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martedì 29 gennaio 2013

GLI UCCELLI DEL MALAUGURIO


Sono qui, da solo, dietro la finestra, proprio come quella volta di tanti anni fa. Guardo fuori, ma non riesco a scorgere nulla. La pallida luce del sole stenta a penetrare la fitta nebbia. Ma ciò che vedo, in realtà, non è veramente nebbia. Si tratta di un insieme di fumo, polvere, vapori, di venefiche esalazioni, di miasmi maleodoranti. È così ormai da tanto tempo, e ogni giorno che passa la situazione peggiora. Il pianeta sta morendo ed io assisto impotente alla sua agonia.
Sono qui, da solo, in questa casa vuota. Mia moglie, la mia cara Miriam è morta. Ho assistito, tempo fa, colmo di pena e d’angoscia ai suoi ultimi rantoli, alla sua disperata e vana ricerca di un ultimo refolo d’aria pura da ingabbiare nei polmoni ormai avvelenati. E anch’io sono malato, molto malato, ma cerco di resistere. È quasi impossibile uscire da casa. A volte sono costretto a farlo, per procurarmi quel poco cibo che è ancora disponibile, ma è necessario – in quel caso - adottare enormi precauzioni. Lo scafandro, la maschera per la respirazione, gli occhiali a tenuta stagna e tutto il resto. Ed è inutile invocare la pioggia, quella pioggia che potrebbe, almeno in parte, ripulire l’atmosfera tossica. Quando l’acqua finalmente scende, da quel cielo che riusciamo solo più a intravedere, è calda e acida. Guai se viene a contatto con la pelle, con gli occhi: corrode e acceca, senza riguardo, senza alcuna pietà.
Sono qui, da solo, privo di speranza, ma non mi arrendo. Sono stanco, ho bisogno di sedermi spesso, di riposarmi. Il mio respiro è ridotto a un orrendo sibilo. Non ho più la forza per muovermi. I miei gesti sono lenti e deboli. Sono ben consapevole che non ci sia più nulla da fare. Purtroppo abbiamo esitato troppo, abbiamo sempre rinviato, e alla fine ci siamo resi conto che non c’era più modo di intervenire. Troppo tardi. È doloroso ammetterlo, ma la Terra morirà: questo è il suo prossimo destino. Per qualche tempo abbiamo sperato nelle nostre risorse tecnologiche - l’unico strumento cui ci siamo affidati - alle quali abbiamo concesso senza riserve tutta la nostra fiducia. Invece, anche in quella circostanza, una volta di più, siamo stati ottusi e ciechi. Proprio quella scienza – che credevamo portatrice di grandi benefici e in grado di risolvere tutti i nostri problemi - si è rivoltata contro di noi e ha decretato la nostra fine. Senza appello. Ora non siamo rimasti in molti. D’altra parte, che senso ha vivere, anzi sopravvivere, in un mondo simile? Per una sorta di tacito accordo, nessuno ha più fatto figli. Non è più prevalso – ed è stata una fortuna, credo - il desiderio egoistico dell’immortalità da ricercare attraverso la perpetuazione della specie. Così la popolazione è invecchiata sempre di più. Poi sono cominciati i decessi. A milioni, da un giorno all’altro, per le più svariate cause, non ultima ma ugualmente drammatica il suicidio di massa. E, a quel punto, quasi tutto si è fermato. La produzione di beni è diminuita fin quasi ad annullarsi, gli scambi commerciali hanno cominciato a rallentare e infine sono cessati. In seguito si sono svuotate le città ed è cambiato il modo di vivere dei sopravvissuti. È iniziata la corsa verso le campagne, la fuga verso quei luoghi ritenuti meno contaminati. Ma non c’era più nulla da fare. Il processo che, con la nostra stoltezza, avevamo attivato, era ormai inarrestabile e irreversibile.
Sono qui, da solo, in preda a pensieri funesti. Come abbiamo potuto fare questo, mi domando? Ed è un pensiero che tormenta di continuo la mia misera esistenza. E al quale non riesco a dare una risposta sensata. Eppure tutto ciò è avvenuto, e ciascuno ne è responsabile in uguale misura, nessuno può essere assolto. Ho passato molto tempo a piangere. Ho versato, copiose e incontenibili, lacrime di rabbia e di sconforto. Ora non ci riesco più. Perché adesso, per me, è giunto il tempo di aspettare. E so che non dovrò farlo ancora a lungo; il tempo in cui finalmente si avvererà quel lontano vaticinio è ormai arrivato. Lo sento, nel corpo e nella mente.


Quel giorno mi ero alzato presto. Ricordo che era la vigilia di Natale. Di solito amavo svegliarmi all’alba, ma quello era un giorno speciale. Avevo la residenza degli studenti a mia completa disposizione. O quasi. Oltre a me, erano rimasti un altro ragazzo – Aldo, il mio compagno di stanza – e una ragazza, Miriam. Proprio quella che ritenevo, a torto o a ragione, la mia ragazza, anche se purtroppo era la stessa cosa che credeva pure Aldo, il mio migliore amico. Lei, d’altra parte, sembrava non avesse ancora scelto, e si divertiva un mondo a tenere entrambi nell’incertezza. Tra il personale del collegio era presente solo il portiere, ma il vecchio Anselmo non abbandonava mai la sua guardiola situata al piano terra. L’edificio era dunque tutto per me; i miei due compagni preferivano poltrire fino a tardi e di sicuro non sarebbero comparsi prima di mezzogiorno. Per prima cosa mi feci una lunga doccia. Fu delizioso e, con mia grande sorpresa, l’acqua rimase calda fino alla fine, a differenza di quanto accadeva di solito. Rinvigorito, scesi nel locale cucina; la mia intenzione era quella di saccheggiare la dispensa, comprese le scorte dei compagni che erano rientrati alle loro abitazioni in occasione delle feste, lasciando in tal modo incustoditi i loro preziosi tesori alimentari. Iniziai, con metodo, dalla marmellata di more. Ne ero molto ghiotto. La mangiai direttamente dal barattolo, servendomi di un grosso cucchiaio: un autentico godimento per il palato. Passai subito dopo alle tavolette di cioccolata dell’odiato Samuele che, al suo ritorno, non avrebbe trovato più nulla. Alla fine, ma soltanto alla fine, sbocconcellai una fetta di pane e bevvi del succo di frutta. Ero sazio, e leggermente nauseato. Faceva troppo freddo per uscire quindi, per smaltire il lauto pasto, cominciai a percorrere i lunghi corridoi, senza meta, assaporando il silenzio. Ogni tanto entravo in qualche locale, in qualche stanza, rimanevo un po’ a curiosare, poi riprendevo il mio peregrinare. Infine scesi di un piano e mi diressi verso la biblioteca. Si trattava di un vasto ambiente di forma rettangolare. Su tre pareti erano disposti - su alti scaffali - i volumi. Sull’ultima c’era un’ampia finestra, rivolta verso il giardino. La quiete che mi avvolgeva trasmetteva ai miei sensi una strana eccitazione. Per calmarmi, decisi di fermarmi a leggere qualcosa. Scelsi, a caso, ‘Pollution and total destruction’ di Samuel G. Jackson, un ecologo americano di indubbia fama. L’argomento trattato sembrava interessante e, inoltre, avevo bisogno di fare un po’ di pratica di lingua inglese. Mi accoccolai su una comoda poltrona, proprio accanto alla finestra. Prima di iniziare a leggere diedi un’occhiata fuori. Il cielo era plumbeo, le nuvole erano gonfie di neve. E fu proprio in quell’istante, un momento che non scorderò mai, che li vidi. Sembravano appesi in cielo. Non so dire quanti fossero, ma erano tanti, disposti in più file sovrapposte. Apparivano ai miei occhi come immagini piatte, a due sole dimensioni, ma mi accorsi ben presto che non era così. Si trattava di corpi. Erano corpi di strani esseri. La loro tozza figura ricordava quella di un pinguino, anche se le zampe erano più grandi e dotate di robusti artigli. La loro testa invece era simile a quella di un avvoltoio. Rammento che rimasi molto impressionato da quei becchi ricurvi, di color giallo sporco, e da quegli occhi dalle pupille rosse. A quella vista provai stupore e disorientamento, ma non vera paura, perché il loro sguardo non sembrava malvagio. Era più che altro triste. Tuttavia, d’istinto, indietreggiai. Urtai la poltrona e caddi a terra. Mi rialzai e subito rivolsi lo sguardo all’esterno, e loro erano ancora là, immobili, nel cielo grigio. Pensai di scappare, di andare a svegliare Aldo e Miriam, ma non mi mossi. Ero come ipnotizzato da quell’incredibile visione, che mi attirava. Provai un fremito all’interno della testa. Vibrazioni. Avevo l’impressione che il mio cervello andasse a sbattere contro le pareti del cranio, prima da una parte e poi dall’altra. Alla fine udii la voce, nitida. Sobbalzai, impaurito. Era la mia voce.
“Ti abbiamo forse spaventato? Stai tranquillo, non ti faremo del male, le nostre intenzioni sono pacifiche. E non essere troppo turbato per ciò che ti sta accadendo. Siamo spiacenti, ma questo è il modo più semplice che abbiamo trovato per poter comunicare con te.”
In quel momento ero confuso e sgomento, incapace di formulare pensieri compiuti, e nemmeno in grado di articolare alcun suono. La mia mente, per un attimo, vacillò.
“Devi sapere che noi siamo semplici esploratori e che veniamo da molto lontano. Stiamo osservando, per poi riferire alla nostra gente. Abbiamo ricevuto un incarico delicato. Tra un po’ di tempo, anche se non sappiamo ancora quando, noi prenderemo possesso di questo pianeta. Questo ci è stato comandato di fare, e noi eseguiremo. È bene che tu sappia che la nostra non sarà un’invasione; noi, semplicemente, rimpiazzeremo voi esseri umani. Siamo desolati, ma purtroppo la vostra specie si è dimostrata incapace di prendersi cura di questo mondo, un mondo che vi era stato affidato affinché ne aveste riguardo e che invece state distruggendo. Noi cercheremo di salvarlo. Lo ripuliremo e lo renderemo di nuovo un luogo in cui sarà piacevole vivere. Rimedieremo così ai vostri errori, alla vostra irresponsabilità e alla vostra negligenza. In seguito, appena avremo ultimato la nostra opera, potrà esserci finalmente un nuovo inizio, ma voi non ne farete più parte, perché non ci sarete più. Avete fallito e non meritate un’altra possibilità. Siamo molto addolorati per questo.”
Seppure a fatica, compresi ciò che mi era stato comunicato. Provai rabbia e un profondo senso di ribellione, anche se ero cosciente del fatto che quelle strane creature avevano ragione. Tra le mani stringevo ancora il libro. Con uno scatto improvviso lo gettai alle mie spalle.
“Adesso noi ce ne andremo, ma torneremo. Ma non prima che il vostro infelice destino sia giunto al suo pieno compimento. Vi attendono enormi sofferenze. Sappiamo bene come l’estinzione di una specie sia un processo terribile e straziante. I vostri patimenti saranno anche i nostri. Avete fallito, ma non vi faremo mancare la nostra pietà.”
Ero ancora stordito da quelle potenti onde sonore che a lungo mi avevano tormentato il cervello, però notai con sorpresa che le mie corde vocali avevano ripreso a funzionare. Allora spalancai la finestra, mi affacciai e iniziai a gridare.
“Chi siete? Che cosa volete? Cosa state dicendo? Via, andate via! Maledetti profeti di sventure! Andate via, dannati uccelli del malaugurio!”
Non li vidi più.


