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lunedì 18 novembre 2013

SVEGLIA!





Io questo non lo so, se succede solo a me


Con le altre non parlo mai, siamo così distanti

Una questione assai spinosa, quasi da batticuore

La fiducia in me è assoluta, chissà se meritata

Tanto tempo a ripagare, senza mai perdere un’alba

Ma adesso sono stanca, e l’ansia non svanirà mai

Un tormento senza fine, scandito dal mio passo 

Notte e giorno ad aspettare, vigile e carica come una molla

Il mattino è la mia ora, stabilita mai da me

Non ce la faccio proprio più, penso che mi butterò

Per paura di non destarmi, non ho dormito mai

Perché, infine mi domando, chi sveglia la sveglia?

domenica 28 luglio 2013

PARTE DEL GIOCO


La consegna avvenne nel parcheggio del centro commerciale. L’uomo stava aspettando in macchina già da un po’ tempo perché si era presentato all’appuntamento in anticipo. Non riusciva a nascondere una certa ansia, e la esprimeva accendendo una sigaretta dietro l’altra. Teneva il finestrino socchiuso e non completamente aperto, forse a causa di un inesplicabile timore, e l’aria all’interno dell’abitacolo era diventata ormai irrespirabile. Durante quell’interminabile attesa osservava le persone entrare e uscire dal supermercato appese agli enormi carrelli, alcuni vuoti e altri colmi. Ecco, quelli erano i cittadini, la gente comune, la cui maggiore preoccupazione era quella di arrivare a fine mese centellinando il misero stipendio, quel popolo anonimo tanto evocato nei vivaci e vuoti dibattiti televisivi. Lui stesso amava parlarne, sebbene la sua conoscenza di tale realtà fosse piuttosto superficiale.
L’uomo si distrasse dai suoi pensieri quando vide una grossa automobile parcheggiare proprio accanto alla sua. Ne scesero due individui, che sembravano quasi gemelli, vestiti con giacca e cravatta. Uno rimase indietro mentre l’altro si avvicinò al suo finestrino e lo invitò con un cenno ad abbassarlo. Lui obbedì, e fu colto da una improvvisa agitazione. Il momento fatidico era arrivato.
Il tipo si sfilò gli occhiali scuri, introdusse una mano nella giacca e, dopo essersi guardato attorno, estrasse una busta marrone. Senza dire una parola la porse all’uomo seduto in auto il quale la gettò sul sedile del passeggero. Toccò l’involucro gonfio solo un attimo e subito lo depositò perché ebbe la vivida impressione che quel plico scottasse.
L’uomo incravattato eseguito il suo compito si scostò, per lasciare posto al compare che si affacciò al finestrino e quasi vi introdusse il viso spigoloso. Parlò con voce cavernosa.
“Signor ministro, il nostro comune amico la ringrazia e spera che il vostro rapporto di collaborazione possa proseguire anche in futuro. Mi ha incaricato di dirle che, se lei lo desidera, può accedere in qualsiasi momento ai benefici aggiuntivi della transazione.” Dicendo ciò porse all’uomo in macchino un piccolo cartoncino, una specie di biglietto da visita sul quale erano stampati tre nomi seguiti da tre numeri di telefono. Il ministro, sempre più inquieto, artigliò il pezzo di carta e lo scorse con gli occhi: Samantha, Alexia e Veronica, questo c’era scritto.
“E chi sarebbero?” domandò.
“Queste tre simpatiche ragazze sarebbero liete di incontrarla per offrirle qualche ora di piacevole svago” rispose l’altro.
Il ministro finse di scandalizzarsi. “Ma io sono sposato, e amo mia moglie!”
Il suo interlocutore sorrise, mettendo in mostra una dentatura da squalo. “Signor ministro, qui non si sta parlando di amore, ma di fantastiche sgroppate. Oppure ci siamo sbagliati e i suoi gusti…”
Fu bruscamente interrotto da un cenno nervoso. L’uomo ridacchiò, disse che l’offerta era da ritenersi sempre valida e poi raggiunse il compagno sull’automobile che era già stata messa in moto. Ripartirono lasciando il politico preda di una strana angoscia. Poco per volta si riprese, dopo aver fumato l’ennesima sigaretta. Poi mise la busta in una cartella di cuoio, avviò l’auto e sparò al massimo l’aria condizionata. Era completamente fradicio di sudore. Uscì dal piazzale, che ora era quasi deserto, quindi accese la radio ma subito dopo la spense perché la musica e le chiacchiere lo infastidivano. Alla fine si diresse verso il palazzo del Parlamento. Quel giorno i lavori dell’aula erano sospesi, tuttavia lui sapeva che lo sportello bancario interno sarebbe stato aperto. Doveva depositare quei soldi da qualche parte e, poiché non disponeva di conti correnti in qualche paradiso fiscale, ritenne che per il momento l’unica soluzione praticabile fosse quella di parcheggiare quella somma sull’unico conto posseduto a suo nome. In seguito avrebbe riflettuto sul da farsi, quando fosse stato più tranquillo, e avrebbe ripreso a ragionare con maggiore lucidità.
Era preoccupato, ma non era affatto pentito per ciò che aveva fatto. Ne era soprattutto sorpreso. Quando si era trattato di decidere se accettare o meno quella generosa proposta, non aveva avuto alcuna esitazione. In fondo si trattava soltanto di omettere alcuni controlli, il suo ruolo nella vicenda sarebbe stato del tutto passivo. Nessun scrupolo lo aveva fatto tentennare. Aveva conosciuto, da un istante all’altro, una parte di sé che prima non gli si era mai rivelata. Nondimeno quella sinistra peculiarità già esisteva, ma era sepolta in profondità nel suo animo in attesa di emergere al verificarsi della giusta occasione. E così era avvenuto.
Il ministro entrò nel palazzo. Quasi non badò ai saluti deferenti degli agenti forze dell’ordine e dei commessi al suo passaggio. Ormai vi era abituato, nonostante fossero trascorsi soltanto pochi mesi da quando il suo vecchio amico Luigi, catapultato all’improvviso sulla più prestigiosa poltrona del Paese, si era rivolto a lui per proporgli quell’incarico così prestigioso: ministro delle Attività Produttive. Ovviamente Luigi era stato chiaro: il suo governo, sostenuto da una maggioranza del tutto anomala, sarebbe durato poco. In ogni caso lui aveva deciso di accettare ugualmente. Quella funzione gli avrebbe comunque fornito una grande visibilità, e lui di ciò ne aveva un disperato bisogno. La sua carriera accademica era a un punto morto: da anni sperava di essere nominato docente ordinario ma questo non avveniva mai. Nel mondo universitario era da tutti considerato uno dei ricercatori più brillanti ma, in concreto, i riconoscimenti e le lodi sperticate non avevano mai fruttato nulla.
