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giovedì 28 febbraio 2013

TUTTI SCONFITTI, O QUASI...



Alla fine hanno perso tutti. Oppure hanno vinto quasi tutti?
Il Partito Democratico ha perso, non c’è dubbio. Il povero Bersani ha preso una botta dalla quale difficilmente si riprenderà. Era il favorito, eppure non ha vinto. Ma non ha perso del tutto, dal momento che la coalizione da lui guidata ha conquistato alla Camera il premio di maggioranza (regalo del Porcellum). Tuttavia al Senato ha perso. Il centro-sinistra ha ottenuto il maggior numero di senatori rispetto alle altre forze, ma non la maggioranza assoluta, e senza quella non si governa. Neppure se ci aggiungi i centristi.
I centristi significa Monti. E Monti ha perso, non c’è dubbio. È salito in campo, ha condotto una campagna elettorale scriteriata e sconcertante, attaccando tutto e tutti, si è scrollato di dosso la proverbiale flemma (smarrendo nel contempo autorevolezza e ruolo terzo) e alla fine ha ottenuto molto meno di quanto sperasse. Non potrà essere l’ago della bilancia, come auspicava. Comunque un po’ ha vinto, visto che il suo era un partito costruito in tutta fretta appena un mese prima delle elezioni. E qualche voto lo ha preso, a differenza dei due compari di avventura (di sventura?), Casini e Fini, i cui partiti si sono sbriciolati. Casini però ha vinto, perché lui e qualcuno dei suoi sono stati ripescati (quali migliori perdenti…). Fini invece no, lui ha proprio perso . E di brutto. Niente più scranno rosso per le sue terga, ma soltanto la pensione. Andare in pensione, al giorno d’oggi, può in ogni modo essere ritenuta una vera fortuna. Che un pochino abbia vinto pure lui, il traditore?
Grillo con il suo (di proprietà) Movimento Cinque Stelle non solo ha vinto, ma ha trionfato. Non c’è alcun dubbio. Tuttavia una forza politica che ottiene una tale affermazione ha l’obbligo di candidarsi a governare, altrimenti che ci sta a fare? Deve assumersi delle precise e serie responsabilità. Non pare sia questa la linea del comico, forse sorpreso lui stesso dall’entità del successo e di conseguenza apparso un po’ confuso. Che fare? Boh! Meglio non fare nulla e aspettare, chissà… Se continua così, sarà come aver perso.
E Berlusconi? Ha perso, senza il minimo dubbio. Rispetto alle precedenti consultazioni ha lasciato sul terreno sei milioni di voti. Un autentico disastro. Il suo alleato storico, la Lega, ha dimezzato la sua forza (anche se ha vinto, avendo ottenuto il governo della Lombardia). Eppure persino il vecchio Berlusconi in fondo ha vinto poiché, attraverso le sue solite ingannevoli promesse, ha raggiunto il suo obiettivo, l’unico possibile: rendere ingovernabile il Paese che ama…
Invece hanno perso, senza appello, il misero Ingroia, il leader pallido, il rivoluzionario dal tono stanco e dimesso e ancora di più il compagno di cordata Di Pietro (nonché comunisti e verdi). Sono rimasti tutti fuori dal Palazzo, allo stesso modo del tapino Giannino, l’uomo dai millantati (e inesistenti) titoli accademici.
Ultima amara considerazione: gli elettori ingenui, sprovveduti, stupidi, ottusi, gonzi, imbecilli e mentecatti non sono più il trenta/quaranta per cento del totale, ma sono diventati maggioranza assoluta nel Paese. Sarebbe a dire che stavolta siamo davvero fottuti.

sabato 23 febbraio 2013

ULTIMO APPELLO



Ci siamo, finalmente il momento del voto è arrivato. Ieri è terminata la campagna elettorale, ed ora è il tempo della riflessione conclusiva prima della scelta per chi è ancora indeciso, e della determinazione finale per chi non ha mai avuto dubbi.
Nella tormentata storia del nostro Paese poche consultazioni elettorali sono state importanti come quella di domenica e lunedì. È in gioco la tenuta del sistema democratico, il futuro stesso della nazione.
La campagna elettorale, pur breve, è stata intensa e aspra. Proprio come ci si aspettava. I diversi candidati in lizza, per ragioni opposte e non sempre condivisibili, hanno rifiutato ogni confronto diretto, preferendo invece ripetere fino alla nausea i loro programmi, le loro intenzioni, le loro promesse, i loro triti slogan.
Adesso, in ogni caso, tutti tacciono e la parola spetta agli elettori. Ai cittadini, a tutti noi.
Occorre essere consapevoli del fatto che ci troviamo in una situazione di emergenza. Di fronte a tale contingenza è necessario conservare i nervi saldi e la mente sgombra. Ricorrere alla razionalità e al buon senso.
In primo luogo occorre discriminare. Non è assolutamente vero che tutti i partiti e i politici siano uguali. Questo è ciò che vorrebbe far credere chi punta alla disgregazione e al disfacimento, chi ritiene di poter trarre vantaggi dalla confusione e dal caos. Eventi possibili e probabili ma, a questo punto, ancora evitabili. Prima che sia troppo tardi.
L’offerta politica, stavolta come non mai, è piuttosto varia, e ciò contribuisce ancora di più a far aumentare il disorientamento tra gli elettori.
Abbiamo: ex comici urlatori e populisti, vecchi satiri imbolsiti, secessionisti non più duri e puri, economisti di rilievo trasformati in comuni politici, i soliti quattro gatti fascisti, qualche bigotto baciapile, giustizialisti superficiali e idealisti, liberali bugiardi. E il solito centro-sinistra, che forse nel Paese questa volta è maggioranza, seppure relativa. Che forse, ancora una volta, non brillerà nella sua eventuale azione di governo. Che potrebbe ridiventare litigioso, ma forse anche no. Che di sicuro, comunque, non porterà l’Italia allo sfascio. Che, a differenza di tutti gli altri, appare sì un po’ grigio ma normale. Ecco, probabilmente è proprio di questo che abbiamo bisogno: di un ritorno alla normalità.    