E adesso sono qui, da solo, e li sto aspettando. So che torneranno, ne sono sicuro perché tutto ciò che avevano previsto si è avverato. Verranno perché questo pianeta sta davvero morendo e c’è bisogno della loro saggezza.
Io quella volta li ho visti, e loro hanno parlato con me.
Cerco di alzarmi, ma il mio torace è scosso da una tosse secca, cattiva. Con indifferenza sputo a terra un grumo di sangue. Le forze mi stanno abbandonando sempre di più. Mi aggrappo al davanzale della finestra e incollo gli occhi al vetro.
Tornate, vi prego…

sabato 26 gennaio 2013

SI CAMBIA...




Esalazioni incerte trasudano dalla terra bruciata

Come sospiri impercettibili che pervengono dal tempo

Mille arcobaleni si rincorrono sulla volta del cielo

Festose rivelazioni di ciò che sarà

Si cambia… 

mercoledì 23 gennaio 2013

IL GIORNO DOPO



L’uomo parla di fronte a una platea ridotta. Si tratta di cinque persone in tutto, uomini e donne, che hanno partecipato a quel singolare progetto che lui ha diretto.
“Signori, ci ritroviamo qui insieme per l’ultima volta. Siete ormai giunti al termine del vostro percorso. A questo punto avrete maturato in pieno la consapevolezza che vi ha portato a intraprendere questa strada. Non è più possibile, per voi, tornare indietro. E lo sapete. Tuttavia, osservando i vostri volti sereni, deduco che in voi non sia rimasto nessun rammarico, alcuna nostalgia. Avete assunto una decisione coraggiosa e l’avete portata avanti con grande determinazione. Domani vi sarà somministrata la terapia finale, l’ultima, la definitiva, quella che vi condurrà alla completa guarigione dal vostro male. Vi debbo ringraziare perché è stato bello lavorare con voi. È stata per me una esperienza molto gratificante e, soprattutto, estremamente significativa. Nonché formativa. Una pratica che mi consentirà un approccio ancora più positivo, mi auguro, con i prossimi gruppi, quelli che vi seguiranno. Sarete ricordati come autentici pionieri, eroici precursori.  Per vostro merito i diritti civili, le prerogative proprie della persona, hanno raggiunto e oltrepassato limiti che, fino a poco tempo fa, parevano essere invalicabili. Tutto ciò che riguarda l’autodeterminazione dell’individuo, la sua potestà di scelta, non sarà mai più come prima. Un enorme passo avanti per l’umanità, una grande dimostrazione di evoluzione e di progresso per la nostra società. Non ho altro da aggiungere, pertanto mi limito a rinnovare la mia riconoscenza nei vostri confronti. In ultimo, se voi siete d’accordo, vorrei chiedervi di terminare i nostri incontri allo stesso modo in cui hanno avuto inizio. Rammentando, a me e ai vostri compagni in questo viaggio, ciò che vi ha spinto a intraprendere tale nobile cammino. Nel farlo, vi renderete conto che i vostri ricordi, la rievocazione dei vostri limiti passati e delle vostre umane debolezze sono realtà oggettive che non riproducono più sensazioni di dolore e di sofferenza, ma soltanto pace. Perché tutto è stato superato, adesso che vi apprestate ad essere condotti al risolutivo e conclusivo risanamento.”
L’uomo smette di parlare e sorride alla sua attenta platea. Si porta alle labbra un bicchiere d’acqua. Beve un sorso e rivolge di nuovo l’attenzione alla sala. Alle cinque persone sedute di fronte a lui, uomini e donne.
“Maria, vuoi iniziare tu?” dice.
La donna si alza in piedi. È molto bella, tutto in lei è armonioso: i capelli biondi e soffici, che incorniciano un ovale perfetto, nel quale spiccano la bocca dalla linea morbida e i grandi occhi celesti. Il corpo, flessuoso, dalle proporzioni perfette. Inizia a parlare, con un tono di voce piatto.
“Si dice che la nostra vita sia il prodotto di una serie di scelte, e ciò corrisponde al vero. Soltanto una minima parte dell’esistenza è legata al caso, a eventi che noi non abbiamo la possibilità di governare. Nel mio caso, quest’ultimo aspetto è stato del tutto ininfluente. Io mi trovo nella attuale condizione perché non ho mai rinunciato a decidere. L’ho sempre fatto, confidando nelle mie capacità di valutazione, nella mia grande determinazione. Non ho mai lasciato che decisioni che mi riguardassero fossero assunte da altri. Ho sempre voluto essere padrona della mia vita. E così mi sono ritrovata a compiere continuamente scelte importanti, con risolutezza, senza indugi. Tutti hanno sempre elogiato la mia capacità di assumere in pieno le responsabilità, di non sottrarmi da tali attribuzioni. Una dote rara, che non è di tutti, mi è stato detto. Un elogio, un riconoscimento che ha nutrito sempre di più il mio orgoglio. E la mia vanità. Soltanto a un certo punto dell’esistenza mi sono resa conto che tutte le scelte che avevo compiuto erano sbagliate. Nessuna di quelle decisioni si è rivelata per me favorevole. Mi sono sentita annientata. Smarrita, senza più la possibilità di ritrovare la giusta strada. Ho cercato di essere forte un’ultima volta, e ho deciso di partecipare a questo programma. Finora ho sempre fallito, questa volta spero di no… Grazie.”
La donna si siede.
“Bene” dice l’uomo. “Anselmo, vuoi proseguire tu?”
L’interpellato si alza in piedi. Si tratta di un tipo mingherlino, infagottato in una giacca troppo grande. Porta occhiali dalle spesse lenti, le sue guance sono ricoperte da una rada peluria. Si guarda attorno, poi si schiarisce la voce e inizia a parlare, con voce sottile.
“Quando ho sentito per la prima volta l’esperienza di Maria, ne sono rimasto strabiliato. Perché ho apprezzato, e soprattutto invidiato, la sua capacità di decidere. Vedete, a me è accaduto esattamente il contrario. Tutte le volte, e sono state tante, che mi sono ritrovato di fronte due o più opzioni, non sono stato in grado di operare una scelta. L’indecisione mi ha sempre ghermito e mi ha reso incapace di prendere una qualsiasi risoluzione. Un blocco totale, impossibile da superare. La conseguenza delle mie innumerevoli esitazioni, della mia continua incertezza, è stata una vita non vissuta. L’esistenza mi ha sballottato di continuo da una parte e dall’altra, senza che io avessi la possibilità di interferire. In pratica, l’ho subita, preda come sono sempre stato di dubbi, titubanze e perplessità. Se oggi sono qui, è perché qualcun altro ha deciso per me. Lo ha fatto per aiutarmi, dice. Mi auguro che questa persona abbia ragione…
L’uomo si siede, esausto.
“Alberto, tocca a te” dice il direttore del progetto.
