Powered By Blogger

venerdì 29 marzo 2013

IL CANE DEI VICINI



È piuttosto tardi, ma sono ancora in pigiama. Cioè, non si tratta di un vero e proprio pigiama, piuttosto di un qualcosa di simile. Un bene succedaneo, avrebbe detto il mio vecchio professore di economia. In realtà soltanto adesso sarebbe veramente vecchio, di età intendo, perché sono trascorsi ormai tanti anni dai tempi della scuola. Allora invece era giovane – non quanto me all’epoca, naturalmente – ma sono certo che allora fosse giovane. I professori, anche se non sono stagionati, sono sempre più vecchi dei loro studenti. Questo è certo. E lui era quello che si portava sempre il cane appresso, in classe. Un cane piccolo, quasi microscopico – non mi ricordo più il nome né della razza né del cane – e che non dava per niente fastidio. La bestiola si accucciava sotto la cattedra e se ne stava buona e tranquilla per tutta la durata della lezione. Però non dormiva mai, ed era questa la cosa che mi faceva imbestialire. Esatto, diventavo proprio come una bestia, diventavo come lui, il cane. Anzi, peggiore di lui. Quello prestava attenzione a tutto, alle spiegazioni ma soprattutto alle interrogazioni. Finché ascoltava le prodezze dei miei compagni, la cosa non mi dava fastidio più di tanto, ma quando toccava al sottoscritto essere torchiato da quel sadico del suo padrone be’… allora era diverso. Appena iniziavo a balbettare qualcosa, lui rizzava le orecchie e piegava quel minuscolo muso nella mia direzione. Si vedeva che era concentrato, attentissimo a ogni parola che pronunciavo. Sono certo che quel figlio di un cane fosse piuttosto preparato in quelle materie che a me invece risultavano ostiche, di conseguenza i miei enormi strafalcioni lo colpivano profondamente; così si esibiva in strane smorfie e arricciava il naso. Insomma, soffriva davvero. Altre volte la sua minuscola bocca assumeva una strana piega, appena accennata, che però gli conferiva un’espressione inconfondibile, molto simile a un sorriso, un sorriso maligno però, di dileggio. Ciò avveniva quando il professore – e suo adorato padrone – mi rispediva al posto dopo avermi affibbiato l’ennesima sonora insufficienza. E in quel momento sulla bocca dell’insegnante scorgevo tratteggiato quello stesso sorriso beffardo che già avevo sperimentato su sembianze canine qualche attimo prima. Da allora ho iniziato a odiare i cani. Tutti. Intendiamoci, non ho paura di essere aggredito, di essere assalito da loro oppure morso. Li temo nel loro insieme, nella loro universalità, per così dire. Sono convinto che da qualche tempo stiano ordendo, in gran segreto, qualcosa di terribile; il loro obiettivo finale, a mio parere, non può che essere quello di annientare il genere umano. Perché ci considerano – a torto - oppressori e schiavisti e pretendono vendetta. La mia è un’ossessione immotivata? Si tratta forse di pazzia? No, ritengo di essere una persona abbastanza equilibrata, sana di mente. Certo, non nego di soffrire di una fastidiosa forma di esaurimento nervoso – così almeno il medico definisce il mio disturbo – ma i miei pensieri fluiscono con incredibile lucidità. Qualche tempo fa ho esposto a un conoscente queste mie congetture, quelle sui cani; ebbene, quel tale è rimasto senza parole a causa delle mie ardite argomentazioni. Già, i cani. Proprio ieri ho letto, sulla rivista “Cani & Gatti” – alla quale sono abbonato da anni - un articolo che mi ha impressionato. Vi si affermava che ogni ora vengono al mondo più cani e gatti che esseri umani, anche se i dati non sono certi per via del fenomeno del randagismo. Spaventoso. Ho dovuto prendere tre pastiglie - delle mie intendo - tutte in una volta. Comunque, riconosco che i gatti mi fanno meno paura. Sarà perché sono creature più individualiste, più egoiste e quindi non in grado di organizzarsi, di pianificare un’eventuale insurrezione. Impossibile per loro mettersi d’accordo su un progetto comune. I cani no, i cani sono molto più pericolosi. Loro hanno menti pragmatiche, razionali, e conoscono alla perfezione le debolezze dell’uomo. Sanno come colpirci, e sono perfettamente in grado di mettere in pratica efficaci e devastanti azioni militari. Possono difettare in tattica, ma la loro strategia mi è ben chiara. Rimane un unico, grande interrogativo: il momento. Quando scateneranno la loro offensiva? Sono certo che si tratterà di un attacco a livello planetario, pianificato nei minimi particolari. Non avremo scampo. La nostra unica possibilità di salvezza consiste nel prevenire una simile azione, nel riconoscerne i segnali premonitori. Da tanto tempo mi considero una specie di sentinella del genere umano, ma pochi tra i miei simili collaborano a quest’opera in maniera attiva. In fondo, noi siamo peggiori dei gatti. Questi pensieri – che non mi abbandonano mai – provocano in me ansia e turbamento. Per prudenza, negli ultimi tempi ho preferito non abbandonare mai la mia abitazione, dove mi sento più sicuro. Ho dovuto però lasciare il lavoro, ma la piccola pensione che percepisco per la mia infermità mi consente comunque di vivere. Perso nelle mie elucubrazioni, mi sono scordato di fare colazione. La bottiglia del latte è sul tavolo, ancora da aprire; al suo fianco ci sono una pagnotta di pane e un vasetto di marmellata, di quella buona, confezionata con cura da mia madre. Guardo ancora una volta il mio misero pigiama - vale a dire le abbondanti mutande e la maglietta stinta che porto - e decido che non è il caso di toglierlo. Stasera, prima di andare a letto, lo dovrò indossare di nuovo e pertanto decido di non levarlo. Non avrebbe senso. Proprio mentre sto cercando di infilare sopra i soliti pantaloni, sento il suono del campanello. Claudicando, mi precipito verso la porta. Chi sarà? Forse il postino, oppure i soliti ragazzacci in vena di scherzi stupidi. Da qualche tempo mi hanno preso di mira e non riesco a spiegarmene le ragioni. Mi avvicino allo spioncino e guardo fuori. Nessuno. Subito dopo percepisco un lieve raspare sull’uscio, in basso. Con cautela, socchiudo la porta ma mi scordo di inserire la catenella di sicurezza. Sorprendendomi, lui spinge con il muso ed entra, con prepotenza.
“Argo!” esclamo.
È il cane dei vicini, si chiama Argo ed è un enorme rottweiler con il manto lucido e scuro. Lo conosco bene – e lui conosce me – perché spesso lo incontro fuori, a passeggio con il padrone. In quelle occasioni faccio di tutto per evitarlo, ma non riesco mai a sfuggire al suo sguardo torvo, cattivo. Stizzito, richiudo la porta con una pedata e torno in cucina, dove vedo il cane che, noncurante della mia presenza, si aggira indisturbato annusando qua e là. L’inquietudine, dentro di me, cresce a dismisura. Allora mi affaccio alla finestra e guardo la casa dei vicini, la casa di Argo. Tutte le finestre sono chiuse, così come il grande cancello, quello sulla strada. Il bestione è rimasto chiuso fuori? E i suoi padroni non se ne sono accorti e sono andati tranquillamente al lavoro? E Katia, la loro bambina, è a scuola? Mi sforzo di normalizzare il ritmo del respiro, ma non ci riesco. Cerco di convincermi che ciò che sto vivendo è puro frutto del caso. Forse Argo si è sentito solo e, non potendo tornare nella propria abitazione, è venuto a cercare la mia compagnia. Ma so che non è così. Questa spiegazione non mi convince per nulla. All’improvviso, sono colpito da un pensiero terrificante. E se il momento, quel momento tanto temuto, fosse arrivato? E se il compito di Argo fosse di neutralizzare me, uno dei pochi umani ad avere intuito la mostruosa cospirazione? Comincio a sudare in maniera copiosa, le gambe quasi cedono. Dove ho messo le pastiglie? Mi aggrappo al tavolo e mi accascio su una sedia. Argo si immobilizza, mi lancia un’occhiata ostile e poi prosegue la sua ispezione. Poco alla volta mi calmo e riacquisto la capacità di ragionare. Solo con un grande sforzo riesco a dissimulare la mia paura, anche se lui ormai l’avrà già percepita. Devo riuscire a escogitare un modo di ingannare quel bastardo bestione peloso.
“Argo, vieni qua!” pronuncio con voce abbastanza ferma.
Lui mi guarda, sorpreso. Poi, con mia grande incredulità, si avvicina e si accuccia ai miei piedi. Nessuno dei due, l’uomo e il cane, vuole scoprire le proprie carte. Siamo impegnati entrambi in una lotta psicologica che può avere un esito mortale. Mi affido alla mia intelligenza, di sicuro superiore a quella della bestia. Se fosse un essere umano, se lavorasse in una fabbrica, Argo sarebbe un ottimo capo reparto, ma non un dirigente. Se prestasse servizio nell’esercito, sarebbe un efficiente sergente, ma non certo un ufficiale. Il mio nemico non è nient’altro che un esecutore, una semplice pedina in un grande disegno. Posso sconfiggerlo, ne sono certo. Fingendo indifferenza affetto il pane e, proprio mentre sto per portarlo alla bocca, sento un ringhio sordo.
“Argo, ne vuoi anche tu? Hai fame?”
Gli getto il pezzo di pane, che lui divora in un attimo. Senza masticare, come fanno i cani. Non riprovo a mangiare, capisco che può essere pericoloso; è probabile che il cane abbia ricevuto l’ordine di impedirmi di farlo, anche se non ne capisco le ragioni. Vuole forse affamarmi? Devo fare qualcosa, non posso più rimanere in attesa. Con cautela, avvicino la mano al telecomando appoggiato sul tavolo. Voglio avere notizie, sapere se sono vittima di un’azione isolata oppure se la rivolta si è già scatenata ovunque, in tutto il mondo, come purtroppo temo. Proprio quando sto per pigiare il tasto d’accensione, Argo si alza di scatto, appoggia le sue grosse zampe sul tavolo e sposta il telecomando fino a farlo rovinare a terra, dove si frantuma in mille pezzi. Mi blocco, raggelato, mentre il cane ritorna dov’era prima, accanto alla sedia. Che cosa intendeva fare? Voleva giocare, seppure in modo goffo e maldestro? Ha forse scambiato quell’aggeggio di plastica, lungo e nero, per il bastone che il suo padrone gli lancia in cortile? Mi passo le mani sul viso, lentamente. Perché? Perché mi illudo ancora? Sono precipitato in un incubo, ingannare me stesso non mi assicurerà la salvezza, e tantomeno ciò sarà di alcuna utilità ai miei simili. Mi guardo intorno, alla ricerca di una potenziale arma, ma non scorgo nulla di adatto. Quel cane è una montagna di muscoli, e le sue fauci sono spaventose. Il mio fisico invece è gracile, e la mia gamba rigida di certo non mi aiuta. Che cosa posso fare, a mani nude, contro quella macchina perfetta, progettata per uccidere? Allora mi sento perso. Nessuno può aiutarmi, sono assalito dalla disperazione. Non posso muovermi, non posso scappare. Lui me lo impedirebbe. Che cosa aspetta a finirmi? Perché vuole continuare a tormentarmi? A questo c’è una sola risposta: è la sua malvagità che lo fa agire in questo modo, è la crudeltà propria della sua razza. Maledetto! In bocca non ho più saliva, un sottile velo di sudore freddo ricopre la mia fronte. Le mie mani sono gelide. Il terrore si impadronisce di me.
“Dong! Dong!”
Le campane! È già mezzogiorno ed io mi trovo qui, bloccato da quasi due ore. Argo adesso è disteso sotto il tavolo, ma sono certo che non sta dormendo, finge. Le sue orecchie, a tratti, sono animate da impercettibili movimenti. Che cosa sta aspettando? Nuovi ordini, forse?
“Argo! Argo!”
Una voce infantile, che proviene dall’esterno. La piccola Katia!
Il cane balza in piedi, scattando come una molla. Si scrolla e poi si lancia contro la porta. Il suo moncone di coda si agita frenetico. Mi alzo anch’io e lo seguo, zoppicando. Il mostro gratta contro l’uscio con le sue grosse unghie. Lo apro. Sono frastornato, stordito. Mi sono dunque sbagliato? Le mie – come non si stanca mai di ripetere il mio medico – sono davvero soltanto ossessioni? Esco per guardare, e non mi accorgo che la porta si richiude alle mie spalle. Vedo la bambina, felice e con le braccia aperte, pronta ad accogliere il suo grosso cane che le sta correndo incontro. Infatti, qualche istante dopo, Argo le balza addosso, la atterra con il suo peso e la azzanna alla gola. Un paio di violenti strattoni ed è tutto finito. Katia adesso è esanime sul selciato, ridotta a un mucchio di miseri stracci. Argo si volta e mi guarda. Le sue orribili fauci sono insanguinate. Con il suo passo pesante, torna lentamente verso casa mia. Sono spacciato.

giovedì 28 marzo 2013

STREAMING!