Il ministro si diresse allo sportello bancario ed effettuò il versamento. L’operazione si rivelò un po’ complessa anche perché decise di avvalersi della cassa automatica. Lottò a lungo con i tasti e le schermate luminose, in imbarazzo a causa di quella spessa mazzetta di denaro che teneva tra le mani, ma alla fine riuscì a condurla a termine. Si sentì più sollevato, quasi in uno stato euforico, e il suo primo pensiero fu quello di telefonare a casa. Sua moglie rispose al primo squillo.
“Ciao tesoro! Tutto bene? Sai, prima ti ho visto in televisione.”
“Davvero? E che cosa stavo facendo?” Per un attimo ripensò al piazzale del centro commerciale.
“Stavi parlando con un uomo dai capelli bianchi.”
“Ah! È il mio collega tedesco, ma si tratta di un incontro che è avvenuto ieri. Oggi la situazione è più tranquilla.”
“Che cosa hai fatto questa mattina?”
“Nulla di particolare, mi sono limitato a prendere una tangente.” Perché aveva detto una cosa del genere? Per un semplice motivo: sua moglie non l’avrebbe di sicuro preso sul serio. E così fu.
“Bravo! Spero non sia l’ultima, così ci potremo comprare una casa al mare.”
“E anche in montagna” aggiunse lui, stando al gioco.
“In montagna? D’accordo, ma soltanto quando avremo anche la barca. Quindi datti da fare!”
“Farò il possibile. Sai, le occasioni non mancano…”
“Non ne dubito. Povero caro, in mezzo a tutta quella gentaglia. Che fai? Tornerai a casa presto?”
Per un attimo il ministro ebbe la tentazione di dire di sì, ma si bloccò.
“Non lo so, sarò impegnato in un paio di riunioni. Quei dannati incontri si sa quando iniziano ma mai quando finiscono. Potrei fare notte.”
“Poverino! Per questo sei sempre così stanco.”
“Prima o poi mi riposerò. Adesso ti saluto, dai un bacio a Marco e a Carlotta da parte del loro papà.”
“Va bene, ciao amore.” Riattaccarono.
Perché aveva detto a quella santa donna che sarebbe rientrato tardi? In realtà non aveva alcun impegno. Certo, avrebbe potuto recarsi nel suo ufficio al ministero, dove c’era sempre qualche faccenda di cui occuparsi, viste le condizioni miserevoli in cui si trovava l’industria nazionale, ma lui non ne aveva nessuna voglia. Si sentiva pigro e svuotato, come se qualcuno lo avesse prosciugato della linfa vitale. Decise di fare una passeggiata nel Bastimento, così veniva chiamato quel lungo e ampio corridoio che i parlamentari utilizzavano per sgranchirsi le gambe tra una votazione e l’altra, e magari prendersi un caffè ristoratore. Quel giorno il vasto ambiente era pressoché deserto. Alcune sagome si muovevano meditabonde, pensierose, simili a fantasmi. C’erano un paio di capannelli, dai quali provenivano ogni tanto voci che parevano un po’ alterate. Tutta una finzione. Il ministro, evitando ogni presenza, puntò deciso verso il bar. L’aveva quasi raggiunto quando un uomo anziano, accomodato su un divanetto, gli ghermì un lembo della giacca e lo costrinse a fermarsi. Lo invitò a sedersi accanto a lui. Obbedì malvolentieri, nel frattempo aveva riconosciuto quella cariatide. Si trattava del vecchio Erminio Donzelli, un passato da parlamentare in almeno dieci o dodici legislature e più volte ministro in svariati dicasteri. Aveva anche ricoperto per lungo tempo incarichi direttivi nel partito del ministro, ne era stato segretario. Insomma, una specie di monumento vivente che, attualmente, non partecipava più all’attività politica, e ciò solo per evidenti limiti legati all’età. Tuttavia il vegliardo non rinunciava alla sua visita giornaliera a quell’assurdo teatrino al quale aveva dedicato l’intera vita e dove aveva compiuto, a suo dire, gesta memorabili.
“I miei ossequi, signor ministro.” Il vecchio era completamente calvo. Portava occhiali dalla montatura nera e con le lenti molto spesse. Di certo non ci vedeva un accidenti. In mano aveva l’immancabile pipa spenta, un elemento che lo aveva sempre contraddistinto. Indossava un abito striminzito che aveva visto tempi migliori, e dal suo corpo proveniva un vago tanfo di sudore e vecchiaia.
Il ministro annuì, un po’ infastidito. Tuttavia tentò di dissimulare il più possibile la sua contrarietà. Non voleva mancare di rispetto a quell’avanzo del passato incarnato in forma più o meno umana.
“Da tempo desideravo fare la sua conoscenza” proseguì Donzelli con la sua voce catarrosa. “Mi avevano parlato molto bene di lei, al partito, e quando ho saputo che era stato nominato ministro ne sono stato contento. E sono stato piacevolmente sorpreso quando lei ha rinunciato completamente alla scorta. Un gran gesto, che è stato molto apprezzato dall’opinione pubblica. Vede, abbiamo un disperato bisogno di rinnovare la nostra classe politica e quando giovani motivati e capaci come lei riescono ad emergere ciò deve essere per tutti motivo di profonda e sincera soddisfazione.” Il vecchio fece una pausa, per riprendere fiato, mentre il ministro  dovette combattere contro la sensazione di noia provata di fronte a quell’eloquio così ampolloso e antiquato. Ancora una volta non aprì bocca e si limitò ad annuire.