giovedì 21 febbraio 2013

PUPILLE VERDI




Pupille verdi

Mi specchio in voi

Mi perdo in voi

Pupille verdi

Sguardi intensi

Sguardi smarriti

Dolci pupille verdi

sabato 16 febbraio 2013

VORREI MA NON POSSO



Potevo fare qualcosa ma non l’ho fatto. Più ci penso e ci ripenso e più mi rendo conto che un mio intervento avrebbe potuto modificare il corso degli eventi. Invece ciò non è avvenuto. Da parte mia non c’è stata alcuna iniziativa in tal senso. In una circostanza del genere sarebbe stato necessario mostrare rapidità di decisione e, soprattutto, grande tempestività nell’agire. Così non è stato, perché i miei riflessi sono stati lenti, e la mia mente intorpidita mi ha impedito di reagire in maniera pronta ed efficace. L’istinto non è riuscito a prevalere. Ormai non posso più porre rimedio, e sarò condannato a rivivere per sempre quelle brevi e concitate fasi, a tormentarmi per il rimorso, senza che nulla possa più mutare. E maledire, per ciò, la mia inadeguatezza all’azione.
Sono una persona tranquilla, che mai si vorrebbe venire a trovare in situazioni difficili. So bene di non essere attrezzato per fronteggiarle, conosco alla perfezione i miei limiti e le mie debolezze. Non amo, pertanto, essere messo alla prova. Preferisco, al contrario, fare di tutto per evitare di incappare in contesti che non sia in grado di padroneggiare, che possono facilmente sfuggire al mio controllo.
Questa volta le mie abituali precauzioni si sono rivelate inutili. Il fatto è che non mi sarei dovuto trovare su quell’automobile in quel momento. Se io non fossi stato presente il fatto non sarebbe accaduto. Ne sono quasi certo. Sono convinto che sia stata la mia presenza a bordo della vettura a provocare, in modo del tutto involontario, quel lieve squilibrio che ha causato la tragedia. Mi riferisco a una instabilità emotiva, ovviamente. In ogni caso, se io non ci fossi stato non sarei mai venuto a conoscenza di quel fatto, anche se si fosse verificato ugualmente. Invece c’ero, e lo ricordo bene.
Questa automobile è strana. In apparenza sembra una comune berlina, nel senso che le sue dimensioni non sono insolite. Nell’abitacolo, invece, sono sistemati tre ordini di sedili. Lo spazio tra l’uno e l’altro è molto ridotto. Io sto seduto da solo nella fila di mezzo. Alla guida c’è un ragazzo. Altri due giovani sono accomodati in fondo. Si tratta di un ragazzo e di una ragazza. Tutti loro paiono ignorare la mia presenza. I due giovani dietro di me hanno le mani intrecciate e si guardano negli occhi con grande intensità. Non parlano. Li osservo, in modo diretto, e due particolari mi colpiscono. Le dita delle loro mani sono sporche. Il sudiciume che le ricopre è quello peculiare di chi non si lava. Loro, tuttavia, non sembrano dare alcuna importanza a quell’aspetto che, in parte, suscita in me un certo disgusto. No, loro continuano a scambiarsi effusioni e tenerezze. Poi, i lineamenti dei loro visi: sono grossolani, appena abbozzati, sgradevoli. Insomma, quei due ragazzi sono decisamente brutti.
L’auto sfreccia veloce attraverso la notte. Attorno a me scorrono luci e ombre. La musica, ad alto volume, mi assorda e mi impedisce di pensare. Suoni gitani.
All’improvviso il ragazzo alla guida alza il piede dall’acceleratore. Si volta verso di me e mi sorride. Poi abbassa l’audio della radio, completamente. Subito l’altro giovane si stacca dalla ragazza e infila una mano nella tasca della giacca. Si sente il rumore di uno scatto metallico. Compare un coltello dalla lama sottile e molto affilata, saldamente impugnato. Lui si alza dal sedile e si sporge in avanti. Comprendo al volo quali siano le sue intenzioni, ma non intervengo. Potrei interporre il mio corpo, oppure tentare di bloccare il suo braccio, ma rimango immobile, come pietrificato. Il ragazzo colpisce l’autista, più volte. Prima nella schiena, poi sul petto. La lama affonda con estrema facilità, immediatamente scorre il sangue. L’altro, incredulo, non emette alcun suono. Tenta di ripararsi da quei tremendi fendenti, invano. Alla fine si accascia sul volante, e l’auto si arresta sul bordo della strada. Il mio sguardo si incrocia con quello dell’assassino. Ho paura. Lui schiocca le labbra poi, con un cenno, mi indica lo sportello dell’automobile. Annuisco e aziono la maniglia. Esco e mi allontano nel buio. Ho tanto freddo. 