Il tentativo di Pierluigi Bersani di dare vita, in un modo o nell’altro, a un esecutivo sembra giunto agli sgoccioli. Il leader del Partito Democratico si è preso tutto il suo tempo, e ciò probabilmente era parte della sua strategia. Ha dapprima consultato tutti i settori della società, infine le forze politiche presenti in Parlamento. Da tutti questi colloqui non è emerso nulla di nuovo. Il Paese è in grande difficoltà, e l’attuale sofferenza non potrà che aumentare se trascorrerà ancora altro tempo senza che sia trovata una soluzione. Sul fronte dei partiti le offerte avvelenate del Pdl sono state respinte, e non poteva essere altrimenti. Monti e i suoi sono apparsi, al solito, piuttosto ambigui. Non si capisce, in realtà, ciò che Scelta Civica vorrebbe in cambio della fiducia all’eventuale nuovo esecutivo.
Nessuna novità di rilievo neppure sul fronte del Movimento Cinque Stelle, il gruppo nei confronti del quale Bersani nutriva le maggiori aspettative. Il no secco a ogni collaborazione è stato ribadito per l’ennesima volta, condito subito dopo dai soliti insulti di un sempre più impresentabile Grillo.
Eppure, forse, una piccola novità c’è stata. L’incontro tra Bersani e la delegazione del M5S è stato pubblico, poiché è stato diffuso in streaming. Prima di andare oltre, una domanda: dal momento che si è optato per la divulgazione della riunione non sarebbe stato meglio introdurre una telecamera, per consentire una migliore qualità di immagini e segnale audio? Si sa, lo streaming qualche limite lo possiede
Chiusa questa parentesi, ci si chiede che cosa sia emerso da ciò che abbiamo visto, al di là dell’esito finale, che era scontato. Ebbene, abbiamo assistito a qualcosa di un po’ imbarazzante, e patetico. Vale a dire Bersani che parlava e parlava, tentando di spiegare le sue posizioni e soprattutto lo stato di necessità e l’urgenza di fare qualcosa per il Paese, mentre i due capigruppo del M5S sono rimasti quasi sempre muti. Le poche volte che hanno pronunciato qualche parola, sono apparsi, oltre che evidentemente intimiditi, del tutto inadeguati al ruolo rivestito. Ciò che si era paventato purtroppo si è verificato: in Parlamento ci sono numerosi dilettanti allo sbaraglio. La maggior parte di loro sono persone in buona fede, ma pur sempre di dilettanti si tratta, con tutte le conseguenze del caso.
A questo punto non si sa se il Presidente della Repubblica (appresi gli esiti delle consultazioni) affiderà a Bersani un mandato pieno e gli permetterà così di presentarsi in Parlamento per richiedere una quasi impossibile fiducia, oppure se tenterà di mettere in pratica altre disperate soluzioni alternative.
In ogni caso, adesso come non mai, è possibile distinguere bene le responsabilità (e il loro grado) delle diverse forze politiche. Esercizio tuttavia un po’ inutile quando, ancora una volta, si è sull’orlo del disastro.