“Viviamo tempi difficili. La crisi economica ha minato le certezze dei cittadini. In una fase drammatica come quella attuale il popolo si rivolge con speranza ai propri governanti, confida in loro, si augura che le forze migliori del Paese siano in grado di trovare e adottare delle soluzioni che permettano di alleviare le sofferenze del vivere quotidiano. Soltanto la politica, la buona politica, può indicare la via per la salvezza. Ma così non è. La gente è stufa, non si fida più degli attuali governanti, i quali non fanno nulla invertire tale negativa tendenza. Anzi, con i loro comportamenti, contrassegnati dall’incapacità e dalla disonestà, non fanno altro che alimentare sempre di più il sentimento dell’antipolitica. E guardi, mio caro ministro, non finirò mai di sottolineare quanto sia importante la questione morale, l’etica dell’uomo politico, che deve essere di gran lunga più elevata rispetto a quella del comune cittadino. Essa deve rappresentare un faro, una guida alla quale tutti devono ispirarsi nel loro agire quotidiano. Uno specchiato esempio per le giovani generazioni che, ormai prive di ideali, annaspano nel vuoto.” Donzelli smise di parlare di colpo. Era stanco, un rivolo di saliva gli colava dall’angolo della bocca. Il ministro, dal canto suo, stava per abbioccarsi. Si riscosse e approfittò dell’attimo di incertezza del vecchio per alzarsi, stringergli la mano ossuta e salutarlo.
“Si ricordi che nutriamo molta fiducia in lei” disse Donzelli con un filo di voce.
“Farò il possibile per meritarla” disse il ministro mentre già si allontanava. Si rese conto che quelle erano le uniche parole che avesse pronunciato. Maledì tra sé la mummia e rinunciò alla sosta al bar. Non voleva ammetterlo ma quell’importuno incontro lo aveva indisposto e in certa misura anche turbato. Decise che doveva svagarsi, distrarsi in qualche maniera. Inserì la mano in tasca e afferrò quel cartoncino che gli era stato dato non più di un paio d’ore prima. Perché no? Cercò un posto un po’ appartato, e non faticò trovarlo, prese il cellulare e compose il primo numero, quello che corrispondeva a quella tale Samantha. La donna rispose subito, quasi stesse aspettando la sua chiamata. Fu lapidaria, si limitò a indicare un indirizzo e un’ora.
“D’accordo” riuscì a rispondere il ministro con voce tremante. Prima di raggiungere il luogo dell’appuntamento fece una sosta in un anonimo bar di periferia dove nessuno mostrò di riconoscerlo e dove si scolò due cognac uno dietro l’altro. L’effetto fu esplosivo, dal momento che dopo la colazione non aveva più mangiato nulla. E da allora erano trascorse parecchie ore. Poi risalì in macchina.
Quando il ministro uscì da quell’appartamento era già buio. Di ciò che era accaduto durante l’intero pomeriggio e nella prima serata non aveva che un vago ricordo. Rammentava il corpo scultoreo della ragazza, i suoi vaporosi capelli rossi e quasi nient’altro. Forse perché aveva continuato per tutto il tempo a bere, oppure a causa della polverina bianca che aveva sniffato, per la seconda volta nella sua vita. La sua precedente esperienza risaliva ormai a più di dieci anni prima, e quella volta si era ripromesso di non cascarci più. Per molto tempo era riuscito a mantenere quel virtuoso proponimento. Si sentiva stanchissimo, in parte per via di tutte quelle acrobazie sessuali che di sicuro c’erano state, pure se in verità non le ricordava chiaramente, in parte perché era ancora ubriaco e sotto l’effetto della magica limatura.
Stabilì di tornare a casa a piedi anche perché non era in grado di guidare. In ogni caso non voleva rischiare di essere fermato per qualche controllo: sarebbe stata una situazione piuttosto imbarazzante e non c’era davvero bisogno di qualche altro scandalo legato a un uomo politico. Inoltre camminando avrebbe potuto smaltire i residui tossici accumulati in quell’incredibile giornata. Si avviò barcollando e trascinando i piedi e si smarrì quasi subito. Non conosceva per nulla quella zona. Dopo una mezz’ora di estrema sofferenza si ritrovò in un vicolo che sembrava senza uscita. Non aveva nessuna voglia di tornare indietro, eppure non poteva proseguire e la sua mente era ancora intorpidita. Quindi si fermò e rimase in attesa di chissà cosa finché fu avvicinato da una persona. Un giovane, vestito tutto di nero e con il cappuccio della felpa calato sugli occhi, al quale chiese indicazioni. L’altro non rispose e tirò fuori un coltello. Le sue intenzioni così furono chiare. Il ministro reagì, e fu lui il primo a stupirsi per quel suo insolito comportamento.
“Che cazzo vuoi?” gridò rivolto all’aggressore. Le sue parole rimbombarono nello stretto vicolo. Nessuna finestra si aprì.
“Dammi tutto ciò che hai oppure ti buco” sibilò il ragazzo, sorpreso per quell’inaspettata ribellione. In base alla sua ormai discreta esperienza tipi del genere, ancor prima di cedere portafoglio e orologio d’oro, si pisciavano nei pantaloni.
“Vai a farti fottere! Non sai chi sono io? Sono un ministro! Un tuo governante! E vuoi sapere quello che ho fatto oggi? Lo vuoi davvero sapere? Ho preso una mazzetta alla faccia tua e di quella dei coglioni come te! Tanti soldi, hai capito? Sono un ladro, ma non della tua risma, schifoso mentecatto straccione, il mio è tutto un altro livello!”
Il giovane delinquente rimase ammutolito. Quell’uomo era forse pazzo? Sbronzo? Impasticcato? O stava dicendo la verità?
“Guarda! Questo è il mio tesserino da parlamentare, non ti sto raccontando fandonie. Tu invece sei soltanto un povero disgraziato. E sai che cosa ho fatto durante l’intero pomeriggio, e poi ancora? Mi sono scopato una puttana! Gratis! Hai capito, stronzo? Gratis! Tu la puoi soltanto sognare una gnocca del genere. Beneficio aggiuntivo, lo chiamano nel mio ambiente. Tieni, tieni i soldi e sparisci dalla mia vista, brutto rotto in culo!”
Il ladruncolo era sbigottito. Indietreggiò, sempre impugnando il coltello. Non si chinò a raccogliere le banconote che quello squilibrato aveva gettato a terra. Raccolse invece il tesserino, che nella foga era anch’esso finito a terra. Lo guardò sotto la luce del lampione. Sembrava davvero autentico, e poi gli sembrava di aver già sentito quel nome e visto quel volto, forse in televisione, in quegli assurdi programmi nei quali ognuno cercava di sovrastare la voce degli altri e alla fine non si capiva mai nulla. Glielo tirò addosso.
“Non li voglio! Non li voglio i tuoi sporchi soldi!” gridò il ragazzo prima di allontanarsi di corsa.