Il giovane si alza in piedi e sorride. Dimostra non più di trent’anni, ed è un individuo piuttosto attraente. Indossa abiti sportivi, che mettono in evidenza il suo fisico scultoreo. Prima di iniziare a parlare si passa una mano tra i folti capelli, li scompiglia.
“Credo di capire perché mi ha chiesto di intervenire subito dopo l’amico Anselmo, dottore. In fondo io e lui abbiamo qualcosa in comune. Certo, di sicuro non l’aspetto (ride), ma questo non ha importanza. Il fatto è che anch’io, come Anselmo, nel corso della vita non sono mai stato in grado di scegliere. Perché non ne ho mai avuto la forza, oppure il coraggio, o semplicemente non ho mai voluto scontentare nessuno. La differenza tra me e lui tuttavia sta nel fatto che, nel mio caso, tale perenne indecisione si è sempre limitata a un solo elemento dell’esistenza, quello più importante. Mi riferisco alla sfera dei sentimenti. In tutti gli altri campi non ho mai avuto il minimo dubbio, alcuna incertezza. Pur essendo ancora giovane, mi posso considerare un uomo di successo. Nel lavoro, soprattutto, ma ugualmente in tutto il resto. Rimane però quel mio grave limite, vale a dire la sfera affettiva, ed è proprio ciò che mi ha condotto alla rovina. Non ho mai negato a nessuno la mia incondizionata amicizia, e si è trattato di un grave errore. Sono stato tradito da quasi tutti quei presunti amici. Avrei dovuto, tra loro, operare una selezione, fare delle distinzioni. Non sono stato in grado di farlo, e l’ho pagata cara. Non volevo deludere nessuno, intendevo piacere a tutti, e la mia illusione si è ben presto infranta, lasciandomi a pezzi. Ma gli sbagli più gravi li ho commessi in amore. Non mi sono mai accontentato di una sola donna, le ho volute amare tutte. Mi ritenevo capace di dispensare a tutte quelle che incontravo qualcosa di me, ero convinto di poter offrire a ognuna di loro affetto ed emozioni. Alla fine ho scoperto con sgomento che fare ciò non è possibile e, allo stesso tempo, mi sono reso conto di aver buttato la mia vita. In più, credo di aver causato molta sofferenza. Non erano queste le mie intenzioni, dal momento che ritengo di essere una persona buona e generosa. È drammatico scoprire che la bontà, al pari della malvagità, possa provocare immenso dolore. Adesso non ho più stima di me stesso. Mi odio. Ed proprio per questo motivo che mi trovo qui.”
Il giovane si siede. Il suo viso affascinante è imperlato di minuscole gocce di sudore.
“Albina, credo sia il tuo turno” dice l’uomo seduto dietro la scrivania.
La donna alla quale si è rivolto annuisce e si alza in piedi. È piccola di statura, e quasi scheletrica. Porta i capelli rossicci tirati all’indietro e legati in due patetiche trecce. Il viso, dai lineamenti sottili, è punteggiato da una miriade di minuscole efelidi. La sua voce è stridula.
“Fin dall’inizio, da quando era soltanto una bambina, ho compreso di non essere attrezzata per la vita. Innanzitutto a causa del mio corpo. Era brutto e sgraziato. Quando mi confrontavo con le mie amiche ero sempre assalita dallo sconforto. Sapevo, fin da allora, che non sarei stata capace di reggere il loro passo. Loro erano costruite per la vita, io per sopravvivere. E così è stato. Quando mi sono ritrovata donna, le cose sono ancora peggiorate. Ormai ero rimasta indietro in maniera definitiva, non c’era più alcun modo di recuperare. Ero di continuo malata, colpita da affezioni del corpo e della mente, che si rifiutava di rassegnarsi, di accettare una condizione così desolante. Di conseguenza nel corso dell’esistenza non sono riuscita a fare nulla. Non mi sono mai realizzata sul lavoro, non ho mai conosciuto l’amore, e tutto ciò che a quel sentimento si accompagna. A poco a poco mi sono isolata sempre di più, la commiserazione nei confronti di me stessa si è allargata a dismisura. Mi sono abbandonata completamente al compatimento e alla pena. Mi sono trasformata in una morta vivente. Adesso potrò finalmente guarire.”
La donna si siede e, per la prima volta, un lieve sorriso affiora sulle sue inesistenti labbra.
“Grazie, Albina. Rodolfo, tocca a te concludere il nostro ultimo incontro” dice il responsabile del progetto.
L’uomo si alza in piedi a fatica. Il suo enorme corpo non gli permette di muoversi con agilità. Alza le spalle, quasi volesse chiede scusa, si gratta la fronte spaziosa, poi inizia a parlare. Il timbro della sua voce è basso, profondo.
“Che cosa volete che vi dica? Di me sapete ormai tutto, non posso aggiungere nulla di nuovo. Come, allo stesso modo, non posso aggiungere nulla di nuovo alla mia vita. Credo di aver fatto tutto ciò che ho avuto la possibilità di fare. Perché le azioni della nostra esistenza sono condizionate dai nostri limiti, dalle nostre imperfezioni. Eppure io credo di essere giunto molto vicino a questi confini, di avere sfruttato fino in fondo tutte le mie potenzialità, quelle che la natura mi ha fornito. Già, di più non avrei proprio potuto fare. Ma ora non ho più obiettivi, non ho più aspettative. Non ho più la speranza. D’ora in avanti sarei costretto a ripetermi, a fare cose che ho già fatto tante volte. E probabilmente le farei in maniera peggiore. No, non ne ho più voglia. Sono tanto stanco, sono annoiato. Ho deciso di aderire a questo progetto per due ragioni. La prima è la stessa di tutti voi: spero nella guarigione di tutti i miei mali esistenziali. La seconda è ancora più semplice. Dopo tanto tempo mi trovo a poter fare qualcosa di nuovo, qualcosa che non è avvolto dal solito tedio, dall’usuale fastidio. Che non ho mai fatto in precedenza e che di sicuro non ripeterò. Quest’ultima certezza mi riempie di gioia. Grazie, dottore.”   
L’uomo risistema il suo grosso corpo sulla sedia. È commosso, i suoi piccoli occhi sono lucidi.
Il dottore richiama l’attenzione di tutti. Si alza in piedi.
“Bene, si conclude il nostro ultimo incontro. Vi ringrazio ancora una volta per il vostro impegno, e per avere creduto in me. Vi auguro una serata tranquilla e una notte serena. Domani vi sarà somministrata la cura che sapete, e le vostre afflizioni scompariranno. Ritroverete finalmente la pace. Grazie, di nuovo.”
A poco a poco tutti, uomini e donne, lasciano la sala. Tranne il dottore. Si risiede per un attimo dietro la scrivania, pensieroso. Si stringe il capo tra le mani. Poi si alza all’improvviso e, a lunghi passi, guadagna a sua volta l’uscita. Prima di chiudere a chiave la porta si sofferma per un attimo sulla scritta a caratteri rossi che risalta sul vetro: REPARTO SUICIDIO ASSISTITO. Infine si allontana soddisfatto.