domenica 24 marzo 2013

LA CENA




“Su, entriamo.”
“Hai chiuso bene la macchina?”
“Sì, stai tranquilla. Andiamo.”
“Bello, però è già pieno.”
“Non preoccuparti, ho prenotato. Buonasera!”
“Come? Sì, ho riservato per due. Mancini.”
“Grazie.”
“Vieni, è quello in fondo.”
“Meno male, è in un angolo tranquillo.”
“Grazie.”
“Dove preferisci stare? Di là? Va bene, per me va bene. Ti appendo il giaccone? Come dici?”
“Ho detto di no. Lo sistemo dietro la sedia.”
“Farò anch’io così.”
“Il locale è grazioso, come fai a conoscerlo?”
“Sono venuto un paio di volte a pranzo.”
“A pranzo?”
“Sì, a pranzo. Perché?”
“Niente, così. Non me l’avevi detto.”
“Che cosa non ti avevo detto? Guarda che a pranzo ci vado tutti i giorni. Tu no?”
“Lo so che ci vai tutti i giorni. Soltanto non pensavo fossi mai venuto qua.”
“Perché?”
“Cosa?”
“Per quale motivo non posso venire qua?”
“Non ho detto questo. A proposito, con chi ci sei venuto?”
“Boh… con Rizzi, mi pare.”
“Solo voi due?”
“Credo di sì. Forse una volta c’era pure la Violante, se ricordo bene.”
“La Violante? La tua collega? Quella bionda e antipatica? Per non dire altro…”
“Che ti ha fatto? In fondo non è poi così antipatica, e poi l’hai vista solo una volta, non puoi giudicare.”
“Con tipi del genere una volta è più che sufficiente.”
“Smettila, per favore.”
“Grazie.”
“Grazie. No, niente aperitivo. Eh? La carta dei vini? Sì, grazie.”
“Non è che siete venuti solo voi due? Da soli, intendo dire.”
“Chi?”
“Tu e la tua collega.”
“Ancora! Basta, Silvia.”
“Perché ti indisponi così tanto? Hai forse qualcosa da nascondere?”
“Sei ossessiva, ecco perché! Hai deciso di rovinarmi il compleanno?”
“Non fare la vittima. Ti ho soltanto fatto una domanda.”
“Non mi pare. Sei gelosa, per caso?”
“Di quella?”
“È una bella donna, dopotutto.”
“I tuoi criteri di valutazione estetica sono alquanto discutibili.”
“Miseria, che acidità! E poi l’aspetto fisico, in una persona, non è tutto.”
“Ti riferisci a me?”
“No, non stavo parlando di te, il mio era un discorso generale. Mi dispiace, ma non sei al centro del mondo.”
“Sei un cretino.”
“E tu non hai il minimo senso dell’umorismo. Non devi… sta arrivando il cameriere, hai scelto?”
“No, non ancora. Ordina il vino.”
“Quale?”
“Fai tu. Che sia rosso, però.”
“Questo, grazie. No, può tornare tra qualche minuto? Grazie.”
“E adesso perché non parli?”
“Uh? No, stavo pensando…”
“A cosa?”
“Niente di particolare.”
“Sai Vilma, la mia collega?”
“Quella del centralino?”
“No, quella è Clara. Vilma, quella che è con me in ufficio. Quella un po’ grassottella…”
“Un po’ tanto…”
“Adesso è dimagrita.”
“Allora?”
“Ha l’amante.”
“Ma no! Non ci credo!”
“Invece è vero.”
“E tu come lo sai?”
“Come lo so? Me l’ha detto lei. Siamo amiche. E poi la copro sempre.”
“Tu?”
“Sì. Tu non lo faresti, con un tuo amico?”
“Aspetta, e chi sarebbe quest’amante?”
“So che si chiama Armando. Qualche volta ho parlato con lui, al telefono. Si sono conosciuti quest’estate, in vacanza, e da allora si sono frequentati, a volte da soli e a volte con le rispettive famiglie.”
“Con le famiglie? Addirittura?”
“Sì, il marito di Vilma e questo Armando sono diventati amici. Naturalmente lui, Bruno voglio dire, non sospetta nulla.”
“Che squallore! E che bell’amico!”
“Non fare il moralista, queste faccende sono sempre più complesse di quanto sembra.”
“A me pare una semplice porcheria. E basta.”
“Sì, abbiamo scelto. Spaghetti allo scoglio per entrambi. Poi vedremo. Silvia, vuoi assaggiare tu il vino?”
“No, fallo tu.”
“D’accordo. Sì, va benissimo, grazie.”
“E dove si incontrano?”
“Eh?”
“I due amanti, la tua collega e quell’altro, dove si incontrano?”
“Lui ha un negozio di abbigliamento.”
“E che cosa c’entra? Che fanno? Si accoppiano tra un cliente e l’altro?”
“Scemo. Si vedono nella pausa.”
“Si vedessero soltanto…”
“Carlo, falla finita! Sembri mio nonno! Se l’avessi saputo non avrei parlato.”
“E che cambiava? Quelli sarebbero ugualmente due maiali.”
“A volte sei proprio sgradevole. Chissà come reagiresti se ti dicessi che l’amante ce l’ho io, invece.”
“Ah! È così?”
“Carlo! E poi sarei io quella priva di senso dell’umorismo!”
“Il fatto è che… grazie.”
“Grazie.”
“Sembrano invitanti.”
“Speriamo che pesci e crostacei siano freschi.”
“Zitta, che ti sentono!”
“Con questo casino? Figurati!”
“Allora, come sono?”
“Buoni.”
“Te l’avevo detto.”
“Guarda quel cameriere.”
“Quale?”
“Non quello che ha servito noi. L’altro.”
“Beh?”
“Guarda come cammina, e come sculetta.”
“Che vorresti dire? Quel poveraccio ha i piedi piatti. E deve stare in piedi tutto il giorno.”
“Sembra un papero.”
“Mangia, per favore.”
“Smettila di dirmi che cosa devo fare!”
“Scusa.”
“Basta così.”
“Eh? Non li finisci?”
“Sono troppi.”
“Dai, passami il piatto.”
“Carlo!”
“Tieni il mio.”
“Carlo!”
“Sono ottimi, è un vero peccato lasciarli.”
“Perché non mi guardi?”
“Chi?”
“Tu! Perché quando mi parli non mi guardi negli occhi? Ti volti di continuo a destra e a sinistra, non stai mai fermo, sembri una gallina.”
“Non è vero, ti stavo guardando.”
“Bugiardo.”
“La verità è che non ti interesso molto. Non più.”
“Che dici? Non è vero.”
“Sai dire soltanto che non è vero e nient’altro.”
“E cosa dovrei dire? Di cosa dovrei parlare? Guarda che anche i tuoi discorsi non sono molto interessanti. Cose banali… l’amante della collega… il cameriere gay…”
“Del mio lavoro non ti importa nulla, né ti importa qualcosa di ciò che faccio nel tempo libero. La verità è che non facciamo mai nulla insieme e che non abbiamo interessi o argomenti in comune.”
“Adesso stiamo cenando. Insieme.”