sabato 27 luglio 2013

RIPIEGO


Mentre tutto sta procedendo per il meglio arriva quella telefonata. In realtà sei tu che hai provocato la chiamata, ma questo è un particolare del tutto irrilevante, ciò che davvero importa sono le conseguenze.
Prima c’è stato un rincorrersi, durato una intera mattinata, senza che mai sia avvenuto l’incontro. Se tale evento si fosse verificato, chissà, tutto il resto avrebbe imboccato una diversa direzione. Ma così non è stato e adesso è inutile recriminare. I rimpianti non consentono di costruire nulla, al più causano distruzione.
Il tono, dall’altra parte, è gioviale, quasi scanzonato così come spensierata e disinvolta è sempre quella persona. Tu ci sei ormai abituato, stai al gioco, ma dopo qualche parola leggera scambiata con noncuranza avviene un’incrinatura. La fenditura, con il trascorrere dei secondi, perché soltanto di brevi frazioni di tempo in fondo si tratta, si allarga sempre di più. Si trasforma in una voragine.
È inutile, quella proposta è proprio inaccettabile. Te la prendi con te stesso, non puoi non farlo, perché per un istante pensi di dire di sì. Un attimo in più di riflessione, invece, per tua buona sorte, ti induce a rispondere di no. Ecco, in questo momento si origina la crisi, perché è vano negarlo, si tratta di vero scompenso, di uno squilibrio che non potrà non avere effetti sul futuro.
D’accordo, l’altra persona ora appare, attraverso la sua voce che all’improvviso perde baldanza, annichilita, poiché si rende conto dei suoi limiti e, non da ultimo, della sua propensione a reiterare gli errori. Quel tipo di sbagli che più feriscono l’animo umano.
E tu, a questo punto, cerchi di non infierire. No, non è proprio il caso di farlo, perché ciò non fa parte della tua indole, sempre attenta a non scalfire la sensibilità altrui.
Tuttavia, sebbene in maniera del tutto inconsapevole, quella parola ti sfugge. Ovviamente ti penti subito, ma tale rammarico appare comunque tardivo: in casi del genere non è mai possibile porre rimedio al danno fatto.
E quando tutto è ormai concluso, quando quel piccolo dramma è andato a compimento, ancora ti ronza per la testa quella parola, quella che hai utilizzato per difenderti e, al contempo, per attaccare: ripiego. Per lei inteso come un rimedio, una soluzione per ovviare a un fastidioso contrattempo, per riempire in qualche modo quello spazio e quel tempo che sono venuti meno. Per te, al contrario, una dolorosa umiliazione, attenuata soltanto dalla considerazione che è possibile, in questo mondo, perdere qualsiasi cosa, rimanere privi di tutto ma non della dignità.