venerdì 18 gennaio 2013

IL MIRACOLO


Mi devo alzare, pensò l’uomo, anche se non ne ho voglia. Guardò l’ora e vide che erano quasi le sei. Sto diventando pigro, non ho più la vitalità di un tempo. Scostò le coperte e rabbrividì. La stanza era gelida. Si era sempre rifiutato di installare un impianto di riscaldamento. Lo farà chi ci sarà dopo di me, ripeteva. Il freddo mi conserverà più a lungo, diceva scherzando ai suoi parrocchiani. Si alzò, infilò ai piedi le pantofole sformate e si diresse alla finestra. Aprì le imposte. Fuori era ancora buio. I profili delle montagne erano avvolti da un manto scuro e si intravedevano appena. Respirò a pieni polmoni una boccata di aria gelata e poi richiuse la finestra. A passo lento si avviò verso il bagno. Si sciacquò il viso e si lavò le mani con molta cura. Si esaminò allo specchio e decise che non si sarebbe rasato. Avrebbe dovuto far scaldare dell’acqua e forse non ne aveva il tempo. Che importa se un vecchio prete di montagna ha qualche pelo bianco sulle guance? Si sfilò il pesante maglione e i lunghi mutandoni di lana e iniziò a vestirsi, coprendosi con più strati di indumenti. Alla fine indossò la tonaca, ormai logora. Sono magro, osservò, sono tutto pelle e ossa eppure ho il ventre gonfio. I bottoni tirano proprio lì. La vecchiaia rimodella il corpo, lo rende rigido e sgraziato. Per non parlare dello spirito. Con l’età si diventa insofferenti e rancorosi.
L’uomo scese in cucina e si avvicinò al mucchio di legna accatastata con cura in un angolo, sulle mattonelle di pietra grigia. Lo osservò con sguardo critico. Scelse alcuni ramoscelli, li avvolse in carta di giornale e riempì la stufa. Poi la accese e, poco per volta, aggiunse dei pezzi più grandi. Quest’anno sono ancora riuscito a spaccare la legna, considerò tre sé, vuol dire che non sono ancora del tutto decrepito. Ma il prossimo? Si sedette al tavolo e si versò un bicchiere di vino. Il liquido denso e scuro era freddo e lo sorseggiò con lentezza. Non mi basta più il vino dell’Eucaristia! Ho bisogno di una dose supplementare. Finirò con il diventare alcolizzato. Scosse il testone per scacciare quel pensiero e si tagliò una fetta di formaggio che mangiò accompagnandola con del pane ormai duro. Rivolse un’occhiata all’orologio a pendolo. Si sta facendo tardi, devo sbrigarmi. Uscì dalla cucina, oltrepassò uno stretto corridoio e, attraverso una minuscola porta, entrò in chiesa. L’unica navata dell’edificio era avvolta dal buio. Accese le luci e vide che, inginocchiata nel primo banco, c’era una donna con il capo avvolto in un foulard. Stava pregando. Le indirizzò un cenno di saluto al quale lei rispose con un sommesso mormorio. Era la vedova di Tonio. Tuo marito l’ho seppellito io, ricordò, quasi un anno fa. Il vecchio era stanco e malato, non aveva più voglia di vivere, e arriva un momento in cui si dice basta.
La campana rintoccò sette volte e proprio in quell’istante un’altra vecchietta entrò in chiesa. Il prete indossò i paramenti e iniziò a recitare la messa. Due sole persone! Sempre peggio. Finirà che un giorno mi ritroverò da solo. In estate la chiesa a volte si riempie, ma sono tutti villeggianti. Adesso l’inverno incalza, sta per nevicare, e nessuno ha voglia di abbandonare il caldo del letto per venire ad ascoltare un vecchio come me, che dice sempre le stesse cose.
Il prete sbrigò in fretta l’impegno quotidiano. Neanche mezz’ora e tutto finì. Le due donne, dopo una genuflessione e un segno di croce, serrarono i cappotti, si avvolsero nelle sciarpe e uscirono. Si voltò verso l’altare per riporre il calice, dopo averlo ben strofinato, e notò quella strana cosa. Com’è possibile? Proprio qui? Si chinò per vedere meglio. Passò la mano in un punto preciso della superficie di pietra e la ritirò bagnata. Sembrava acqua. Portò un dito alla bocca e assaggiò. Questo liquido sembra salato. Non ci credo. Perché deve capitare proprio a me, un vecchio e stanco servitore di Dio, una cosa del genere? Si tolse di dosso i paramenti, gettandoli a terra. Dalla tasca estrasse un fazzoletto, sporco, e strofinò l’altare finché quel punto non fu perfettamente asciutto. Poi arretrò di qualche passo e osservò l’intero bassorilievo. Conosco bene la storia di questa scultura. È bizzarra. Mi è stata raccontata appena sono arrivato in paese, tanti anni fa. Tutti la sanno. Questa è l’opera di Bastianino, un ragazzo cui toccò di andare in guerra. Partì, e per quattro anni non si seppe nulla di lui. Nessuna lettera, nessuna notizia di alcun genere. Erano tutti convinti che fosse morto. I genitori si disperarono a lungo; a un certo punto quasi si rassegnarono. Invece alla fine tornò, ma non volle mai raccontare che cosa era veramente successo. Era felice di essere sopravvissuto e intendeva ringraziare il Signore. Decise che avrebbe scolpito una pietra da sistemare alla base dell’altare. Una specie di ex-voto. Bastianino era bravo in tutte le attività manuali e molto abile con lo scalpello. Non voglio soldati e cannoni sull’altare, questa è pur sempre una chiesa, aveva raccomandato il vecchio don Anselmo. Non si preoccupi, aveva risposto il ragazzo. E si era messo subito all’opera. Aveva lavorato quasi senza sosta per due mesi per ultimare la scultura, questa immagine che, dopo quasi cent’anni, ho davanti agli occhi. Il prete ne scrutò l’insieme. Un enorme trono, sul quale è seduto Dio, circondato da angeli, arcangeli e cherubini. Il suo sguardo è fiero e severo allo stesso tempo. Sotto il suo piede destro, con un’espressione sofferente, è raffigurato un demone, forse Lucifero. Un’opera di grande pregio. Bastianino, nonostante il suo grande talento, dopo quel bassorilievo non volle scolpire mai più.
E ora che faccio? Nulla. Forse questo strano fenomeno non si ripeterà. Però sono agitato, rimuginò, e molto turbato. I miei ultimi anni di vita, che immaginavo tranquilli, saranno invece terribili. Sconsolato, tornò a letto.
Il mattino dopo, purtroppo, l’evento si ripeté. È inutile, rifletté ormai rassegnato il prete, tanto vale che lo chiami con il suo vero nome: miracolo, prodigio, segno. Dopo la messa andò nel piccolo studio adiacente alla sacrestia. Non lo usava mai. Se qualche parrocchiano mi vuole parlare, mi manda a chiamare, e non viene certo qui. Si sedette alla vecchia scrivania. Notò che il piano era pieno di crepe, e impolverato. Cominciò a frugare nei cassetti, nei quali regnava un grande disordine. Alla fine recuperò un foglio di carta un po’ ingiallito. Cercò una penna e la impugnò tra le dita nodose. Non scrivo mai, rimuginò, chissà se ne sono ancora capace. Una volta, a Natale e a Pasqua, mandavo gli auguri a mia sorella. Ma adesso non più. Maria, ormai da qualche anno, è ricoverata in una casa di riposo. Ha passato la vita a pregare, ad andare in chiesa e ai funerali, per qualche tempo mi ha fatto da perpetua, e adesso non riesce neppure a reggersi in piedi. Doveva fare la suora, mentre io avrei dovuto costruire una famiglia, avere dei figli. Abbiamo sbagliato entrambi, abbiamo sprecato le nostre vite. E adesso è troppo tardi per rimediare. Sospirò e poi iniziò a scrivere, dapprima in modo incerto e via via con maggiore fluidità. Quando terminò, si rese conto di essere sudato, nonostante l’ambiente non fosse riscaldato. Attraverso la finestra vide alcuni timidi fiocchi di neve che volteggiavano in aria a lungo prima di decidersi a cadere a terra. Ho dovuto farlo, ragionò, era mio dovere. Che dirà il vescovo? Darà retta a un povero e vecchio prete di montagna o lo prenderà per pazzo? Sigillò la busta, scrisse l’indirizzo e appiccicò un francobollo. E si augurò che la lettera andasse perduta. Rientrò in cucina e si versò un bicchiere di vino. Ne aveva proprio bisogno.