“Questa è un’eccezione e lo sai benissimo. E comunque sono sicura che in questo momento vorresti essere da qualche altra parte.”
“Non dire sciocchezze. Non c’è nulla di male se abbiamo interessi diversi. Mi spiace, ma proprio non mi vedo fare quel pilates o come diavolo si chiama. Quello che fai tu in palestra, tanto per intenderci…”
“Non faccio soltanto quello…”
“E del corso di pittura su ceramica me ne frega un…”
“Carlo!”
“Scusa. Volevo semplicemente dire che, anche se non facciamo le stesse cose… il secondo? Silvia, cosa prendi per secondo?”
“Mmm… le scaloppe, quelle al limone.”
“Per me il brasato, grazie.”
“Che stavi dicendo?”
“Non mi ricordo più.”
“Ti sei macchiato?”
“Eh?”
“Lì sulla camicia. Vicino al colletto.”
“Forse.”
“Perché non ti compri qualcosa?”
“Cosa?”
“Vestiti. Hai sempre gli stessi vestiti. Da quanti anni non ti compri qualcosa di nuovo?”
“Guarda che questa giacca non è male, e poi mi piace.”
“È lisa sui gomiti! Una volta non eri così trasandato. E sul lavoro che cosa dicono? Guarda che così non fai bella figura con la tua collega…”
“E smettila con questa storia! Sai che odio andare nei negozi, lo considero tempo sprecato.”
“Allora vattene pure in giro nudo, ma stai lontano da me.”
“Sei la solita esagerata. Non credere che… grazie.”
“Grazie.”
“Mmm… qui il brasato è eccezionale!”
“Il mio piatto è enorme!”
“Cos’è che hai preso?”
“Le scaloppe, non le riconosci?”
“Sì. Scusa, ero distratto.”
“Come sempre quando sei con me.”
“Basta, per favore.”
“Versami un po’ di vino.”
“Certo.”
“Stai forse perdendo la memoria?”
“Perché?”
“Così… com’è il tuo brasato?”
“Ottimo, te l’ho detto. Che cosa c’entra la mia memoria?”
“Sai, a volte capita anche a me, non mi ricordo più ciò che ho fatto il giorno prima, mi sfuggono i nomi…”
“A me non capita.”
“Ma se non ti ricordi mai dove metti le chiavi dell’auto!”
“Mi succedeva anche da giovane. Comunque, che cosa vorresti sostenere? Che stiamo invecchiando? Consolati, dal momento che accade a tutti.”
“E tu non hai paura?”
“Paura? E di cosa?”
“Della vecchiaia.”
“Stai scherzando? No, non temo per nulla la vecchiaia. Anzi, mi auguro che arrivi in fretta, così potrò finalmente dire tutto ciò che mi passa per la testa! Come fanno i bambini, e nessuno si permette di giudicarli.”
“E non pensi al decadimento fisico? Non ci pensi mai?”
“Certo che ci penso! E ben venga questo temuto decadimento fisico! È il benvenuto! Ed è ciò che mi aiuterà a morire! O no?”
“Questi discorsi mi fanno rabbrividire.”
“Chi ha paura della morte rischia di morire di paura! Ogni giorno!”
“Falla finita con il tuo umorismo macabro. Una volta non eri così.”
“Una volta ero giovane. Eravamo giovani.”
“Smettila.”
“Non mangi più?”
“Sono sazia, e poi tu hai contribuito, con i tuoi discorsi, ad annullare quel poco appetito residuo. Comunque, se vuoi serviti pure, tanto sei una vera fogna.”
“Mi spiace che il cibo vada sprecato…”
“…con tutti quelli che muoiono di fame, giusto? Il fatto è che tu ti stai rimpinzando come un porco mentre quegli altri, quelli che ti fanno compassione solo in questo momento, continueranno a morire di fame. Le mie scaloppe te le stai sbafando tu, non loro!”
“Non riuscirai a farmi sentire in colpa. Mmm… veramente buone!”
“Vai piano con il vino, devi guidare.”
“Stai tranquilla.”
“Paola ti ha detto qualcosa?”
“Come?”
“Per Capodanno.”
“No.”
“Vuole andare in montagna.”
“Dove?”
“Con quel ragazzo.”
“Quale ragazzo?”
“Non dirmi che ignori che tua figlia, da parecchi mesi ormai, frequenta un ragazzo.”
“Non ne so nulla.”
“Ma se l’hai pure conosciuto! Guido, non ti ricordi?”
“Non è un compagno di classe?”
“È anche un compagno di classe.”
“E vorrebbero andare da soli? Loro due, intendo.”
“Sì, e non ci vedo nulla di male. Lui mi sembra un ragazzo serio.”
“Non se ne parla neanche.”
“Come?”
“Ho detto che la mia risposta è no!”
“Adesso capisco perché non ti ha detto nulla.”
“È stata saggia. Evidentemente conosce bene il proprio padre.”
“Tanto ci andrà lo stesso.”
“Ti sbagli.”
“Guarda che Paola ha diciotto anni.”
“Che vuol dire? Finché vivrà sotto il nostro tetto dovrà fare ciò che diremo noi!”
“Io le ho detto di sì. Non puoi contraddirmi.”
“Scusa Silvia, ma tu da che parte stai?”
“Dalla parte di mia figlia.”
“Tua figlia? Guarda che è anche mia!”
“Non essere infantile.”
“Voi due tramate alle mie spalle e poi sarei io quello infantile?”
“Allora?”
“Allora faccia come crede, ma se si mette nei guai che poi non venga a piangere sulla spalla del suo paparino!”
“Quali guai?”
“Lasciamo stare! Come? Sì, siamo a posto, grazie.
“Grazie.”
“Un dolce? Silvia, ti va un dolce?”
“Sto scoppiando….”
“Io prendo la mousse al cioccolato, e tu?”
“No, non ce la faccio proprio.”
“Grazie.”
“Perché non hai preso il dolce? In fondo hai mangiato poco…”
“La dieta, ti ricordi la mia dieta? Oppure hai dimenticato anche quella?”
“Sì che me la ricordo, però pensavo che almeno oggi potessi fare un’eccezione.”
“L’ho già fatta. A proposito, buon compleanno Carlo.”
“Grazie.”
“Sai una cosa? In fondo potevamo invitarla, è sempre così sola.”
“Chi?”
“Mia madre.”
“Tu sei pazza!”
“Perché?”
“Ma come? Ce la ritroviamo tra i piedi tutti i giorni e tu l’avresti voluta pure qui? Avrebbe di sicuro rovinato il mio compleanno.”
“Come sei crudele. In realtà lei ti vuole bene.”
“La sua è una realtà del tutto particolare.”
“Ma se ti ha pure fatto il regalo!”
“Ti riferisci a quell’orrenda cravatta? Comunque, io l’ho ringraziata.”
“Una volta non eri così.”
“Me l’hai già detto.”
“È bene ripeterlo.”
“Posso finire il vino?”
“Sì.”
“Vuoi il caffè?”
“Sì. Carlo?”
“Dimmi.”
“Poi chiedi il conto?”
“Sì.”