martedì 23 luglio 2013

MAGNÌN SUL TETTO CHE SCOTTA


L’unica possibilità di ripararsi dal caldo torrido era quella di stare rintanati all’interno dei freschi locali dell’edicola-osteria di Albino, seduti al solito tavolo nell’angolo a bere vino. Magnìn e i suoi amici erano convinti che soltanto quella magica bevanda potesse combattere l’arsura provocata dalla canicola, così come lo stesso ambrato liquido, nei mesi invernali, riuscisse a donare al corpo quel languido tepore così dolce da godere in compagnia. Insomma, su tale argomento le convinzioni erano del tutto unanimi: il vino era adatto a tutte le stagioni. Punto.
Magnìn, il figlio dello stagnino, passò la bottiglia a  Dolfo il camionista, il quale la fece scorrere verso Giors. Quest’ultimo ritenne troppo macchinoso manovrare la boccia per riempire il bicchiere e la portò direttamente alle labbra ormai violacee. Enorme fu la sua sorpresa, e la conseguente angoscia, quando dal collo del recipiente stillò una unica goccia che andò a solleticargli la bramosa lingua. Lanciò un urlo disperato.
“Albino! Un litro! Presto!”
Il povero Giors aveva gli occhi fuori dalle orbite, e non riusciva proprio a nascondere l’enorme preoccupazione. Stava rischiando di morire di sete da un momento all’altro.
Albino, il corpulento oste, accorse prontamente zampettando sui suoi minuscoli piedi, che parevano inadatti a sostenerlo ma che invece gli permettevano addirittura di correre. Quando c’era di mezzo un’emergenza,  e quella di sicuro lo era, non ci si poteva abbandonare a eccessivi indugi.
“Ecco, prendi” disse Albino con la sua vocetta sottile e sempre gentile porgendo la bottiglia a Giors il quale, dopo alcune robuste sorsate, riprese colore e si rianimò.
“Non fatemi mai più uno scherzo del genere!” disse Giors all’indirizzo di Magnìn e Dolfo, che stavano ancora sogghignando.
“Dolfo, niente lavoro oggi?” domandò Albino. Un interrogativo del tutto retorico, naturalmente. Tutti sapevano che il camionista non lavorava quasi mai.
Dolfo assunse un’espressione afflitta e addolorata.
“Il camion…” sussurrò.
“Come?”
“Il camion… è ammalato” completò finalmente Dolfo con tono grave.
Un’espressione di somma dolenza si disegnò sui volti dei compari. Albino si abbassò verso il camionista.
“È grave?” chiese. L’altro annuì.
“Il semiasse. Ne avrà per un po’…”
Tutti annuirono, compunti.
“Lo hanno ingessato?” domandò Luigino, che proprio in quel momento aveva fatto il suo ingresso nell’edicola-osteria e aveva colto le ultime parole scambiate dagli amici. Dolfo scosse il testone.
“No, però gli hanno detto di stare immobile a lungo.”
“Te l’avevo detto di prendere un camion tedesco. Sono più robusti, sono fatti di roba più buona” sentenziò Luigino che, prima di sedersi, ordinò ad Albino un bicchierino di liquore alla prugna. Poi frugò nella logora borsa di cuoio ed estrasse una bottiglia di latte che posò sul tavolo.
Tutti lo guardarono stupiti.
“Sei andato a lavorare con questo caldo?” domandarono quasi in coro.
“Ero stufo di stare a casa, mia madre non mi lascia bere” disse Luigino. La spaventosa severità dell’anziana genitrice dell’amico era ben conosciuta. E temuta.
“Bravo, hai fatto bene” disse Giors. “Non ti devi far comandare da tua madre!”
Luigino portò il cicchetto alle labbra, lo svuotò tutto di un fiato e poi fece schioccare la lingua.
“Non ho paura di mia madre, ma della sua scopa” disse.
“Toglimi una curiosità” aggiunse Giors. “Come fai a scolarti in quel modo il liquore alla prugna? Quanti gradi sono? Cinquanta?”
“È tutto bruciato, ormai. Dentro, dico” intervenne Dolfo.
Luigino confermò con un cenno del capo, compiaciuto. Poi chiamò l’oste, che in quel momento era impegnato al banco dei giornali.
“Albino, lo vuoi il latte per il gatto? Me l’hanno dato in fabbrica.”
Luigino lavorava in una fabbrica tossica. I proprietari, autentici criminali, distribuivano dosi di latte agli operai assicurandoli in maniera ingannevole che quella bevanda avrebbe attenuato, se non eliminato del tutto, gli effetti velenosi delle sostanze maneggiate senza alcuna precauzione.
Albino si avvicinò al tavolo e Luigino gli porse la bottiglia di latte.
“Tieni.” L’oste arrossì.
“Fuffi non prende latte. Sapete, l’ho abituato a bere vino…” farfugliò imbarazzato.
Magnìn allora afferrò la bottiglia e la gettò nella spazzatura.
“Non vorrei mai che qualcuno lo bevesse per sbaglio e si sentisse male” disse il figlio dello stagnino. E tutti i presenti approvarono, molto preoccupati.
All’improvviso dall’ingresso si udì un gran trambusto. Un uomo, ansante e trafelato, si precipitò all’interno del locale e si lasciò cadere su una sedia vuota. Era tutto sudato.
“Romualdo!” esclamarono tutti insieme i presenti.
“Presto, da bere. Subito!” ordinò Magnìn, imperioso. La sua voce aveva la freddezza di quella di un chirurgo impegnato in una operazione a cuore aperto.
Romualdo fu subito soccorso e riuscì così a ritrovare un filo di voce.
“Grazie… grazie” sussurrò riconoscente tra una sorsata e l’altra.
“Sei pazzo?” gli domandò Giors. “E se ti scopre tua moglie?”
“Le ho detto che sarei andato a comprare del concime alla cooperativa agricola. E poi a prendere il giornale.”
“E dov’è il concime?” chiese Dolfo.
“Eh? Quale concime?” rispose Romualdo, già in stato confusionale. Il vino stava cominciando a fare effetto, per sua buona sorte.
Giors mise mano al portafoglio.
“Albino, vai a prendere il giornale. E aggiungi anche Stop, altrimenti Romualdo sarà senza alibi e quella vipera della moglie lo riempirà di botte.”
L’oste si diresse di corsa verso il locale dell’edicola.
Magnìn si accese con gesti lenti una sigarette delle sue, senza filtro, poi scrutò a lungo l’amico.
“Perché hai fatto una cosa del genere?” lo interrogò. “Non potevi bere a casa?”