Un’auto, lussuosa, si arrestò di fronte alla chiesa. Erano le dieci del mattino e anche quel giorno faceva molto freddo. Il prete, seduto accanto alla stufa, stava sonnecchiando. Quando udì il rombo del motore, si riscosse. Sbirciò. Mio Dio! Si alzò in piedi, lisciò la tonaca e uscì.
“Buongiorno, don Pietro.”
“Eccellenza…”
“Mi scusi se non l’ho avvisata. Sono di passaggio da queste parti e ho pensato di fermarmi un attimo da lei. Sa, quella sua lettera mi ha incuriosito”
Il prete annuì e scrutò il vescovo. Era la prima volta che lo incontrava di persona e ne era un po’ intimorito. Da bambino, quando ancora non pensavo certo di prendere i voti, immaginavo vescovi e cardinali come persone molto grasse. Invece questo è alto e magro. Completamente calvo, con la pelle tirata sugli zigomi e il naso a becco. E non è vero che è passato per caso, è venuto apposta per me e per l’altare della mia chiesa. Bugiardo.
“Venga.”
Le due figure, una alta e solenne, l’altra minuta e con la testa grossa, percorsero lentamente la navata buia. Giunsero ai piedi dell’altare.
“È questa la pietra?”
“Sì, è quella. Guardi, sta ricominciando.”
Il vescovo si accovacciò. Passò la mano sul bassorilievo. La ritirò bagnata.
“E questo quando succede?”
“Tutti i giorni, da un paio di mesi.”
“Qualche suo parrocchiano se n’è accorto?”
“No. Ogni mattina, prima della messa, asciugo tutto.”
“Ha fatto bene. E lei come si spiega questo strano fenomeno?”
Il vescovo, mentre aspettava la risposta, ripassò ancora una volta le dita adunche sugli occhi del demone, dai quali sgorgavano copiose e calde lacrime.
“È un segno, ormai ne sono convinto.”
“Ma questa è opera di Satana!”
“No. Lo vede? Lui sta piangendo. Si è pentito, ha compreso di avere commesso un terribile sbaglio e adesso vuole il nostro perdono.”
“Si rende conto di che cosa sta dicendo? Se così fosse, non esisterebbe più la distinzione tra il Bene e il Male! I figli di Dio vivrebbero in pace. E allora quale sarebbe il nostro compito, d’ora in avanti? Che cosa ci rimarrebbe da fare?”
“Nulla.”

domenica 13 gennaio 2013

POPOLO



La luce filtra attraverso la tapparella socchiusa. È ormai giorno. Vorrei alzarmi dal letto ma non posso. Devo aspettare. Come accade ogni giorno, devo aspettare. È assolutamente proibito scendere dai nostri giacigli senza assistenza. E poi, come potrei farlo? Sono legato alla branda con cinghie di cuoio, che mi impediscono quasi ogni movimento. Posso soltanto dormire, quando ci riesco. Lo faccio quando mi imbottiscono di calmanti e sonniferi. Sì, allora dormo profondamente, un sonno quieto e senza sogni. Comunque, la mia libertà di movimento è assai limitata. Soltanto quando l’operatore, con tutto comodo, arriva e finalmente mi libera, posso finalmente recarmi nella stanza comune per la colazione. Gli altri sono contenti di vedermi, mi salutano con entusiasmo.
“Ciao Popolo! Come va, Popolo? Tutto bene?”
Tutti mi chiamano Popolo, e a me sta bene così, perché il mio vero nome l’ho dimenticato. Mi chiamano in questo modo perché quando sono stato portato qui ho pronunciato una frase che a tutti è rimasta ben impressa nella mente: “La sovranità appartiene al popolo!” Non ricordo con precisione per quale motivo articolai quelle parole. Allora, probabilmente, ne conoscevo bene il significato. Ora non più. Però deve essere qualcosa di importante, anche se adesso in gran parte mi sfugge.
Quando le terapie alle quali vengo sottoposto sono meno invasive, nel breve tempo durante il quale la mia mente è più lucida e meno ottenebrata dalle varie sostanze chimiche, affiora qualche barlume, emergono frammenti di antica consapevolezza. Ma nulla è davvero limpido, tutto risulta sempre piuttosto sconnesso.
Io sono il Re! Sono convinto che sia così, anche se poi non sono in grado di dare seguito a tale mia tracotante affermazione. Sono un Re senza corona e senza potere. Cerco di convincere gli altri, tento di indurli a darmi ragione, faccio di tutto per persuaderli, ma con scarsi risultati.
“Che dici, Popolo? Che tu sei il Re? E che lo siamo pure noi? Tutti insieme siamo il Re? Popolo, tu sei completamente matto! Sei pazzo come un cavallo! Sei più folle di tutti noi messi insieme!”
E tutti quanti scuotono il capo, ricominciano a fumare, a sputare, giocare a carte, a guardare la televisione. Gli infermieri invece ridono. Si divertono, loro.
Appena ho fatto colazione, con la pancia piena, mi ritornano le energie. I miei compagni di sventura, invece, rimangono apatici. Il mio bersaglio diventano gli inservienti, o presunti tali. Quei crudeli carcerieri che non perdono mai occasione di infliggermi tormenti. Ma io rispondo loro per le rime. Perché io sono Popolo, il ribelle, quello che si piega ma che non si spezza mai.
“Bastardi! Oppressori! Vigliacchi!” inizio a insultarli. Loro non reagiscono. Sogghignano, ridacchiano, si danno di gomito. Minacciano di richiudermi nella mia stanza, immobilizzato dai lacci di cuoio, imbottito di sedativi.
“Smettila, Popolo! Stai zitto un attimo. Che hai sempre da reclamare?”   
“Dovete ridarmi la mia libertà. Non ho fatto nulla, mi sono solo opposto al vostro sporco sistema. Voglio di nuovo avere la possibilità di decidere, di fare delle scelte…”
“Lo vedi? Stai di nuovo farneticando. Che cosa vorresti decidere, poi? Non stai bene qui? Pensiamo noi a tutto, facciamo in modo che tu sia sereno, che tu non sia assillato da alcun pensiero. Se la smetti di protestare puoi essere felice.”
“Tiranni! Ci avete rubato tutto! Voglio parlare con il direttore della banca! Subito!”
“Il direttore dell’istituto?” E di nuovo qui vigliacchi si sganasciano dalle risate. Mi irridono.
“La banca, l’istituto, sono la stessa cosa. E voi lo sapete benissimo. Siete i servi del denaro! In suo nome opprimete i deboli, li private del loro diritto di scegliere!”
“Popolo, che dici? Oggi sei più folle del solito? Qui cerchiamo soltanto di curare le vostre fragili menti, di dare un ricovero dignitoso a voi disadattati. Tu e tutti quelli come te, pieni di idee strane…”
“Dignità? Proprio voi parlate di dignità? Siete i disgraziati accoliti di un sistema perverso, i paladini della finanza e del mercato, che tutto decidono e tutto governano. Mi fate orrore!”
Sputo contro l’inserviente più grasso, quello che mi è più insopportabile. Lo colpisco. La saliva densa e schiumosa si allarga sul suo elegante doppiopetto, cola lungo la manica. Lui si ritrae disgustato, cerca di pulirsi con un fazzoletto bianco.
“Questo non lo dovevi fare!” Minaccia.
Alzo le spalle, mi passo una mano sulle labbra ancora umide.
“Forza, chiamate il cassiere” dico, ormai svuotato, rassegnato e privo di forze.
“Che dici, Popolo? Chi sarebbe il cassiere?”
“Come, non lo conoscete? È il vostro compagno, quello con la siringa, quello dall’aria truce che non parla mai ma che buca le braccia…”
“Oggi ti sei svegliato male. Non ti faremo nulla, l’importante è che tu stia calmo. Perché non guardi un po’ la televisione? Ci sono tanti programmi interessanti…”
“Quel ritardato mi ha rovinato la giacca!” sbraita ancora il grassone.
“Popolo, mettiti seduto” mi ordina l’altro, quello più mingherlino. Pure lui indossa giacca e cravatta. Pare che qui dentro una tale divisa sia d’obbligo. Non è la stessa cosa per noi… clienti? Sì, loro ci chiamano così… Noi indossiamo una specie di pigiama, e delle pantofole di stoffa.
“Decido io che cosa devo fare. Non scordate che io sono il Re…” La mia voce è stanca. Ho smarrito presto la mia combattività. È difficile opporsi, fare resistenza. Sono troppo stanco.
“Ascolta, Popolo. Se prometti di startene tranquillo, possiamo anticipare quel gioco che ti piace tanto…” Ancora il mingherlino, con la sua vocetta affettata. È il più bastardo di tutti loro, perché è il più astuto, e conosce i miei punti deboli.
“Non è un gioco, è il fondamento di tutto…”
“Va bene, è come dici tu…”
“Facciamolo” dico. Sono confuso, esausto.
“Aspetta, vado a prendere le schede” risponde lui prima di allontanarsi. L’altro continua a non perdermi di vista. Dopo un attimo l’inserviente (l’impiegato?) è di ritorno. Tra le mani ha alcune schede. Me ne porge una, assieme a una matita copiativa.
“Allora, chi candidiamo stavolta?” mi domanda il vigliacco con un gran sorriso di scherno.
“Uh?”
“Vuoi che candidiamo Pino?” aggiunge rivolgendo uno sguardo in direzione di un mio compagno, che dorme con il capo appoggiato sul tavolo.
“Sì” rispondo. “Però anche Mario, i candidati devono essere almeno due.”
“Ah sì? È così che funziona?” E giù una gran risata.
Prendo la scheda e mi allontano di qualche passo. La appoggio contro il muro. Con la mano tremante scrivo un nome, poi traccio su di esso una croce. Ripiego con cura la scheda e la riconsegno ai miei aguzzini.
“Bene, lo scrutinio lo faremo più tardi. Adesso devi riposare.”
“No, non voglio riposare!” urlo, con le mie ultime energie. “Voglio sapere chi ha vinto! Voglio sapere subito chi mi governerà! Voglio sapere chi mi rappresenterà!” Poi le mie parole si trasformano in un grido disperato. La mia mente si annebbia. Prima di perdere conoscenza intravedo lui, il cassiere, armato di siringa.