sabato 23 marzo 2013

CAPITERA' CHE MORIREMO



Capiterà che moriremo. Non ci possono essere dubbi, accadrà. Presto o tardi accadrà. Ridi, ridi pure. Ho detto una banalità? Qualcosa di talmente ovvio da suscitare la tua ilarità, o addirittura il tuo dileggio?
No, non mi riferivo all’annientamento del corpo. Non in senso stretto, almeno. Una conseguenza, mi riferivo a una semplice conseguenza. Forse non ci comprendiamo. Aspetta un attimo.
Lo hai già sentito? Può darsi, non ho la pretesa di dire cose nuove. In fondo tutto viene  di continuo ripetuto. Le stesse parole. Le stesse azioni. La vita. La morte. Ma cosa, cosa hai già sentito? Si può sapere?
Assolutamente no, te lo assicuro. Mai stato così lucido. E poi non è la prima volta che ne parliamo.
Non in questi termini? Dici? Non lo so, davvero non lo so. Proprio non ricordo, credimi.
Eh? Comunque mi fa piacere che tu non sghignazzi più, che tu non mi prenda più in giro. È vero, mi conosci. Mi conosci molto bene. Una reazione nervosa? Non ci credo! Ah! Per esorcizzare, dici? Può essere.
Adesso ci arrivo. Non hai mai imparato ad avere pazienza…
Non volevo parlare della morte. L’ho fatto? No, l’ho soltanto citata, di sfuggita. Sì, era il punto di partenza.
Come? No, non ci avevo pensato. Hai ragione. È buffo definire la fine come un punto di partenza.
No, lasciami andare avanti. Ti prego.
Uff! Non hai capito che cosa voglio dire tuttavia continui a interrompermi!
No, non mi sto arrabbiando. Calmo? Sono calmissimo!
D’accordo, mi rendo conto che tu preferiresti fare altri discorsi. Sì, certo. È quello che facciamo di solito, no? Concedimi, una volta tanto, di divagare un po’!
Le donne! Stai tranquillo, di donne parleremo la prossima volta che ci incontreremo. Sai, sei quasi riuscito a farmi perdere il filo. Stavo dicendo…
La morte. No, in realtà non volevo parlare della morte. Che c’è da dire della morte? Nulla. Esiste, ne siamo consapevoli, è una certezza. Non c’è altro da aggiungere. Sai, da un certo punto di vista è un argomento quasi noioso. Non trovi? Non ti piace? Non penso sia una questione di preferenze. È probabile che a nessuno piaccia. Parlarne, dico. No, a me non provoca particolare fastidio.
Eh? Ti ho già detto che non lo farò più. Preferiresti che lo facessi con qualcun altro? Sì? Non ci credo!
Che vuoi? Prima ridevi tu e adesso rido io! Come per cosa? Per la tua espressione! Se ti potessi vedere!
Non vuoi proprio farmi concludere, vero? Tranquillo, non si tratta di ciò che pensi tu. Come faccio a saperlo? Stai scherzando?
Adesso ascolta. E non mi interrompere più. Uh? Ma se lo fai di continuo! Zitto, per favore.
Capiterà che moriremo. Allora, secondo te, quanti lo verranno a sapere? Eh? Non ti importa?
Che fai? Smettila! Smettila di ridere! È impossibile parlare di cose serie con te!

