e la recupero, aiutandomi con il piede. Ma la punta non c’è più, si è spaccata. Allora mi volto verso Angelo e, bisbigliando, gli chiedo in prestito il suo temperamatite giallo – il mio, come spesso mi capita, l’ho dimenticato. Lui è già lì pronto, con il braccio teso. La maestra, vigile, percepisce il mio movimento, capisce e mi richiama urlando, imputandomi sbadataggine e trascuratezza. Poi mi costringe ad andare alla cattedra, dove lei ha installato un grosso temperamatite a manovella. Per punizione mi fa appuntire una gran quantità di matite colorate, di varie dimensioni, e tutti sghignazzano per i miei gesti maldestri. 
“Sai, quella volta ci sono rimasto male, per te. E non ho riso. La notte, per il dispiacere, non ho dormito.”
“Ti ringrazio.”
“Il giorno dopo è stato ancora peggiore.” Osservo i suoi occhi, che ora sono diventati tristi, e capisco ciò che sta per dire. Sorrido imbarazzato, vorrei sviare l’argomento ma non ho la prontezza necessaria.
“Te la sei fatta addosso.”
Quello non è certo un bel ricordo. Mi rivedo, mentre cerco di resistere allo stimolo sempre più pressante. Ma non ho il coraggio di chiedere di uscire dall’aula e allora cedo. A un certo punto la maestra si zittisce e si avvicina a me. I miei compagni si tappano il naso. Soltanto Angelo, nonostante sia invaso dalla puzza più di tutti, rimane impassibile. La maestra, con gesti bruschi, mi strappa dal banco e mi conduce in bagno, dove mi spoglia e cerca di lavarmi. Poi mi riveste, ma senza rimettermi le mutande, che getta in un cestino. La mia mortificazione è assoluta, devastante. Non ho mai più provato una cosa del genere, per mia fortuna. Ancora adesso, al solo pensiero, ne sono profondamente turbato.
“Angelo, ma tu ti ricordi proprio tutto!” Non risponde, ma incrocia le braccia sul petto, come allora, un gesto che evoca fatalità e rassegnazione. E anche compatimento. Nei confronti di chi?
Prima di sprofondare nella malinconia, cerco di riportare il discorso ai giorni nostri.
“Quando sei tornato in città? Da poco, vero?”
“No, quattro anni fa.”
“Quattro anni? E come mai mi hai cercato soltanto adesso se ci tenevi a rivedermi?”
“Non ti ho cercato, ti ho incontrato per caso, appena ritornato in città, alla fermata di un bus ma tu non mi hai visto. Io invece ti ho riconosciuto subito. Anzi, ti confesso che speravo proprio di imbattermi in te.”
“Incredibile. E come hai fatto a scoprire dove abito?” L’espressione sul suo viso volpino diventa furba. Ammicca.
“Ti ho seguito.”
“Che cosa?” domando, sorpreso da quella risposta inaspettata.
“Quella volta ti ho seguito. Ho visto che sei entrato in quel grande palazzo in centro, dove lavori, ho atteso che uscissi e ti sono venuto dietro fin qui.”
“Vuoi dire che hai aspettato fuori tutto il giorno?”
“Sì, ma non l’ho fatto solo quella volta, da allora l’ho fatto quasi tutti i giorni.”
Sono sconvolto, una sottile inquietudine mi percorre, tuttavia cerco di mantenere la calma.
“Angelo, sai che lavoro faccio?” Scuote la testa.
“No, non l’ho ancora capito. Ci ho provato, ma quel palazzo è troppo grande, pieno di mille attività diverse.  Fai l’assicuratore?”
“Sono un giornalista.” Il suo viso esprime un sincero stupore. E compiacimento.
“Scrivi sui giornali? Su tutti i giornali?”
“No, su uno soltanto.”
“Lo sapevo! Eri già bravo a scrivere anche ai tempi della scuola.”
“Angelo! Che cosa stai dicendo? Facevamo la prima elementare!” Vedo che scuote il capo. Non vede l’ora di ribattere, di confutare la mia affermazione. Ai lati della sua bocca, dove le labbra si congiungono, si accumula della saliva. Distolgo lo sguardo, un po’ disgustato.
“Ti ricordi quando la maestra ci faceva copiare dalla lavagna le lettere dell’alfabeto? Tu riuscivi a farle belle rotonde, quasi senza staccare la penna dal foglio, e non ti cadeva mai una macchia. Io invece non ci riuscivo, facevo fatica e cercavo di imitarti ma senza risultati. Eri veramente bravo! Ti confesso che qualche volta ho pure provato un po’ di invidia.”
Cerco di non farmi distrarre dalle sue precise, minuziose rievocazioni. In lui, nelle sue parole, colgo – devo ammetterlo, a questo punto – un preoccupante elemento ossessivo. Tento di approfondire l’aspetto che più mi turba.