Dolfo sussultò, come percorso da una scarica elettrica.
“Come? A casa può bere?”
Romualdo ritrovò un briciolo di lucidità e riuscì a rispondere.
“Certo che a casa posso bere! Mia moglie dice che se bevo il mio vino non mi ubriaco.”
“È vero?”
“Assolutamente no” rispose Romualdo. “Sono sbronzo dalla mattina alla sera.” Tutti tirarono un sospiro di sollievo. L’onore del vino di Romualdo era salvo.
Albino infilò nella cintura dei pantaloni del poveretto il quotidiano e la rivista, poi lo fece alzare e gli diede una leggera spinta in direzione della porta.
“Vai adesso, sbrigati. E ricorda di dire a tua moglie che quando sei uscito di casa eri già ciucco. Ti crederà di sicuro.”
L’altro annuì, ma era poco convinto, poi in qualche modo fu capace di uscire dal locale.
“Riuscirà a trovare la strada per tornare a casa?” domandò Giors, un po’ in ansia.
“Sicuro” disse Luigino, che era già al secondo bicchierino di liquore alla prugna. “Ha una bicicletta tedesca. Quelle non si perdono mai.”
Al che Dolfo, tignoso, mise in dubbio che il velocipede dell’amico fosse davvero di origine teutonica.
“Ti dico che è tedesca!” ribadì con foga Luigino.
Magnìn bloccò la discussione sul nascere sferrando un violento pugno sul tavolo. I bicchieri sobbalzarono, Giors corse ad abbracciare la bottiglia del vino per impedire che si rovesciasse. Se la strinse al petto con appassionata tenerezza. Albino, vedendo ciò, per un attimo fu colto dalla commozione. L’oste era grande e grosso ma molto sentimentale.
“Adesso vado a lavorare” disse Magnìn.
“Con questo caldo?” domandò Dolfo, atterrito. Per la cronaca lui non lavorava neppure quando il clima era fresco.
“Ho finito i soldi” dichiarò il figlio dello stagnino. “E dunque mi tocca.”
“Che lavoro devi fare?” chiese Giors. La domanda era del tutto pertinente, dal momento che Magnìn, quando ne aveva necessità, accettava qualsiasi lavoro. Ed era in grado di svolgerli tutti nel migliore dei modi. O quasi.
“Ho bisogno di un aiutante” aggiunse Magnìn, rivolto ai presenti. Tutti si nascosero dietro al bicchiere.
Magnìn scosse il capo, sconsolato, leccò con cura una sigaretta e poi la infilò tra le labbra. Azionò la macchinetta a benzina e rifletté un attimo.
“Allora chiamatemi Gelu” disse infine, ormai avvolto in una nube di fumo azzurro. Albino scattò. I comandi di Magnìn erano legge.
Gelu era fuori e, nonostante il gran caldo, se ne stava seduto tutto solo sotto il sole rovente. In verità a fargli compagnia c’era una bottiglia da un litro, ormai quasi del tutto prosciugata. L’uomo era alto e secco, con la pelle scura e con arti smisuratamente lunghi. Portava sempre, sia in estate che durante l’inverno, un cappello di paglia calato sugli occhi. E fumava soltanto le sue sigarette, quelle che si fabbricava personalmente utilizzando un tabacco molto forte. Gelu non aveva un lavoro stabile. Spesso aiutava l’uno o l’altro del paese, facendo l’agricoltore, il boscaiolo oppure il manovale nell’edilizia. Quel poco che guadagnava gli bastava per vivere perché le sue esigenze erano veramente minime. Non si era mai sposato e non aveva figli, mangiato lui mangiato tutti. La sua passione era la raccolta dei funghi. Era un autentico specialista, conosceva tutti i luoghi migliori e non li rivelava mai a nessuno. Si sarebbe di sicuro portato quei suoi segreti nella tomba. Durante la stagione adatta non si recava a funghi con un cestino o una piccola sporta, come facevano tutti gli altri raccoglitori. No, lui ci andava con un carretto, che quasi sempre riusciva a riempire. Poi lo attaccava alla sua vecchia bicicletta e portava quei bellissimi funghi ad amici e conoscenti e non accettava mai denaro in cambio di quel ricco e saporito dono. Al più accettava qualche bicchiere di vino, per smorzare quella sete che sempre lo affliggeva.
“Gelu! Ti vuole Magnìn!” gridò Albino dalla soglia della sua edicola-osteria.
L’altro annuì con un cenno impercettibile del capo, perché era un tipo di poche parole, scolò l’ultimo bicchiere e poi si alzò, dopo essersi spolverato i suoi soliti pantaloni blu da lavoro. Si presentò al cospetto di Magnìn.
“Si può sapere che lavoro devi fare?” chiese per l’ennesima volta Dolfo, rivolto al figlio dello stagnino. Il camionista era più curioso di una gazza. L’altro ancora una volta non rispose ma parlò direttamente a Gelu.
“Ti va di darmi una mano a pulire un camino?”
“Pronti” rispose l’uomo dalle lunghe braccia con la sua voce bassa e nasale.
“Bene, andiamo a prendere la moto”. I due uscirono, entrambi un po’ traballanti.
Gelu si accomodò sul sellino posteriore ma le sue gambe erano talmente lunghe che toccavano terra. Non sapeva proprio dove metterle. Un vero problema che tuttavia non angustiò Magnìn più di tanto. Disse all’amico di sistemare quelle appendici infinite sulle sue spalle, mise in moto scalciando come un forsennato e partì come una furia facendo impennare la sua Itom Sirio di colore rosso fiammante. Gelu, in effetti, stava un po’ scomodo ma non si lamentò. Non lo faceva mai, accettava qualsiasi cosa con pazienza e rassegnazione.
Il centauro e il suo aggrovigliato passeggero giunsero a destinazione in un attimo. Magnìn, come sempre, aveva tirato il collo alla sua moto che però aveva risposto alla grande. I due smontarono e il figlio dello stagnino suonò il campanello di una graziosa villetta.
Li accolse una donna ancora giovane, vestita con un leggero abito di cotonina.
“Camino” si limitò a pronunciare Magnìn. Quando si trovava di fronte una donna era sempre in difficoltà. E ancora di più se la femmina era piacente, come in questo caso. Si sa, le donne portano soltanto guai, e più se ne sta alla larga più si vive tranquilli. Magnìn aderiva in pieno a tale filosofia, e costituiva la ragione principale per la quale non si era mai sposato.  