domenica 17 marzo 2013

HABEMUS... PRESIDENTI



Finalmente abbiamo assistito all’auspicato scatto del Partito Democratico, e proprio in una occasione molto importante, l’elezione dei presidenti di Camera e Senato. Quando la situazione appariva ormai bloccata, a causa della mancanza di qualsiasi accordo tra le forze politiche presenti in Parlamento, la coalizione guidata da Bersani ha estratto il coniglio dal cilindro proponendo per le presidenze delle assemblee due personalità di grande prestigio e non appartenenti ad apparati di partito: la terzomondista Laura Boldrini e l’ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Entrambi, alla fine, sono stati eletti. E i cittadini, riconoscenti, ringraziano.
Indubbiamente si tratta di una vittoria per il segretario del Partito Democratico, che negli ultimi giorni era apparso sempre più in difficoltà. L’essere riuscito a imporre due figure di spicco come Boldrini e Grasso, nonché nuove alla politica, è un elemento che, per ora, gioca decisamente a suo favore. Tra l’altro, a Palazzo Madama, si è verificata una situazione imprevista: alcuni esponenti del Movimento Cinque Stelle (i senatori siciliani?) si sono espressi a favore del magistrato palermitano contravvenendo così agli ordini di scuderia che prevedevano di imbucare la scheda bianca. E quasi subito c’è stata la scomunica nei loro confronti da parte del padrone del movimento, Beppe Grillo, il quale ha invitato i “colpevoli” di tale misfatto ad auto-denunciarsi e a trarne le inevitabili conseguenze, vale a dire le dimissioni. Il M5S, in ogni caso, si presenta già spaccato.
Sempre in Senato, il raggruppamento di Scelta Civica, che fa capo a Mario Monti, ha votato compatto scheda bianca. Un atteggiamento del tutto incomprensibile, legato a schemi di vecchia politica. Monti aveva presentato con forza la sua candidatura a presidente del Senato, proposta che era stata ritenuta inopportuna e prontamente bloccata dal Presidente della Repubblica attraverso una decisa opera di persuasione. Il premier infine ha ceduto, ma l’atteggiamento tenuto dal suo gruppo durante la votazione è esecrabile. Chi rappresenta i cittadini in Parlamento è comunque chiamato a decidere, e il non averlo fatto, tanto più in un ballottaggio tra Grasso e Schifani, è degno di biasimo.   
Se da un lato Bersani può cantare vittoria, riguardo alla prospettiva di poter formare un governo la situazione diventa più complicata. L’atteggiamento di chiusura del M5S di sicuro perdurerà. Bersani, se riceverà l’incarico, presenterà in ogni caso le sue proposte, sperando di raccogliere in Parlamento un consenso sufficiente a far nascere il governo. Tale impresa appare al momento alquanto proibitiva. E non si intravedono soluzioni alternative, se non quella di un altro esecutivo tecnico garantito dal Capo dello Stato e con obiettivi limitati nel tempo e nella sostanza. Si potrebbe anche prospettare la possibilità che, a un certo punto, Giorgio Napolitano decida di rinunciare al suo tentativo di dare un governo al Paese e che ceda il compito al suo successore, che dovrà essere eletto tra poco più di un mese. Tra l’altro il nuovo presidente disporrebbe della prerogativa (che Napolitano attualmente non possiede poiché in scadenza di mandato) di poter sciogliere le Camere se si rivelasse impossibile trovare una soluzione per la formazione di un esecutivo. Sorge però spontanea una domanda: quale Presidente della Repubblica, come suo primo atto, manderebbe a casa il Parlamento che lo ha appena eletto?
Ne vedremo ancora delle belle.   

domenica 10 marzo 2013

IL VIGOROSO

L’uomo con il vestito grigio scrolla le spalle e scuote il capo. No, non c’è niente, dice senza parlare. Non ne ha più voglia, di aprire la bocca, di pronunciare parole inutili. Tanto la risposta è sempre la stessa: non c’è lavoro. È stanco, e rassegnato tanto quanto i suoi abituali interlocutori. Spesso gli capita di avere paura. Non è raro che qualcuno si produca in escandescenze, dando così sfogo a rabbia e frustrazione repressi troppo a lungo.. Più di una volta ha temuto per la sua incolumità. Il giovane che gli sta di fronte però non sembra animato da cattive intenzioni. Il suo sguardo è malinconico, è quello di una persona che ormai si è arresa, che da tempo ha smesso di lottare. Nemmeno la collera o il rancore riescono più a farsi strada, a scuotere quel corpo avvilito.
Dario annuisce all’impiegato, poi esce dai locali del Centro per l’impiego, dove ancora sostano in vana attesa tanti disperati come lui. Il ragazzo cammina senza meta per le strade di quella città che gli appare sempre più ostile. Come sempre lo aspetta una giornata vuota, da riempire in qualche modo. Con le mani in tasca, con gli occhi che guardano tutto ma non vedono nulla, si dirige verso i giardinetti. Dove troverà pensionati, giovane mamme con bambini e tanti cani. Lui sarà l’unico corpo estraneo in quell’ambiente, la sola nota stonata.
Dario si ferma a osservare il contenuto di un cestino dei rifiuti. Da un po’ di tempo è preda di quella detestabile debolezza. Non riesce proprio a evitarla. Ovviamente si limita a dare un’occhiata di sfuggita, non tocca mai niente. Oggi decide di fare un’eccezione. Ha visto un quotidiano in buone condizioni spuntare dal contenitore ammaccato e arrugginito. Con due dita lo sfila e se ne impossessa, poi si dirige verso una vicina panchina. Si siede e sfoglia il giornale. In terza pagina un titolo ben evidenziato lo colpisce come una stilettata: “Il tasso di disoccupazione giovanile tocca il 39%.” E ancora: “Quadruplicata la cassa integrazione, dimezzata la domanda di lavoro, peggiorata la qualità dei contratti per i (pochi) nuovi assunti.”
Dario è sempre più abbattuto e depresso. Vorrebbe piangere, ma non ci riesce più. Tutto in lui è arido.
Volta la pagina con un gesto brusco.
“Tra due giorni avrà inizio il Conclave” dice il titolo.