martedì 12 febbraio 2013

FULMINI A S. PIETRO



Nella giornata di ieri due fulmini si sono abbattuti su Piazza S. Pietro. Uno reale, l’altro metaforico. Ed è quello simbolico che ha suscitato più stupore, tanto che il cardinale Sodano, del tutto preso alla sprovvista dall’incredibile evento, profondamente turbato e sconvolto, lo ha definito in maniera del tutto impropria risuonante.
Il Papa aveva appena annunciato le sue prossime dimissioni. Una rinuncia, apparsa sofferta e dolorosa, motivata dall’eccessivo peso dell’incarico, dalla consapevolezza di un’età ormai avanzata, dal venire meno delle forze necessarie per una tale gravosa incombenza. Le vere ragioni del gran rifiuto potrebbero anche essere altre, una tra tutte la malattia, per esempio.
Ciò che veramente importa sono tuttavia le conseguenze di questa inaspettata decisione. La Chiesa di Roma è senza una guida, in un momento difficile, come difficili sono stati gli ultimi anni, tra scandali in parte denunciati e in parte soffocati, e infiniti scontri di potere nei palazzi vaticani.
E quindi Ratzinger ha detto basta. Non ritiene di avere più le energie, mentali e soprattutto fisiche, per contrastare queste spinte che, inevitabilmente, causano disgregazione nella millenaria istituzione e suscitano perplessità e disorientamento tra i fedeli.
Il Papa dunque si ritira. Si dedicherà alla preghiera, alla meditazione, alla passione per gli studi teologici e per la scrittura. Al pianoforte. Dovrà forse curare il suo corpo malato, oppure soltanto stremato.
A breve ci sarà il nuovo Conclave. Uno Spirito Santo un po’ incredulo, magari pure un po’ irritato, dovrà di nuovo scomodarsi per illuminare i cardinali chiamati a scegliere il successore di Pietro.
Il vecchio Papa, quello dimissionario, sarà presto dimenticato. Da ieri, di lui si parla come se fosse morto. Tra pochi giorni i riflettori di tutto il mondo saranno indirizzati sui candidati alla sua sostituzione. Si invocherà, come sempre avvenuto in queste occasioni, l’avvento di un Papa nero, rosso o giallo. Oppure - perché no? - addirittura verde. Come se questa potesse essere la soluzione a tutti i mali della Chiesa. Colpe e limiti che, invece, continueranno a persistere.
A meno che si avveri l’antico vaticinio del profeta Malachia. Dopo il Papa della rinuncia ci sarà soltanto un altro Papa, l’ultimo, che lui chiama Petrus Romanus.
L’ultimo prima di che cosa? 