“Come?” domandò la signora aprendo il cancello.
“Pulire. Camino” bofonchiò Magnìn. Gelu, da parte sua, si era calato ancora di più il cappello sul viso, tanto che di lui si intravedeva solo la punta del naso pronunciato e la sottile striscia delle labbra. Quell’uomo lì era molto timido.
“Ah! Prego, entrate” li invitò la donna. I due ubbidirono. Magnìn, dopo l’iniziale esitazione, ritrovò a poco a poco l’abituale baldanza.
“C’è dell’acqua?” domandò alla donna con un sorriso furbo.
“Acqua?”
“Intendo dire acqua corrente. Tipo un fosso o qualcosa del genere.”
“C’è un piccolo canale che scorre sul retro della casa…”
“Perfetto” disse Magnìn. Poi tornò verso la moto. Frugò in una delle capienti sacche laterali ed estrasse un bottiglione di vino da due litri. Di corsa si diresse verso il luogo che gli era stato indicato e mise a mollo la bottiglia assicurandola a un pezzo di spago. In tal modo sarebbe stata al fresco. Poi tornò da Gelu, che nel frattempo era rimasto immobile di fronte alla cliente. Sembrava una statua.
“Cominciamo” disse Magnìn all’aiutante.
“Ma… e gli attrezzi?” obiettò la giovane signora.
“Quali attrezzi?”
“Non so… la scala, e il resto. Oppure intendete salire sul tetto passando dall’interno?”
“Noi non entriamo mai in casa. Non vogliamo sporcare” disse Magnìn, quasi offeso. Gelu annuì.
“E come farete a salire?”
“Non c’è problema” rassicurò la donna il figlio dello stagnino. Aveva adocchiato un grosso tiglio in prossimità di un angolo dell’edificio. Lo indicò all’amico.
“Forza Gelu, inizia ad andare su.”
L’altro non se lo fece ripetere. Abbracciò il tronco e in un attimo fu quasi in cima all’albero. Fece un piccolo balzo e fu sul tetto. Peggio di una scimmia. Magnìn ebbe qualche difficoltà in più. Il fusto era molto largo e lui non disponeva di lunghe leve come quelle dell’amico. Si bloccò ed estrasse una sigaretta da un pacchetto sgualcito. Lisciò bene la cicca con le dita nodose, l’accese e poi, fumando come una ciminiera, riuscì finalmente ad arrampicarsi. I due spazzacamini improvvisati si ritrovarono così sul tetto. Le tegole erano roventi ma, nonostante ciò, Gulu si era sfilato gli scarponi e camminava a piedi nudi. Piedi le cui piante erano più spesse del cuoio. La donna li guardava dal basso non nascondendo una certa apprensione. Dopo poco più di cinque minuti Magnìn e il suo strano aiutante ridiscesero.
“Avete dimenticato qualcosa? C’è qualche problema?” domandò loro la signora.
“Non si preoccupi, tutto a posto” la tranquillizzò Magnìn. Poi, seguito come un’ombra da Gelu, si diresse verso il fosso. Si passarono più volte il bottiglione, ingollando enormi sorsate di nettare, che stava iniziando a rinfrescarsi. Quindi, sotto lo sguardo strabiliato della giovane donna, risalirono sul tetto. Magnìn aveva approfittato della pausa ristoratrice per andare a recuperare nelle capienti sacche della moto un rotolo di corda. Se lo portava sempre dietro. Sudati e ansimanti i due soci ripresero, o meglio cominciarono, il loro lavoro.
“Ascolta, Gelu” disse il figlio dello stagnino. “Visto che sei magro ti calo nel camino con la fune e tu cerca di pulire come puoi. Usa le mani, i piedi o cosa preferisci.” Gelu annuì, serio. Aveva capito che cosa doveva fare. Magnìn legò alla vita l’aiutante e lo calò lentamente nella canna fumaria. Dentro a quel budello il caldo era infernale e poi c’era polvere, tanta polvere. Non erano presenti grosse incrostazioni ma tanta fuliggine nera in sospensione. Gelu, mentre tentava affannosamente di pulire, ne aspirò una boccata. Era meno pesante del suo tabacco, considerò. Alla fine giunse alla base del caminetto. Udì la voce soffocata dell’amico.
“Riesci a resistere qualche minuto prima che ti tiri su? Mi è venuta una sete incredibile! Gelu mugugnò qualcosa, che Magnìn scambiò per una approvazione. Allora scese velocemente dal tetto, si scolò mezzo bottiglione di vino, che ora era piacevolmente fresco, e poi risalì sulla copertura con una certa fatica. Cominciava a vedere doppio e triplo. Afferrò il capo della fune, dopo averlo slegato dal punto dove l’aveva assicurato, e iniziò a tirare con forza. Con troppa forza. Fece un movimento brusco e inciampò su una tegola sconnessa. Scivolò giù dal tetto sempre reggendo la corda tra le mani. In basso la donna lanciò un urlo. Magnìn cadde nel vuoto, al rallentatore. A mano a mano che il figlio dello stagnino scendeva, dall’altra parte, dentro la canna fumaria, Gelu iniziava a risalire, facendo in tal modo da contrappeso. Magnìn si posò lentamente a terra, cadendo in piedi, proprio come i gatti. L’amico si ritrovò invece in cima al camino. Nel risalire aveva dato suo malgrado un’altra buona ripassata alle pareti della canna fumaria, che adesso era bella pulita. Un ottimo lavoro, considerò l’uomo dai lunghi arti. Si slegò la corda e scese a terra a sua volta. Si piazzò di fianco all’amico, orgoglioso.
“Ecco, abbiamo finito” stava dicendo Magnìn alla donna, che in volto aveva ancora un’espressione sconvolta e quasi non riusciva a parlare. Poi, constatando che entrambi i lavoratori godevano di buona salute, finalmente riuscì a calmarsi. Si rivolse a Gelu.
“Signore, vuole darsi una ripulita?”
Gelu la guardò con aria interrogativa.
“La signora sta dicendo che sei un po’ sporco” tradusse Magnìn.
“Sono sporco?” chiese Gelu.
Magnìn lo squadrò bene, poi scrollò le spalle.
“Soltanto un po’ di polvere” disse. “Andando in moto andrà via”. Gelu era completamente annerito. Di lui si intravedeva soltanto il bianco degli occhi.
La donna si apprestò a pagare i due per il lavoro svolto.
“Mi fate la fattura oppure…”