“Dimmi, quante volte mi hai pedinato, in realtà? E perché l’hai fatto? Non potevi semplicemente farti riconoscere come hai fatto oggi?”
“Te l’ho detto, ti ho seguito quasi tutti i giorni. Anche se avevo paura, perché non sapevo come avresti reagito. Finalmente, oggi mi sono fatto coraggio. Ho aspettato che tua moglie uscisse…”
“Perché?” Lo interrompo, in modo brusco. Sto cominciando a irritarmi.
“Scusami, ma ho paura delle donne sconosciute.”
La mia mente allenata di cronista si mette in moto. Cerco di essere freddo e riepilogo i fatti: i tre mesi alla scuola elementare, l’abbandono improvviso di Angelo, la sua ricomparsa dopo tanti anni, i suoi morbosi pedinamenti, la sua precisa memoria di episodi ormai lontani, il suo strano atteggiamento.
Le mie riflessioni sono stroncate sul nascere.
“Ti ricordi cosa accadde a Michele? Mi vengono ancora i brividi a pensarci!”
“No! Non me lo ricordo!” La mia voce si alza di tono. E si incrina.
“Dici sul serio? Come hai fatto a dimenticarlo? Allora, lui si mette a cancellare con la gomma, quella di due colori, blu e rossa, però non si accorge che la sta usando dal lato sbagliato. Lo sanno tutti – persino io, pensa – che per cancellare quanto si sia scritto con la matita bisogna usare la gomma dalla parte più morbida – quella rossa, giusto? – e invece lui continua a premere e sfregare sul foglio con la parte blu, quella dura, finché la carta si buca. Ti ricordi come ci rimase male? Si fece tutto rosso in faccia e poi, piagnucolando, chiamò la maestra. Lei arriva, guarda un attimo il foglio e poi lo strappa, e dopo afferra il povero Michele per le orecchie e lo solleva da terra. Lo solleva da terra! Ci pensi? Chissà che dolore…”
“Angelo, vorrei dirti che…”
“E le pantofole? Ti ricordi le pantofole? Quella maestra, voglio dire la nostra maestra, ci impediva di camminare in aula con le scarpe – forse per il rumore, forse per non sporcare, chissà – e allora ci costringeva, prima di entrare in classe, a infilare delle pantofole. Non so tu, ma io mi sentivo sempre umiliato ogni volta che dovevo sottostare a quell’imposizione.”
Angelo ormai è come un fiume in piena, sembra inarrestabile. Mi butta addosso un ricordo dopo l’altro, mi travolge con le sue tristi memorie. Sì, tristi, perché quasi tutti i fatti evocati sono intrisi di mestizia e malinconia seppure prevalga sempre, in lui, nel suo giudizio riguardo tali lontani avvenimenti, un senso di struggente nostalgia. Mi spiego: è come se, in quel poveraccio seduto di fronte a me, l’intera vita fosse concentrata in quei tre mesi di scuola. Ma che cosa ha fatto dopo? Com’è vissuto?
“Angelo, ma tu che lavoro fai?” Ci riprovo ma lui, ancora una volta, non risponde. Mi guarda senza parlare, estatico; osservandolo comprendo che, in questo momento, con la mente lui non si trova qui, nel salotto di casa mia, bensì in quella piccola aula con i muri verdi e il pavimento di legno, seduto nel banco, a fianco del suo ammirato compagno di un tempo.
“Angelo, ascolta. Perché ti sei tanto fissato su quei tre mesi di scuola? Nella tua vita avrai fatto tante altre cose. Avrai conosciuto molti altri compagni, altri insegnanti, avrai lavorato, avrai incontrato tante persone, avrai avuto delle donne, forse dei figli, perché – rispondi, ti prego – ti sei tanto intestardito su di me e su quel breve periodo di tanti anni fa?”
Per la prima volta da quando è iniziata la nostra surreale conversazione, lo vedo scosso. Qualcosa di ciò che ho detto – con veemenza, lo ammetto – è penetrato in lui. Abbassa il capo e lo incassa in quella sua giacca enorme, tanto che mi ricorda una tartaruga spaventata che si nasconde per sfuggire al pericolo. E inizia a parlare, comincia finalmente a rispondere alla mia domanda. Lo fa con una voce che non sembra più la sua, simile com’è a uno straziante pigolio. Mi vengono i brividi.
“Dopo quei tre mesi non sono più andato a scuola. E quei tre mesi sono stati il periodo più felice della mia vita. L’unico che voglio ricordare.” A quel punto si alza e comincia a dirigersi verso la porta. Il suo passo è strascicato, l’andatura di un uomo sconfitto. È come se reggesse, sulle sue fragili spalle, tutto il peso del mondo. Comprendo a stento le sue ultime parole.
“Non ho più avuto altri compagni, né altri insegnanti. Non ho mai lavorato e non ho mai avuto una donna. Figli?”
Esce e chiude la porta, dolcemente.