domenica 10 febbraio 2013

LA SANZIONE



Stava con il naso incollato al vetro della grande finestra, al trentaduesimo piano dell’imponente e lussuoso palazzo. La spessa cappa di smog si diradò per un attimo e lui riuscì a scorgere, in basso, l’ampio viale brulicante di automobili e di persone, queste ultime affaccendate e frenetiche come tante formiche. Nell’ufficio non penetrava alcun rumore, neppure smorzato, e l’atmosfera era di quiete assoluta.
L’uomo si sedette alla sontuosa scrivania, ne osservò compiaciuto il piano del tutto sgombro di carte. Sospirò, poi accese un sigaro. Ne aspirò soddisfatto alcune boccate e inondò l’ambiente di fumo. Proprio in quel momento squillò l’interfono. Premette un tasto.
“Sì? Dimmi Melody…”
“Ingegnere, ma io mi chiamo Franca…”
“Preferisco chiamarti Melody. Allora?”
“Come vuole lei, ingegnere. C’è il dottor Boschi, vorrebbe parlare con lei.”
“Riccardo? Il mio amico Riccardo? E c’è bisogno di farsi annunciare? Accompagnalo subito da me!”
“D’accordo, ingegnere.”
Dopo qualche istante il dottor Boschi, scortato da una vistosa ragazza, fece il suo ingresso nell’ufficio dell’ingegner Rusconi. Il nuovo venuto, un ometto stempiato infagottato in un abito grigio, appariva un po’ timoroso. Si guardò intorno, circospetto, poi si accomodò su una comoda poltrona, tenendo le mani raccolte in grembo. Era il responsabile della contabilità di tutte le aziende dell’ingegnere ma, al cospetto del potente principale, si sentiva sempre come uno scolaretto al suo primo giorno di scuola.
Rusconi lo squadrò a lungo, poi annuì.
“Un sigaro?” domandò.
“No, grazie. Sai che non fumo…”
“Davvero? Me n’ero scordato. Qualcosa da bere? Melody, vai a preparare due caffè!”
“Certo ingegnere. Però il mio nome…”
“Ancora? Abbiamo già affrontato la questione, no? Sbrigati!”
La ragazza chinò il capo e uscì, ancheggiando suo malgrado.
“Bella ragazza” disse il dottor Boschi, per rompere il ghiaccio. “E deve essere pure brava” aggiunse.
Rusconi scoppiò a ridere.
“Brava? Non sa fare nulla!”
“Ma allora…”
“L’ho assunta perché è ornamentale.”
“Ah!”
Poi l’ingegnere assunse un’espressione seria.
“Novità?” domandò in modo brusco.
Boschi, prima di rispondere, inghiottì un po’ di saliva.
“C’è stata l’ispezione degli uomini del fisco.”
“Bene. Com’è andata?”
“Hanno scoperto quella parte di contabilità in nero. Solo quella, ovviamente.”
“Ottimo, proprio ciò che volevo.”
Il dottor Boschi approvò senza capire.
“Se non fossimo stati avvertiti sarebbe stato un vero guaio” disse.
“Prima o dopo doveva capitare. Adesso per un po’ ci lasceranno in pace.”
“Posso fare una domanda un po’ delicata?”
“Riccardo! Non lo devi neppure chiedere. Tra di noi non ci sono segreti!”
“Non era facile scoprire quelle operazioni illegali, e loro sapevano esattamente che cosa cercare. Chi è stato a fornire quei particolari?”
L’ingegner Rusconi ammiccò, sornione. Poi soffiò una enorme nube di fumo puzzolente in direzione del contabile, che non riuscì a trattenere un accesso di tosse.
“Semplice! Lo stesso che li ha mandati, vale a dire io!”
“Tu?”
“Certo! Non potevamo continuare ad apparire sempre virtuosi. Ciò, alla lunga, avrebbe alimentato troppi sospetti. In una azienda come la mia è normale che ci possa essere qualche irregolarità. Ci dimostreremo pentiti di fronte alle istituzioni, onoreremo il nostro debito, e tutto il resto potrà continuare come prima. Era questo, in realtà, il vero obiettivo.”
“Già, hai ragione. Tuttavia ci sarà una sanzione da pagare.”
“Naturale. E lo faremo, da buoni cittadini. Chi sbaglia paga, no?”
“Abbiamo ricevuto una convocazione dall’Ufficio Centrale del Fisco per discutere la faccenda e definirla. Che faccio? Dico all’avvocato Sbrogli che se ne occupi lui?”
“No!”
“No?”
“Ci andrò di persona, in quel cazzo di Ufficio…”
“Tu? Stai parlando sul serio?” domandò Boschi, piuttosto meravigliato.
L’ingegnere, prima di rispondere, spense il sigaro.
“Certamente, mio caro Riccardo. Sai, a volte mi annoio terribilmente, perché non ho mai nulla da fare. Guarda la mia scrivania, è del tutto vuota! Da anni ormai…”
Proprio allora la segretaria portò i caffè. Il contabile osservò con vivo interesse il posteriore della ragazza, fasciato in un abito aderente.
“Posa qui, Melody” disse brusco Rusconi. “E poi sgomma in fretta che ci stai disturbando. Sciò!”
“Subito, ingegnere…” disse lei, umiliata.
“Ah! Melody! Chiama Aurelio e digli di venire a prendermi tra mezz’ora. Questo lo sai fare, vero?”
La ragazza, sempre più mortificata, annuì e uscì.
“Perché la tratti così male?” chiese il dottor Boschi al suo principale.
L’altro sbuffò, infastidito.
“Ha parlato il paladino delle povere fanciulle indifese! Riccardo, se ti piace così tanto questo modello di donna, perché non te ne compri una? Con tutti i soldi che ti becchi! Taccagno! Vergogna!”
Il viso di Boschi diventò color porpora. L’uomo si rannicchiò nell’enorme poltrona, spaventato.
“Forse è il caso che io vada…” sussurrò.
“Eh? Come dici? Guarda che sono io che ti congedo.”
“Certo, certo…”
Boschi si alzò e, quasi strisciando, raggiunse l’uscita. Rusconi scosse il capo, sconsolato. La maggior parte dei suoi dipendenti erano dei veri buoni a nulla, uomini senza spina dorsale, considerò.
Dopo meno di mezz’ora l’ingegnere stava con il naso incollato al finestrino della lussuosa berlina blindata. Aurelio, il suo autista, cercava di farsi largo in mezzo a un traffico infernale di mezzi, di pedoni e di ombre. Il mantello di smog si era abbassato ed era molto fitto. Anche se era ancora giorno, la vettura procedeva con tutti i fari accesi, nel faticoso tentativo di aprirsi una strada di luce attraverso quell’ambiente da incubo, al quale tutti sembravano comunque assuefatti.
L’ingegner Rusconi azionò l’interfono dell’automobile.
“Aurelio, è così tutti i giorni? In queste strade, dico…” domandò all’autista.
“Uh? Da quanto tempo non esce dal suo quartiere, ingegnere?”
“Non lo so, non ricordo più. Lo sai, quando occorre mi sposto con l’aereo, o con l’elicottero.”
“Già.”
La macchina procedeva lentamente. Rusconi si sforzava di mettere a fuoco quelle figure che, all’improvviso, apparivano di fronte a lui per poi scomparire inghiottite dalla nebbia spessa e lurida.
“Ehi! Che ci fanno tutte quelle persone sedute sui marciapiedi?”
“È gente senza lavoro che chiede l’elemosina, credo.”
“Dici? A me sembrano tanti sfaccendati. Possibile che non riescano a trovare un’occupazione? Ti pare dignitoso per un essere umano trascorrere la giornata in strada?”