                                                °°°
Alla Taverna de’ Mercanti, in pieno Trastevere, come tutte le sere c’è una grande confusione.
I due cardinali, facendosi largo tra la folla di turisti in attesa di un posto libero per cenare, raggiungono il tavolo che, con l’oculatezza che li contraddistingue, hanno prenotato fin dal giorno precedente.
Si accomodano ed entrambe le sedie scricchiolano e gemono. Poi srotolano i candidi tovaglioli e li fissano sotto gli abbondanti e morbidi doppi menti. Ecco, adesso sono pronti. In giornate scandite da innumerevoli atti cerimoniali, l’ultimo rito quotidiano è stato portato a termine. Ora si mangia. I porporati ritrovano la loro abituale loquacità soltanto dopo aver spazzolato un enorme piatto di bruschette miste, debitamente innaffiate con un fresco vino dei Castelli.
“Allora, Giovanni?” dice il cardinal Scala, ingoiando l’ultimo boccone.
“Eh?” risponde Malvasi, disattento, impegnato a servirsi da bere.
L’altro schiocca le labbra, dirige lo sguardo al soffitto.
“Tutte queste Congregazioni! Tutte quelle discussioni! Alla fine, che cosa abbiamo concluso?”
“Boh!” risponde Malvasi, che cerca di attirare l’attenzione del cameriere.
“È meglio un Papa incline al confronto e dotato di una spiccata vocazione missionaria oppure uno con forte spirito manageriale che possa rivedere quella catena di comando che, negli ultimi tempi, è apparsa così debole? Che ne dici?”
“Eh? Cameriere! Cameriere!”
“In ogni caso la Curia Romana dovrà essere sottoposta a una profonda riforma. Soltanto così la Chiesa sarà in grado di affrontare le sfide che la attendono nei prossimi anni. Saranno sempre più in primo piano i temi internazionali e le questioni geo-politiche, senza dimenticare la crescente crisi di vocazioni, per quale si dovrà trovare un rimedio, e gli strascichi legati agli scandali…”
Arriva finalmente il cameriere.
“Scusa se ti interrompo, Ludovico. Per me lombatina di vitello, tu che prendi?”
“Mmm… quaglie alla diavola!” dice Scala, compiaciuto, strizzando un occhio al collega. Il cameriere si allontana.
“Stavi dicendo?” domanda Malvasi.
“In realtà stavo elencando i temi che avremmo dovuto affrontare nel corso degli scambi di idee con gli altri cardinali ma che invece non abbiamo toccato.”
“Già. Ciò è sorprendente ma non del tutto.”
“Ti riferisci a quell’unica questione che è emersa?” chiede Scala.
“Diciamo pure che è prevalsa” risponde il collega, dolente.
“La teoria del Papa Vigoroso! L’unico in grado di riformare la Chiesa, a detta di quasi tutti.”
“Ho avuto l’impressione che noi due fossimo gli unici a non essere d’accordo.”
“La tua valutazione è corretta. Siamo in netta minoranza.”
Arrivano i piatti, ai quali i due porporati si dedicano in religioso silenzio. Poi riprende la conversazione. Scala e Malvasi sono paonazzi in viso, le povere sedie stridono sempre più.
“È come se tutti fossero rimasti annichiliti e annientati dall’inaspettata decisione di Joseph” dice Malvasi.
Scala sospira a lungo prima di rispondere.
“Sai che negli ultimi tempi gli sono stato molto vicino…”
“Allora? Avevi intuito qualcosa?”
“Forse sì, anche se non avevo dato troppa importanza ad alcuni particolari.”
“Vale a dire? Ehi! Cameriere!”
“Spesso mi diceva di essere stanco. Una fiacchezza dello spirito ma soprattutto una enorme spossatezza fisica. Pensa che una volta l’ho sorpreso a sfogliare un vecchio album di fotografie.”
“Cioè?”
“Ritraevano Karol sugli sci, in piscina. E sui sentieri di montagna.”
“Eh! Il vecchio Karol! Cameriere! Ci può portare il dolce? Tozzetti con vin santo per entrambi! Dico bene, Ludovico? ” L’altro conferma.
“Ci dobbiamo rassegnare. Anche se non voteremo per lui, il cardinale Salinas sarà comunque eletto Papa. Tu lo conosci bene?”
“Per niente. Non ho mai avuto alcun contatto con lui.”
“È anche tanto giovane.”
“Troppo. Che ne dici di incontrarlo in privato?”
“Quando?” dice Malvasi, intingendo un biscottino nel vino.
“Non ci rimane molto tempo. Domani.”
Il collega approva, poi afferra un altro dolcetto. Si lecca le labbra e lo tuffa nel bicchiere.