sabato 12 gennaio 2013

IL PONTE



Scelgo il mio abito più elegante. Lo allargo sul letto e lo osservo. Sì, può andare bene, anche se si rovinerà. Indosso la biancheria, proprio quel completo color malva che a lui piace tanto. Poi vado in bagno, dove finisco di truccarmi. Un maquillage leggero. Appena un po’ di fondo tinta, per ravvivare le mie guance pallide, una passata di matita e, infine, l’irrinunciabile rossetto. Torno in camera, dove mi infilo il vestito. Niente collant, tanto fa caldo. Calzo dei comodi sandali e sono pronta.
Prendo la borsetta e la metto a tracolla. Poi ci ripenso. È pesante, a che cosa mi serve tutta questa roba? Allora la svuoto. Tolgo cellulare fazzoletti di carta bigliettini da visita vari spazzola porta-trucchi assorbenti chiavi di casa e della macchina ricevuta della tintoria scontrini penna agendina libro custodia degli occhiali sporta di stoffa per la spesa calcolatrice tascabile (?) blister con analgesici portafoglio tubetto di crema per le mani sigarette accendino ombrello portadocumenti caramelle carica-batteria e fermacapelli di plastica. Rimetto la borsetta ormai sgonfia sulla spalla ed esco tirandomi dietro la porta. Chiudere a chiave non ha alcun senso.
Sul pianerottolo incontro la mia vicina, la signora Neirotti. Per una volta la saluto con un sorriso. Lei rimane a bocca aperta per la sorpresa e non risponde. Che importa?
Scendo con l’ascensore e finalmente sono in strada. Ho deciso di andare in quel posto a piedi e mi incammino con passo veloce. La tiepida e lieve brezza primaverile mi accarezza il viso e le spalle nude. Socchiudo gli occhi e immagino che questi piccoli tocchi sulla pelle siano quelli delle sue dita delicate. Ho i brividi. E sono fremiti di puro piacere, che mi scombussolano tutta. Al pensiero potrei sciogliermi in un istante. Con fatica ritorno alla realtà. Attraverso con prudenza l’ampio corso molto trafficato. C’è sempre qualche delinquente che non rispetta i semafori. Oltrepasso, quasi senza guardare, il giardino dove ci siamo incontrati tante volte. Dove siamo rimasti per ore a parlare oppure semplicemente a scrutarci negli occhi. Mi sfugge un lungo sospiro. Adesso mi dirigo verso la stazione. C’è una gran confusione: gente frettolosa di ritorno dal lavoro tram bus taxi automobili venditori ambulanti tipi equivoci tossici con lo sguardo vuoto due giovani che si baciano incuranti di tutto ciò che li circonda. Che bello, penso. Poi proseguo. Non mi resta che andare sempre nella stessa direzione, perché ormai sono quasi arrivata a destinazione. Ecco, adesso ci sono.
Mi è sempre piaciuto questo antico ponte. Mi affaccio prima da un lato e dopo dall’altro. Scelgo quest’ultimo, poiché la vista sulla città è più bella, più ariosa. Appoggio le mani sulla spalletta di pietra e inspiro profondamente. Poi guardo in basso, fisso l’acqua marrone che sembra quasi non scorrere, tanto è pigra. Sollevo il capo e guardo il cielo, una folata di vento mi scompiglia i capelli.
“Signorina, tutto bene?”
E questo chi è? Completamente assorta, non l’ho sentito arrivare. È un giovane, carino e dall’aria gentile. Il tono della sua voce è preoccupato. La sua apprensione è rivolta a me.
“Tutto a posto?” ribadisce, inquieto.
Mi volto e gli sorrido. Pochi uomini riescono a resistere al mio sorriso. Almeno, questo è ciò che mi ripete sempre lui.
Il ragazzo, di colpo, si rilassa. Adesso è tranquillo, forse anche un po’ in imbarazzo.
“Tutto a posto, davvero” dico, sempre continuando a sorridere.
Lui annuisce.
“Sa, avevo paura che…” balbetta.
Appoggio le mani sui fianchi.
“Che dici? Guardami. Non vedi quanto sono felice?” dico.
Il giovane ora appare un po’ perplesso. Le sue guance sono avvolte da un tenue rossore.
“Ah! Lei è felice?” domanda.
“Perché? Sei sorpreso? Tu non lo sei, forse?”
Lui fa una smorfia.
“Non tanto, per la verità…”
“Ce l’hai un amore?” domando.
“Eh?”
“Hai una ragazza? Sei innamorato?”
Non risponde. Mi osserva.
“Scusa, non volevo essere indiscreta. Il fatto è che non posso fare a meno di esternare la mia gioia. Ho incontrato un uomo stupendo, che mi ama. Dice che è pazzo di me, che pensa sempre a me, che sono una donna bellissima, meravigliosa. Dice che non può proprio fare a meno di me!”
“Sembrerebbe tutto perfetto…” azzarda il giovane, sempre più sbalordito dal mio atteggiamento.
“E lo è!” ribatto io con foga.
“Be’… se è così allora sono contento per lei.”
“Ti ringrazio. Vedi, in tutta la mia vita non sono mai stata così felice. È una sensazione indescrivibile, di gioia assoluta!”
“Mi scusi se l’ho disturbata. Per un attimo avevo temuto che…”
“Non preoccuparti, sei stato veramente gentile e ti ringrazio” dico, e nello stesso tempo gli mando un bacio.
Lui, a disagio, china il capo e si allontana.
Adesso sono di nuovo sola, qui sul ponte. Posso di nuovo pensare a lui, al mio grande amore. No, davvero non sarò mai più così appagata, in una condizione di tale beatitudine. In pace con me stessa, con tutti.
Sollevo un po’ la gonna, per essere più libera nei movimenti. Scavalco il parapetto con entrambe le gambe. No, non avrò mai più la possibilità di morire contenta e innamorata. Mai più. Sorrido, beata. E mi butto.