L’autista diede un’occhiata nello specchietto retrovisore. Intendeva capire se il suo principale stesse celiando oppure parlando seriamente. Decise per la seconda ipotesi.
“Pare che lavoro per tutti non ci sia…” rispose infine.
“Eppure le mie aziende stanno continuando ad assumere…” obiettò l’ingegnere.
“Già, le vostre…”
“In ogni caso si tratta di uno spettacolo indecoroso! Quella gente non potrebbe almeno starsene a casa?” sbottò Rusconi.
“Non credo abbiano una casa” disse l’autista.
“Com’è possibile non avere una casa? Tutti hanno una casa!”
“Forse non proprio tutti…”
L’ingegner Rusconi, con stizza, spense l’interfono.
Dopo pochi minuti la vettura si arrestò di fronte all’ingresso principale dell’Ufficio Centrale del Fisco, un palazzo grigio e fatiscente. In paziente coda, in prossimità di un ingresso laterale, c’era una moltitudine di persone. L’ingegner Rusconi rivolse loro uno sguardo distratto, poi entrò nel portone dove trovò ad attenderlo un impiegato dell’amministrazione del fisco.
“Di qua, ingegnere” disse l’uomo. “Dov’è la vostra scorta?” aggiunse.
Rusconi si bloccò.
“Non ho bisogno di nessuna scorta” disse. “Che cosa dovrei temere?”
“All’interno del palazzo… nulla. Mi scusi, ingegnere. Prego, venga con me.”
“Chi è quella gente in fila? Fuori, dico…” domandò Rusconi.
“Quelli? Si tratta di contribuenti comuni che devono regolare pendenze con il fisco” rispose il solerte impiegato.
“Ma li ha visti? Sono vestiti di stracci!”
L’altro non rispose, si limitò a stringersi nelle spalle. Poi guidò l’ingegnere attraverso una selva di corridoi. Ovunque c’era umidità e odore di muffa. Alla fine i due giunsero di fronte alla porta di un ufficio, priva di maniglia e con il vetro incrinato.
“Prego, il direttore la sta aspettando…” disse l’impiegato, prima di socchiudere l’uscio e introdurre il visitatore.
L’interno dell’ufficio era freddo e buio. Seduto dietro a una minuscola scrivania c’era un uomo intento a esaminare un fascio di carte sotto la luce gialla di una vecchia lampada da tavolo. Indossava un pesante giaccone sgualcito in più punti. Sollevò lo sguardo verso l’ingegner Rusconi.
“Si accomodi” disse in tono stanco e piatto.
Rusconi emise un lieve grugnito di disapprovazione prima di sedersi su una scricchiolante sedia di legno posta di fronte alla scrivania.
“Buongiorno, ingegnere. Non mi aspettavo venisse proprio lei…”
“È un problema?” disse Rusconi, aggressivo.
“No, assolutamente. Il fatto è che - come può ben vedere - le nostre stanze non sono molto accoglienti. Sarebbe stato nostro desiderio riceverla in un ambiente più…”
“Non perdiamo tempo!” lo interruppe Rusconi. “Mi rendo conto di quanto questo posto sia schifoso. Mi chiedo come possiate fare il vostro lavoro in tali condizioni!”
Il direttore approvò.
“Lo Stato è sempre più povero, tuttavia noi cerchiamo di compiere ugualmente il nostro dovere con i pochi mezzi a nostra disposizione.”  
L’ingegner Rusconi scosse il capo, incredulo.
“Ma è pazzesco! La nostra nazione è tra le più ricche al mondo!” sbraitò.
“È vero” approvò l’altro. “Nel nostro territorio è concentrata una notevole fetta di ricchezza planetaria.”
“Quindi?” lo incalzò Rusconi.
“Lasciamo stare, ingegnere. Piuttosto, pensiamo a noi. Stavo appunto esaminando la questione delle sue aziende…”
“Allora? È possibile concordare subito la sanzione?”
Il direttore lo guardò, poi fece una smorfia.
“Non è prevista alcuna sanzione” disse.
Rusconi sorrise.
“Vuol dire che ci perdonate?” chiese, divertito.
“Non proprio. In casi del genere le nuove norme appena approvate non prevedono più pene pecuniarie.”
“Quali nuove norme?” domandò l’ingegnere.
“Mi scusi, ma non ha parlato con il suo avvocato prima di farci visita?” indagò il direttore, guardingo.
“Al diavolo l’avvocato! Sono in grado di occuparmi personalmente di qualsiasi questione che riguardi le mie aziende senza dover ricorrere a quei succhiasangue! Sono o non sono il più grande imprenditore di questo Paese?”
“Non lo metto in dubbio. In ogni caso dovremo applicare la nuova legge, nella sua universalità.”
“Eh?”
“Intendevo dire che la legge è uguale per tutti” precisò il direttore.
“Ah! Certamente. Vede, negli ultimi tempi non ho seguito molto le varie vicende politiche. Ovviamente ho saputo della vittoria di quello strano partito progressista alle ultime elezioni, ma ormai gli affari pubblici non mi appassionano più…”
“Capisco la sua posizione, tuttavia finché la politica eserciterà un’influenza nella vita di tutti noi ne dovremo tenere conto.”
“Sono d’accordo, mi piace essere considerato un cittadino consapevole e responsabile” disse Rusconi, che non riusciva più a celare una certa impazienza. Spesso sbirciava il lussuoso orologio d’oro che portava al polso.
Il direttore fu scosso da un brivido di freddo. Annuì, poi riprese le carte tra le mani. Le esaminò per qualche istante, quindi sollevò lo sguardo verso il suo inquieto interlocutore.
“Non le voglio far perdere ulteriore tempo, ingegnere. In caso di lievi violazioni del codice tributario, e mi riferisco a quanto rilevato dagli ispettori nelle sue aziende, è prevista una punizione alternativa.”
“Venga al sodo, direttore!”
“D’accordo. Lei, in qualità di presidente della holding che porta il suo nome, dovrà ospitare per un anno dieci senzatetto e provvedere a tutte le loro necessità. La legge tra l’altro prevede che gli ospiti soggiornino nell’abitazione del sanzionato o in locali immediatamente attigui. Quest’ultimo rappresenta l’aspetto… rieducativo della norma. Almeno, così ha lasciato intendere il legislatore.”
“Sta scherzando?” domandò l’ingegner Rusconi, il cui viso era diventato paonazzo.
“Assolutamente no.”
“Mi ritroverò un branco di puzzolenti straccioni per casa per un intero anno?” strepitò Rusconi.
“Mi perdoni, ingegnere. Credo che lei disponga di stanze da bagno e che sia in grado di fornire abiti dignitosi ai suoi futuri ospiti…”
“E se decidessi di non accettare questa… sanzione?” chiese Rusconi.
Il direttore scosse il capo.
“L’alternativa è il carcere. Un anno di reclusione, senza la concessione di alcuna attenuante.”
Rusconi, nonostante il freddo, stava sudando.
“Qual è lo scopo di tutto ciò?” domandò, soprattutto a se stesso. “Perché tormentare in questo modo la parte sana del Paese, l’unica produttiva, la sola che può garantire prosperità alla nazione?”
“E lo chiede a me?” disse il direttore. Si accorse di avere le mani ghiacciate.