                                                °°°
Tutto è grigio. Il cielo, il selciato, i grandi e anonimi palazzi di quella squallida periferia. È grigia la sua anima.
Dario si avvicina a un portone dalla vernice scrostata. Preme un campanello, uno dei pochi rimasti intatti. Dal balcone del secondo piano si affaccia una ragazza. Bionda, minuta, indossa una tuta sportiva stinta.
“Aspetta, scendo un attimo” dice, con una voce dal timbro acuto. Dopo pochi minuti è di fronte al suo ragazzo.
“Non volevo disturbarti” dice Dario, dopo aver scambiato con lei un frettoloso bacio.
“Non importa. Che cosa vuoi?”
“Niente, passavo di qua e ho pensato di salutarti.”
“Per quale motivo passavi di qua?” lo incalza la ragazza.
Dario alza le spalle. Non sa che rispondere.
“Ti volevo chiedere se stasera usciamo” dice infine.
“Non mi potevi telefonare?”
“Perché sprecare denaro quando si dispone di tanto tempo?”
“Già. Il fatto è che io di tempo ne ho molto meno. Dove mi vorresti portare?”
“Portare? Perché ti esprimi in questo modo? Io non porto nessuno! Al limite ci andiamo insieme.”
“Dario, falla finita! Allora, dove andiamo stasera? Cinema, teatro? Qualche festa?”
“Uh? No, avevo pensato a una passeggiata in centro. Sai, i soldi…”
“Dario, adesso devo proprio andare. Mia zia mi aspetta per finire il lavoro. Perché non ci rivediamo tra qualche giorno? O tra qualche mese… Forse nel frattempo avrai trovato un’occupazione, e saremo entrambi più sereni.”
“Giulia, aspetta! Vuoi dire che tra di noi è tutto finito?”
“Ne discuteremo la prossima volta. Sono davvero in ritardo. Ciao Dario!”
La ragazza rientra nel palazzo. Il giovane rimane immobile di fronte all’androne, a bocca aperta. Incapace di reagire, colto da un gran senso di nausea. Si volta e si allontana, trascinando i piedi.
Tutto è sempre più grigio.

                                               °°°
L’albergo, all’esterno, appare piuttosto fatiscente. All’interno, alquanto equivoco.
"Salinas non ha voluto gravare troppo sulle finanze del Vaticano" dice Scala.
"Già" risponde Malvasi guardandosi attorno disgustato.
I due cardinali attraversano circospetti l’atrio polveroso e si avvicinano al banco. Un uomo li riceve con un cenno di saluto tutt’altro che amichevole.
“Prego?” sibila.
“Dovremmo parlare con l’arcivescovo Salinas” esordisce Scala, un po’ intimidito dall’ambiente.
“Il signor Salinas non desidera essere importunato. Ho già dovuto cacciare un sacco di giornalisti e altri ficcanaso.”
Malvasi sospira a lungo, poi decide di prendere in mano la situazione.
“Mi ascolti bene, signore. Noi siamo colleghi del cardinale Salinas. Abbiamo un appuntamento con lui, capito? Lui intende riceverci. Sono stato chiaro?”
L’altro lo guarda in malo modo, poi acconsente.
“Vi faccio accompagnare da lui. Ambra! Ambra! Vieni subito qui!”
Arriva una donna, vestita in maniera molto appariscente. Indossa una camicetta attillata, senza maniche, e una gonna molto corta che mette in evidenza le lunghe gambe, nude.
“Porta questi due signori dal loro collega Salinas” ordina il portiere.
“Da Pedro? Davvero lavorate con lui? Di che cosa vi occupate?” civetta la donna.
“Siamo pastori” dice Scala.
“Pastori?” domanda la donna, incredula.
“Di anime” aggiunge Malvasi.
“Ah! Seguitemi, Pedro è di sotto.”
Il terzetto percorre lunghi corridoi puzzolenti. Poi, con un traballante ascensore, scendono nell’interrato.
“Pedro è nello spazio benessere” spiega la donna ai due porporati. I quali annuiscono senza comprendere. Sono completamente frastornati.
“Ecco, siete arrivati. Pedro è laggiù” dice la donna, prima di congedarsi scuotendo i fianchi.
Nel locale c’è poca luce, il soffitto è basso e l’aria è viziata. Nella penombra i due cardinali intravedono un uomo robusto disteso su una panca ginnica. Sta eseguendo dei sollevamenti con un pesante bilanciere. Indossa una maglietta e dei pantaloncini. I muscoli delle sue braccia sono ingrossati per lo sforzo, e fanno risaltare la pelle bruna ricoperta da minuscole gocce di sudore.
“Il Papa Vigoroso!” sussurra Scala, non riuscendo a nascondere il suo stupore.
“Ludovico, andiamocene via. Qui non abbiamo niente da fare. E nulla da dire.”

                                                  °°°

Ancora un giorno trascorso a girovagare per la città. Quella città che lo respinge, che non ha un posto per lui.
Dario è stanco, deluso e sempre più amareggiato. Rientra a casa e si butta sul vecchio divano sfondato. La televisione è accesa, sua madre sta assistendo all’esito della prima votazione del Conclave. Le telecamere indugiano sul camino, dal quale dovrebbe uscire a breve la fumata. Piazza S. Pietro è gremita, la folla è in febbrile attesa. Da giorni si ipotizza un Conclave di breve durata, tuttavia è difficile che il nuovo Pontefice sia scelto già al primo voto. Squilla il telefono.
“Rispondo io” dice la donna, e si dirige nell’ingresso.
Dario annuisce, riconoscente. In ogni caso non avrebbe avuto la forza per alzarsi. Continua a fissare lo schermo, come ipnotizzato. All’improvviso l’inquadratura si stringe proprio sul camino, dal quale esce un sottile filo di fumo. Bianco.
“Mamma! Fumata Bianca! Hanno eletto il Papa!” esclama Dario. Lui stesso non sa spiegarsi questo suo sorprendente entusiasmo. Del Papa non gli è mai importato nulla.
“Vieni a vedere! Mamma!”
“Un attimo. Sono al telefono!”
Trascorrono alcuni minuti. Poi il nuovo Pontefice finalmente si affaccia. Sembra giovane, e sicuro di sé.
“Mamma, sbrigati!”
“Un momento! Arrivo!”
La donna entra nel soggiorno mentre il cardinale Salinas, ora divenuto Sua Santità Pio XIII, pronuncia le sue prime parole.
“Mamma, che fai? Stai piangendo? Piangi perché hanno eletto il nuovo Papa?” chiede Dario, turbato.
Sua madre scuote il capo.
“Al telefono era Ghisleri. Mi ha detto che ti assumeranno. Dario, hai un lavoro!”
Il ragazzo si volta verso lo schermo televisivo. Anche i suoi occhi sono diventati lucidi. Vuole nascondere la sua fragilità, attendere che si trasformi in gioia prima di incrociare di nuovo lo sguardo di sua madre. Scorge il nuovo Papa nell’atto di benedire. Un gesto che sembra rivolto esclusivamente a lui. Dario riesce a ritrovare il sorriso quando scorge i pettorali magnificamente scolpiti del Pontefice che gonfiano la talare immacolata fin quasi a lacerarla.