giovedì 10 gennaio 2013

LA BATTAGLIA



Il campo di battaglia è sempre lo stesso. Una vasta e piatta pianura, cosparsa di chiazze chiare e scure. Anche oggi il sole è sorto all’improvviso. Se sollevo il capo e lo guardo, la sua luce gialla mi ferisce gli occhi. So che starà lassù a illuminare di un chiarore senza ombre questo tragico scenario fino al termine dello scontro. Poi le tenebre caleranno, repentine, e avvolgeranno tutti, i vivi e i morti. Scruto in lontananza, in direzione dell’orizzonte, e già li vedo. Sono loro, i miei nemici, i nostri nemici. La loro armata è schierata in perfetto ordine; le fila sono ben allineate e strettamente serrate. Appaiono ben decisi, risoluti. Davanti marciano le truppe leggere, con le loro uniformi nere. Dietro, tutti gli altri. Una massa scura, compatta e temibile. Dimenticavo di dire che il nero è il loro colore.
Non crediate che sia la prima volta che mi trovo ad affrontare una simile situazione. Mi limito a descrivere ciò che vedo di solito, tutte le volte che devo combattere. Ormai l’avrete compreso, ma lasciate che lo dica ugualmente: sono un soldato. Il mio mestiere è la guerra, e la mia è una guerra che non finisce mai. Non stupitevi, è così. Fidatevi di me, vi prego.
Lo so, in guerra si può morire, e a me è capitato di morire tante volte. Vorrei raccontarvi subito ciò che si prova quando si muore, ma forse non c’è tempo. Attorno a me noto già una grande animazione. Vedo i miei compagni che si preparano, incrocio i loro sguardi preoccupati. Il nemico sta per attaccare? No, impossibile. Loro aspettano, aspettano perché sanno bene che tocca a noi dare inizio alle ostilità. È così, è la regola. Tocca sempre a noi.
Abbasso il capo ed esamino la mia uniforme. Mi piace, la mia uniforme di colore bianco sporco, cucita con stoffa spessa e resistente. Il suo taglio è semplice e asseconda in pieno la mia natura sobria. Verifico che tutto sia in ordine: i bottoni, la cintura di cuoio e tutti gli altri accessori. L’ultima occhiata è per i miei stivali, comodi e robusti. E sempre lucidi. Con un gesto quasi inconsapevole, mi calco in testa il pesante elmo, poi imbraccio le armi. Ecco, adesso anch’io sono pronto.
Il segnale è trasmesso dalle retrovie. Poco alla volta giunge fino a noi, alle prime linee, quelle dei fanti. Le mie. L’ordine è di avanzare, senza alcun indugio.
Le prime fasi della battaglia sono quelle che più prediligo. L’esercito nemico è ancora immobile, in attesa delle nostre mosse. Io e i miei compagni avanziamo veloci nella terra di nessuno, poco alla volta ci stacchiamo dagli altri reparti, che ci seguiranno solo in un secondo momento. Fate attenzione però: queste prime fasi dello scontro sono molto importanti e spesso risultano decisive per l’esito finale.
In questo istante non penso a nulla. Mi concentro soltanto sulla mia posizione, cerco di mantenere le giuste distanze tra i reparti. Siamo allo scoperto. Dietro di noi il resto delle truppe è in attesa mentre l’esercito nemico inizia finalmente ad avanzare, guardingo e prudente.
Tocca sempre a noi, alla fanteria, sostenere il primo contatto con gli avversari. Che dite? Che è quello il momento in cui si manifesta davvero la paura di morire? No, vi sbagliate. In quegli attimi è presente solo la paura, intesa nella sua essenza più pura, e nient’altro. Si tratta di una paura indefinita, vaga, una sensazione impossibile da esprimere e da raccontare. Nessuno di noi teme la morte, l’annientamento. Non è quello ciò che ci spaventa. Sappiamo bene che risusciteremo, ne siamo sicuri perché finora è sempre stato così, e nulla ci fa credere che questo non possa più avvenire. L’angoscia che ci assale e che può paralizzare è ben più sottile. Non capite vero? Non importa, comprenderete in seguito, ve lo assicuro.
Trascorre un po’ di tempo, e ormai entrambi gli eserciti sono dislocati sul campo di battaglia. Scontri? Certo che ci sono degli scontri! Numerosi, violenti, drammatici. C’è grande confusione. Alcuni cavalieri mi superano di slancio poi, di colpo, tornano indietro, eseguono movimenti bizzarri, che in apparenza paiono indecifrabili. I cavalli sono sudati, hanno la schiuma alla bocca, i loro occhi sporgono terrorizzati dalle orbite. Lo confesso: quelle bestie mi fanno paura. Non soltanto quelle nemiche, pure quelle montate dai miei compagni d’armi. Che dite? Quegli animali sono belli, leggiadri, corrono con le criniere al vento? Pazzi! Non è per niente così! Io vedo soltanto ombre scure e minacciose che mi circondano. Dalle groppe nervose di quegli enormi sauri uomini incattiviti dalla disperazione urlano agitando lunghe scimitarre. Cercano di colpire, a volte sforzandosi di individuare un bersaglio preciso, a volte vibrando tremendi fendenti alla cieca. Volano teste, e sono teste di fanti. In fondo, penserete, si tratta di una bella morte, rapida e chirurgica.  La migliore possibile. L’immagine vi affascina, forse? Osate addirittura sorridere a tale riflessione? Bene, provate allora a raffigurarvi questo: non più il capo che spicca dal corpo, in modo netto, preciso, bensì un colpo, un solo colpo, indirizzato al ventre. E tutto ciò che segue. L’avere coscienza delle carni violate, il brivido freddo, l’incredulità. Pensate alle mani che abbandonano le armi e stringono disperate l’addome. Pensate al patetico, inutile sforzo di trattenere i visceri puzzolenti e fumanti che scivolano verso terra e lì si spargono disordinati. Pensate al terrore e al dolore disumano che angustiano lo sventurato soldato che solo la morte ormai può salvare. Fatto? Credo di sì, perché ora avverto che non sorridete più.
Sto avanzando, proprio al centro dello schieramento. Di fronte, sulla mia diagonale, scorgo un arciere nero. Imbraccia l’arco e si appresta a scoccare il dardo. Tuttavia la fortuna mi assiste. Perché tocca a me, mentre lui, nel frattempo, rimane immobile. Stringo le mani sulla lancia e sferro un colpo violento. La lama si conficca in profondità nel suo petto. L’arciere crolla a terra, la sua freccia vola innocua verso il cielo. Allora estraggo con fatica la lancia insanguinata da quelle povere carni che ancora sussultano in preda agli spasmi dell’agonia e proseguo, tremante.
Ora comincio a essere stanco. Mi sento frastornato, le gambe sono diventate pesanti. Eppure non mi posso fermare. Un fante non può mai arretrare, queste sono le regole. Sui lati esterni del campo di battaglia vedo con soddisfazione le nostre truppe pesanti che avanzano e poi occupano la posizione. Osservo gli enormi e paurosi carri, carichi di uomini agguerriti, travolgere e schiacciare la fanteria nemica. Le loro gigantesche ruote non sollevano un granello di polvere. Perché polvere non ce n’è. Qualcuno muore urlando, altri in assoluto e agghiacciante silenzio. Avanti, ancora avanti, poco alla volta. Nei precedenti scontri non mi è mai accaduto di incunearmi così in profondità nelle linee nemiche. Se sono sorpreso? Sì, lo sono, tanto da non sapere che cosa fare. Attendo ordini, che per il momento non giungono. Intravedo un nuovo varco e mi ci introduco, insensibile ai pericoli. Subentra in me un senso di esaltazione che non avevo mai provato prima. Avrò la buona ventura, almeno per una volta, di assistere all’epilogo dello scontro? Perché dico questo? D’accordo, è giusto che lo sappiate: non mi è mai capitato di sopravvivere a una battaglia. La morte, implacabile, mi ha sempre ghermito. In modo sempre differente ma sempre brutale. Tuttavia non ci voglio pensare, qualsiasi distrazione mi potrebbe essere fatale.
Mi guardo attorno e sono pervaso dalla disperazione. Attorno a me è in corso una vera e propria carneficina. Il terreno è disseminato di corpi di uomini e di bestie, a bagno nel loro sangue scuro. Membra e zampe che si contraggono spasmodiche, grida, lamenti, pianti e nitriti disperati. Ferite spaventose, mutilazioni orrende. Invaso dall’orrore della situazione che vivo, mi spingo avanti barcollando attraverso le retrovie avversarie. Come? Non ho sentito. Potete ripetere, per favore? Scusate, ma ho come l’impressione di essere diventato sordo. Sì, adesso ho capito. Capisco, la vostra curiosità e più che lecita ma la risposta è no. È impossibile assuefarsi a queste scene anche se sono già state viste e vissute tante volte. Con il tempo si diventa indifferenti alla morte, non alla sofferenza.
La mia vista è annebbiata dalla stanchezza e dal raccapriccio e quasi non mi accorgo di loro, li avvisto all’ultimo momento. Eppure sono proprio di fronte a me, il sovrano nero e il suo visir. Il consigliere giace, colpito a morte, ai piedi del suo re. L’ha servito fino all’ultimo, con fedeltà e abilità, ma tutto è stato vano. Sorpreso e incredulo, mi rendo conto che il mio esercito sta vincendo. Il comandante nemico è chiuso in un angolo, non ha più vie di fuga. Da un lato lo circondano alcuni mastodontici carri, sull’altro dei cavalieri dall’uniforme chiara gli impediscono ogni movimento. E proprio uno di loro mi rivolge da principio un debole cenno, che poi si trasforma in un vero e proprio incitamento. Subito non comprendo, poi la mia mente si illumina e il mio corpo stremato raccoglie le ultime energie. Che dite? Voi l’avevate capito subito? Siete ancora qui? Sciacalli, andate via! Adesso andate via! Vi supplico!
Il sovrano nemico, possente e bene armato, potrebbe spazzarmi via, potrebbe rubarmi la vita in un attimo, ma invece rimane immobile. Non avrebbe comunque scampo e lo sa. Allora mi sorride. Un sorriso amaro e rassegnato, ma fiero. Distolgo lo sguardo, compio un passo a sinistra, sono costretto a farlo, e mi scaglio su di lui impugnando il lungo coltello. Lo colpisco alla base del collo. Il sangue sprizza copioso e mi inonda il viso.
I miei compagni lanciano un lungo urlo di trionfo.