giovedì 7 febbraio 2013

LA LETTERA



Uscì dal bar che era quasi mezzogiorno. Si fermò sul bordo della strada, accecato dalla luce del sole. Abbassò lo sguardo. Non c’erano dubbi: vedeva tutto doppio. Sogghignò tra sé, divertito. Sempre stando immobile, respirò profondamente, più volte. Poi si incamminò verso casa. Dopo pochi passi, dovette ricacciare in gola un rigurgito di vino acido, ma non si scompose più di tanto. Poco per volta riacquistò il controllo del proprio corpo e continuò a camminare, seppure in maniera scomposta, sbandando e inciampando spesso. Faticava e sudava ma, nello stesso tempo, provava una sensazione di grande leggerezza. I sensi erano attutiti: percepiva in modo smorzato, come provenissero da molto lontano, i rumori del traffico; la vista continuava a essere annebbiata, confusa. Tuttavia non sbagliò direzione, una sorta di pilota automatico lo guidava lungo la strada del ritorno. Ben presto intravide, ancora in lontananza, il profilo della propria abitazione. Una costruzione misera, dall’intonaco sbiadito, schiacciata fra altri due edifici. Si accorse che, davanti a lui, camminava una persona. Con una certa difficoltà la mise a fuoco. Vide che indossava un berretto con la visiera e un giubbotto con appariscenti bande gialle. Si concentrò e alla fine lo riconobbe. Era il postino. Ne fu sicuro soltanto quando scorse la borsa, gonfia, che l’uomo teneva appoggiata sul fianco. Cercò di accelerare il passo per salutarlo – non mancava mai di farlo quando lo incontrava – ma fu assalito da un violento conato di vomito. Ebbe appena il tempo di guardarsi attorno e di individuare un piccolo cespuglio, che il suo stomaco si rivoltò. Si inginocchiò a terra e trascorse i successivi due minuti in preda a spasmi terribili, la bocca trasformata in una fontana. Passò un’anziana signora di ritorno dalla spesa che lo osservò con commiserazione, ma non disse nulla. Allora si rialzò in piedi, si passò una mano sulle labbra ancora lorde di vomito e tentò di rimettere in moto le gambe. Con immane sforzo, ci riuscì. Adesso si sentiva veramente male; era scosso da brividi freddi e una lama gelida gli tormentava la nuca. Il cuore batteva all’impazzata, fuori controllo. Appoggiandosi a una cancellata si trascinò comunque in avanti fino a quando iniziò a stare meglio. Si rese conto, con sorpresa, che l’ubriacatura non gli era affatto passata. Il suo stomaco era riuscito a carpire e a trattenere le sostanze euforizzanti prima di rilasciare - in quel modo così impetuoso – la materia inutile. A quel folle pensiero, si rallegrò. Ricominciò ad avanzare, in maniera penosa, quando il suo sguardo cadde su qualcosa che era a terra, sul bordo del marciapiede. Si arrestò e, combattendo la residua sensazione di nausea che ancora gli scombussolava lo stomaco, si chinò. Vide che si trattava di una busta, di sicuro sfuggita al portalettere. La raccolse, scorse il nome del destinatario e la infilò nella tasca della giacca. Finalmente giunse a casa. Fuori, vide parcheggiata la vecchia automobile della moglie e non riuscì a trattenere una smorfia di disappunto. Dopo aver frugato a lungo tra i vari interstizi degli abiti che indossava, riuscì a recuperare le chiavi. Lottò a lungo con la toppa – come capita a tutti gli ubriachi, d’altronde – e alla fine i suoi tentativi furono premiati dal successo. Superò lo stretto corridoio appoggiandosi alle pareti ed entrò in cucina.
“Disgraziato! Dove sei andato?” Sua moglie, una vera furia.
“Come mai sei a casa?” domandò l’uomo con voce incerta.
“Sono passata a mangiare qualcosa. Guarda che oggi lavoro fino alle sette!”
“Dove vuoi che sia stato? All’ufficio di collocamento, come sempre. Mi hanno detto di ripassare domani, forse c’è la possibilità di…”
“Bugiardo! Sei stato a bere. Puzzi di vino e di… vomito. Che schifo! E guarda la camicia, è tutta lercia! Sudicio! Uomo da poco!”
“Non ricominciare. È colpa mia se mi hanno licenziato?”
“Certo che è colpa tua! Sei uno scioperato, sei capace solo di trascinarti da un bar all’altro! Perché il tuo amico Bruno sta ancora lavorando e tu no? Forza, spiegamelo!”
“Bruno? Buono quello! È un leccapalle dei capi, sempre pronto a dire di sì e a chinare il capo. Ma io non sono così, ho una mia dignità, non mi faccio mettere i piedi in testa! E poi te lo ricordi il tuo Bruno quella volta a cena, proprio qui da noi? Era ubriaco fradicio, non riusciva neanche più a parlare!”
“Sono passati quasi dieci anni da quella cena!”
“Dici? Davvero è passato così tanto tempo?”
“Guardati! Scommetto che stamattina non ti sei neppure lavato il grugno! E i capelli! Da quanto non ti pettini? Oh Dio! Che pena! Cosa mi tocca sopportare! Che ho fatto di male?”
“Calmati, non fare l’isterica come sempre! Piuttosto, c’è qualcosa da mangiare? Non ho molta fame, però…”
“Lo credo! Sei pieno di vino come una botte! Da mangiare, hai detto? Hai detto che vuoi da mangiare? Un momento.”
La donna si diresse verso il frigorifero. Lo aprì, prese una scatoletta di sardine e la buttò sul tavolo. Fece lo stesso con una forchetta.
“Ti va bene anche senza piatto, vero? Tanto sei una bestia!” aggiunse.
L’uomo non rispose. Si sedette e aprì la scatoletta. Cominciò a mangiare in maniera svogliata. Lo stomaco non aveva esaurito del tutto la sua ribellione, tuttavia riuscì a ingoiare qualche boccone.
“Non c’è da bere?” domandò, un po’ titubante.
“Il rubinetto è di là!” rispose la donna, rabbiosa.
“Ascolta, Giardini non è il primario dell’ospedale? Quello che abita in quel bel palazzo in via Vespucci?”
La moglie lo osservò a lungo.
“Che c’entra Giardini?”
“Così, se ne parlava al bar e…”
“Al bar? Visto che ci sei andato? Falso! Ipocrita!”
“Non ho detto che se ne parlava oggi! Accidenti! Con te non si può dire nulla. Lo conosci o no?”
“Certo che lo conosco! È quel bell’uomo, serio e distinto. E dicono che come medico sia molto bravo. A volte lo incontro con la moglie – una signora ancora giovane, molto graziosa - e i figli, davvero una bella famiglia felice.”
“Facile essere felici quando si è pieni di soldi!”
“Guarda che quello lavora sodo! Non è un perdigiorno come te! E non se ne va in giro puzzolente e vestito come uno straccione.”
“Si direbbe che ti piace.”
“Puoi ben dirlo! Quello è un vero uomo!”
“E tu pensi che lui si accorga di te? Vai, vai di là che c’è lo specchio! Usalo, per favore!”
“Ma come ti permetti?” La donna aveva gli occhi lucidi.
Lui, spietato, prese a fissarla in volto con i suoi occhi rossi e cisposi.
“Che cosa guardi?”
“Le rughe. Sei piena di rughe.” E non riuscì a non notare i suoi capelli stopposi, tinti in malo modo.
“Mi dicono tutti che mi donano. Sono rughe di espressione.”
“Ma smettila! Sembra sia appena passato l’aratro!”
“E tu? Guardati! Fai veramente schifo! Fai vomitare! Le donne ti scansano tanto fai ribrezzo!”
L’uomo riuscì a mantenere la calma. Sorrise in maniera canzonatoria.
“Questo lo dici tu, ma ne sei veramente sicura?”
“Cosa intendi dire?”
“Non dico che ci sia la fila, però…”
La donna iniziò a ridere in modo sguaiato.
“Mi fai pena! Non troveresti un’altra donna neanche a pagarla! Sei ripugnante! Un mezzo uomo!”
Le lacrime della donna si erano trasformate in collera. Afferrò un soprammobile, una piccola tartaruga di pietra, e la scagliò con violenza contro il marito. Lo mancò. Poi afferrò la borsetta e uscì sbattendo la porta.
“Vorresti dire che non potrei avere un’amante?” gridò l’uomo, ma ormai la moglie non poteva più sentirlo.
Allora sbatté un pugno sul tavolo, si alzò e si avvicinò alla credenza, da dove prelevò un bottiglione di vino. Cercò invano un bicchiere pulito ma non lo trovò. Erano tutti nel lavello, sporchi, assieme a una montagna di piatti, pentole e stoviglie. Irritato, bevve a canna tre lunghe sorsate. Poi si sfilò la giacca – stava sudando – e la gettò sul divano. Fu allora che rivide la lettera. La prese e rilesse l’indirizzo: Professor Emilio Giardini, via Vespucci 56. Sarebbe stato suo dovere consegnarla, ma non aveva alcuna voglia di uscire, non in quel momento. Fu invece assalito da una morbosa curiosità. Soppesò a lungo la busta e notò che non era indicato il mittente. Decise di aprirla. Naturalmente, dopo averla letta, l’avrebbe richiusa e, il giorno dopo, recapitata al legittimo destinatario. Uscì dalla casa ed entrò nel garage. Quel posto era solo suo. La moglie non vi metteva piede ormai da anni, si rifiutava. Ciò era dovuto al disordine e alla confusione che regnavano in quel piccolo edificio. Ed era anche il motivo per cui non era mai stato possibile ricoverarvi l’automobile. Il garage era pieno zeppo di cianfrusaglie di ogni tipo. Pezzi di legno, lamiere contorte, stracci, vecchi copertoni, resti di mobili. Il banco da lavoro era del tutto ricoperto da uno strato di utensili, alcuni dei quali arrugginiti e inservibili. In un angolo c’era un divanetto con il cuscino lurido e strappato in più punti, utilizzato per la pennichella pomeridiana e per smaltire le sbronze. Sotto il divano, ben nascosta, c’era la sua collezione di riviste pornografiche. Vecchie annate, che da qualche tempo non sfogliava, dono del suo amico Gino il porco. Si guardò attorno, si rammaricò di non aver portato con sé il bottiglione del vino, poi prese una bacinella di plastica e la riempì d’acqua. Vi immerse in parte la lettera. Con sua grande sorpresa, dopo pochi istanti i lembi di chiusura erano già scollati. Una pessima colla, valutò. Estrasse con delicatezza dalla busta un foglio ripiegato, lo distese, accese una lampada e cominciò a leggere. All’inizio con una certa fatica, perché la calligrafia - minuta e di sicuro femminile – non era facile da decifrare, poi in maniera più spedita.