“Scacco matto!” esclama compiaciuto l’uomo con il turbante.
Il suo avversario si alza in piedi e si inchina. Poi spegne la luce e i due uomini escono.

domenica 6 gennaio 2013

LEI


Amo essere avvolto dall’oscurità.
Ricordo le lunghe serate estive quando, da ragazzo, me ne stavo sdraiato sotto il terrazzo di casa, ad assorbire gli odori e gli umori della notte. Mi piaceva stare immobile, cullato dal frinire dei grilli, la mente impegnata in mille fantasticherie. Allora avevo tutta la vita davanti, e ne ero ben consapevole. Tuttavia quella prospettiva non mi allietava più di tanto, al contrario mi impauriva.
Sono sempre stato un tipo riflessivo, portato più alla contemplazione che all’azione. Adoro osservare l’esistenza, la mia e quella degli altri, stando attento a non interferire in maniera eccessiva, a non provocare mutamenti di rilevo in quell’equilibrio così delicato. Non sempre ci sono riuscito. In molte circostanze, le mie cautele si sono rivelate vane.
Nulla hanno potuto le mie ansie e i miei timori sul trascorrere del tempo. Quell’entità indecifrabile, alla fine, mi ha sopraffatto. Sono invecchiato, un giorno dopo l’altro, senza quasi rendermene conto. Mi domando che cosa ho fatto in tutti questi anni, e non so dare una risposta.
La campagna è una lontana memoria dell’infanzia. Vivo in città da molto tempo, in questa città che mi ucciderà. Non sono in grado di porre rimedio a tale condizione, non ne ho più la forza; la rassegnazione mi impone la sottomissione e pagherò, senza sconti, questo doloroso tributo.
Intravedo, nella penombra, i muri che mi circondano, che mi opprimono. Mi sistemo meglio sulla poltrona, bevo un sorso d’acqua e cerco di concentrarmi sulla musica che sto ascoltando. Quella musica che non riesce più a trasmettermi emozioni, da cui non ricavo più, da qualche tempo, alcuna gioia.
Sono stanco, e la mia mente è affaticata più del corpo, che pure ormai è rigido e legnoso.
Non ho più speranze, non ho più progetti. Riesco soltanto a guardare indietro. Che cosa potrei fare che ancora non ho fatto? Nulla. Al massimo, potrei ripetere all’infinito azioni che ho già compiuto tante volte. Potrei commettere, di nuovo, gli stessi errori, rivivere l’identica noia.
Penso con intensità alle persone con le quali ho condiviso parti della mia vita. Qualcuna non c’è più, altre mi hanno lasciato, altre ancora le ho abbandonate io. Rifletto sui miei comportamenti, sul male che posso aver fatto loro, sul bene che ho ricevuto. Non c’è mai stata, da parte mia, l’intenzione di ferire, di causare sofferenza. Eppure, mi rendo conto, l’ho fatto, e mi dispiace. Non chiedo il loro perdono, ho bisogno della loro comprensione.
Domani compirò settant’anni. Ho raggiunto questo traguardo in punta di piedi, con circospezione, e non mi interessa sapere se ve ne saranno altri. Soprattutto, non lo condividerò con nessuno, perché sono solo. Non sono troppo turbato dalla mia attuale situazione. Ormai sono abituato alla solitudine. Sapevo, fin dall’inizio, che sarebbe andata a finire così. D’altra parte, l’essere umano nasce solo e muore solo. Alla fine, tutto il resto non conta. Tutto è dimenticato.
Passo le mani sul viso, seguo i solchi profondi delle rughe. Il tempo mi ha rimodellato, come l’acqua e il vento fanno con le rocce. E presto mi abbatterà. Sorrido tra me, questo pensiero cupo riesce ancora a farmi sorridere.
Squilla il telefono, ma io rimango immobile. L’avevo quasi dimenticato, quel suono tormentoso. Nessuno più mi cerca, ed io non sento mai il bisogno di parlare con qualcuno. Non ho più nulla da dire, ho già speso tutte le mie parole.
Chiunque sia, insiste a lungo, e non riesco più a sentire la musica. Impreco e poi mi alzo, infastidito. Alla fine rispondo.
“Ciao” dice una voce, che riconosco subito. Come non potrei? Non può che essere Lei, ne sono sicuro.
“Ti aspettavo” dico.
Una risata sommessa.
“Mi hai riconosciuto?”
“Sì.”
“Mi stavo annoiando.”
“Lo so, altrimenti non mi avresti chiamato.”
“So a che cosa stavi pensando.”
“Tu sai sempre tutto.”
Altra risata.
“Mi conosci bene.”
“Tutti ti conoscono.”
“Ma tutti fingono di non conoscermi.”
“È vero.”
“Non hai paura di me?”
“Solo la vita ormai mi fa paura.”
“Sei un tipo strano.”
“Me lo dicono sempre.”
“Sai perché ti ho cercato?”
“Sì.”
“Dimmelo.”
“L’hai detto tu, perché ti stavi annoiando.”
“Non c’è un altro motivo?”
“No, credo di no.”
“Ne sei convinto?”
“Sì.”
“Se le mie intenzioni fossero serie, tu saresti pronto?”
“Sì, se lo fossero. Ma non lo sono, e tu lo sai bene.”
“Perché dici questo?”
“Perché ho avuto a che fare con te tante volte, pure se non in maniera diretta. Di solito non ti comporti in questo modo. In realtà, non mi vuoi. Ti stai soltanto prendendo gioco di me.”
“Sì, è vero. Hai ragione.”
“Conosco in quale maniera tu ottieni il massimo appagamento.”
“Sei davvero un tipo strano, ma vedo che hai compreso tutto. Hai capito anche me.”
“L’istante esatto lo conosci soltanto tu e nessun altro. Ed è questo ciò che ti soddisfa, la scelta dell’istante.”
“Hai ragione di nuovo. Tu hai colto perfettamente l’essenza del mio compito. E il sottile piacere che lo accompagna. La scelta dell’istante è l’elemento che appartiene a me sola. A tale riguardo, il mio giudizio è inappellabile.”
“Quella tua esclusiva prerogativa è ciò che ci permette di vivere.”
“Sei profondo.”
“Mi hai concesso il tempo necessario per diventarlo.”
Altra risata.
“Adesso devo lasciarti.”
“Anch’io. Stavo ascoltando musica e tu mi hai disturbato.”
“Ti chiedo scusa. Sono stata attirata dai tuoi pensieri.”
“Sono sempre gli stessi. Da tanto tempo.”
“Stavolta possedevano una maggiore intensità.”
“Può darsi.”
“Arrivederci.”
“A presto.”
Riaggancio e torno sulla poltrona. Poi guardo l’orologio e vedo che si è fatto tardi. È ora di andare a letto.