(Ex) Amore mio carissimo,
che dirti? È stato tutto un sogno, un sogno che però si è trasformato in un incubo. Non posso negarlo: con te ho passato momenti meravigliosi. Mai mi ero sentita così felice nella mia vita, mai mi ero sentita così importante, così desiderata da un’altra persona. Tu avevi bisogno di me ed io di te. I nostri bisogni coincidevano e tutto era fantastico. Ho dato tutta me stessa, senza riserve, senza limiti, e finché è durato, è stato tutto bellissimo. Sapevo di avere una rivale, tua moglie. La stronza, come la chiamavi tu. Mi hai sempre detto che non t’importava più nulla di lei, che ti aveva rovinato la vita, che fisicamente non ti attraeva più, dileggiavi le sue rughe, ed io ti ho sempre creduto, anche se dentro di me rimaneva un piccolo dubbio. E adesso, adesso quel dubbio si è dissolto. Del tutto. È vero, eri sincero, ma perché non sei stato del tutto sincero con me? Sincero fino in fondo? Perché non mi hai mai detto che frequentavi anche quella Monica? Quella che hai conosciuto al bar? Sai, l’ho vista. È giovane, ed è bella. Ma anch’io pensavo di essere bella, per te. E anch’io sono giovane. Mi ricordo quando mi dicevi, adorante, che non avevi mai avuto una donna così bella. E i miei capelli? Non ti piacciono più? Hai sempre detto che i miei capelli ti facevano impazzire. Lunghi, folti, setosi. E non stopposi come quelli di tua moglie! Ti ricordi? Perché mi hai fatto questo? Perché sei stato così falso e malvagio con me? Mi hai sempre promesso che, prima o poi, avresti mollato la stronza e che avremmo passato insieme il resto della nostra vita. Invece scopro che sei un ipocrita, come tutti gli altri uomini, e allora ti dico addio. Spassatela pure con la tua Monica, poveraccia lei! Per quanto mi riguarda, non ho più intenzione di vederti e ti dico addio con questa lettera. Perché te la spedisco a casa? Non lo so, forse spero che la veda quella povera stronza di tua moglie…  o forse no. In realtà non m’importa, non m’importa più di nulla.
Fulvia (il tuo bocconcino, ricordi?)


Fu colpito da quelle parole. Le rilesse più volte. Rifletté a lungo, poi sorrise. E prese la sua decisione. Recuperò la busta, si spostò sul piccolo lavandino di pietra, estrasse l’accendino e la bruciò. In quel modo si era precluso ogni possibilità di restituire la lettera. Assalito da una febbrile frenesia, sempre tenendo in mano il prezioso foglio, tornò in casa. Senza pensare, afferrò il bottiglione del vino e ingollò un paio di robuste sorsate. Poi iniziò a frugare nel mobile del soggiorno. Cercò a lungo, fino a quando non trovò una bella busta bianca, intonsa. Si sedette al tavolo e, con grande cura, vergò il proprio indirizzo. Leccò un francobollo, lo appiccicò e uscì a spedirla.

domenica 3 febbraio 2013

DI FRONTE AL MURO



Proprio di fronte a me, appesa al muro, c’è una stampa che raffigura un dipinto di Degas: la classe di danza. Per scorgerla mi è sufficiente alzare di poco il capo. Un movimento minimo, quasi impercettibile, mi permette di assistere a quella scena, a mio avviso così ricca di fascino. Vedo le giovani allieve, con i loro abiti vaporosi, i nastri tra i capelli, assistere attente alle spiegazioni dell’anziano maestro.
Abbasso gli occhi e guardo il muro. Lo scruto a lungo, concentrato, e ne percepisco il vuoto. Assaporo l’assenza di elementi in quella parete chiara. Per un attimo me ne compiaccio. Prima di smarrirmi del tutto volto la testa ed esamino i tasti. Sì, i tasti. Quello rotondo, solitario e un po’ buffo della cuffia; quelli minuscoli e di tutte le forme del telecomando, che sembrano poco adatti a dita umane, e quelli disseminati, quasi in maniera casuale, sull’impianto stereo.
Sotto ancora c’è una gran confusione. I tanti CD sono in disordine, appaiati affiancati sovrapposti impilati, con un pesante libro di storia che suggella uno dei vari cumuli. E poi alcuni quaderni, con qualche pagina strappata, pieni zeppi di disordinate annotazioni, di appunti vergati dalla stessa persona con scritture diverse, tante quante sono state le emozioni che ne hanno accompagnato la mano, che hanno guidato l’incolpevole penna lungo il suo percorso. Un ombrello, ovviamente chiuso. Un’agenda dalla brutta copertina verde, chissà perché unico oggetto impolverato, non considerato e abbandonato. Sulla sinistra, sul piano del tavolo, c’è un portamatite a sezione quadra color rosso vivo, semivuoto. Sulla sua faccia anteriore è raffigurato un gatto rosso, tra le sue zampe c’è una ciotola blu, colma di latte. Il gatto è felice.
Ad occupare quasi tutto lo spazio dello scrittoio, che non è molto ampio, c’è il computer. Di lui non c’è nulla da dire. Il mouse, invece, compie le sue evoluzioni su un singolare tappetino. Si tratta della custodia di cartone di un CD, un disco di Springsteen. Il volto del povero Bruce è tutto graffiato dai ripetuti passaggi dello strumento, che lo ha trasformato in un reticolo di rughe chiare.
Infine ci sono io.  

SUONO




M’investo di suono

Greve avanza lento

Cantabilmente andante

Limpido tintinna piano