“Mica siamo dei maghi” bofonchiò Gelu. Magnìn lo zittì con uno sguardo torvo e poi scosse il capo. La donna comprese ed estrasse dal borsellino alcune banconote. Lui prese il denaro e ne diede subito la metà all’amico che lo ficcò in tasca. I biglietti si annerirono all’istante, ma per bere qualche volta sarebbero andati bene lo stesso. Sicuro.

sabato 20 luglio 2013

ANSIA


Iniziai a provare quella strana sensazione di soffocamento ai tempi della scuola. Prima non mi era mai accaduto. Sì, a volte leggevo nella sguardo di mia madre qualcosa che, pur bambino, riuscivo già a interpretare come preoccupazione, ma non vi attribuivo eccessivo peso. Ero ancora spensierato, trascorrevo tutto il mio tempo a giocare e a cercare di divertirmi. Ero disincantato.
Fu proprio la scuola a rovinare tutto. Già dopo il primo giorno mi attanagliò la paura di arrivare tardi. Tenevo sempre d’occhio l’orologio, che da poco avevo imparato a consultare, aspettavo con grande apprensione il bus che mi avrebbe condotto a scuola, trepidando se tardava anche di un solo minuto. Arrivai sempre puntuale. E poi avevo il terrore di essere interrogato, di fare brutta figura, per questo ho sempre studiato più di tutti gli altri. Per ciò sono stato sempre il più bravo. Così come mi coglieva il batticuore già due giorni prima del compito in classe di matematica. Non riuscivo più a dormire e perdevo l’appetito. È vero, non ho mai fallito una prova ma da allora ho sempre odiato i numeri.

Durante quasi tutta la mia esistenza sono sempre stato accompagnato dall’ansia. E' stato così fin da ragazzo, quando le insicurezze legate all’adolescenza erano amplificate a dismisura dalle continue angosce. Dal timore di non essere all’altezza delle aspettative altrui, dalla paura di non essere accettato dagli amici e dai continui tentennamenti riguardo alle azioni da intraprendere. Crescendo, a causa dei miei perenni affanni, in amore sono stato un disastro. Ho sempre fallito. Mi seguiva l’apprensione, e mai riuscivo a manifestare in pieno i miei sentimenti. E che dire della continua inquietudine provata di fronte alle mie compagne di vita? Avevo il terrore di essere lasciato, abbandonato, e ciò puntualmente si verificava, facendo così aumentare ancora di più la sfiducia nei confronti di me stesso. Una permanente condizione di affanno in grado di annientarmi e di impedirmi di vivere. Un’inquietudine terribile che mi ha impedito di realizzarmi sul lavoro. Era sempre troppo grande la paura di sbagliare, tale da bloccarmi, e le mie reali attitudini non sono mai emerse, ho trascorso quarant’anni in una zona grigia. Nessuno si è accorto di me quando ho lasciato il lavoro. In seguito le cose non sono affatto migliorato. A ogni fine mese temo che non mi arrivi la pensione. Sono convinto che prima o poi questo accadrà, e ciò non mi permette di vivere sereno. Trascorro i miei giorni attendendo la morte. La certezza della fine dell’esistenza rappresenta per molti individui una sicurezza, tanto che si finisce per non pensarci. Per me non è così. Vivo il mio ultimo tempo nel turbamento più assoluto, perché non so come morirò, e soprattutto non conosco quando ciò avverrà. È il mio unico pensiero, tutto il resto non mi interessa più. L’angoscia è continua e tale che, a volte, credo che potrei morire proprio in questo momento, all’improvviso, a causa di queste mie torbide e insistite riflessioni. Sarebbe il conforto che da sempre sto cercando e che non ho mai trovato.

venerdì 19 luglio 2013

LA RICERCA DELLA FELICITA'


"Vita parallela" di Enzo Sopegno - racconti - pagg. 252 - disponibile in formato cartaceo su ilmiolibro.it e in versione ebook nelle principali librerie virtuali e su Amazon.it


Un viaggio nei più' oscuri meandri delle emozioni e dei sentimenti umani. Alla ricerca e alla scoperta delle angosce e dei tormenti dell'esistenza. Condotto con sguardo libero, curioso e disincantato ma sempre con profondo rispetto per la sofferenza e il dolore.



"L'autore inanella per noi una nuova serie delle sue piccole perle: storie brevi ed asciutte che, spesso nel solo angusto spazio di un paio di cartelle, racchiudono tutto il senso della fatica di vivere e soprattutto di amare. E' proprio infatti il gioco delle parti in amore, con tutte le sue immutabili pantomime ed intime contraddizioni, ad assumere stavolta un ruolo cruciale in queste sue ultime riflessioni sulla ardua ricerca della felicità."


"Dall’ancor viva memoria e della ragione i ricordi. Una costellazione di episodi fascinosi. Sorprese a iosa. Racconti “vissuti” all’insegna dei ricordi. Brani che esaltano la vita come dolce musica: per allietare le ore di noia."

sabato 13 luglio 2013

LETTIGA


Nubi sempre più fosche si addensano sul governo Letta, un esecutivo che, finora, non ha mantenuto nessuno dei suoi impegni e si è caratterizzato soprattutto per la spiccata propensione al rinvio.
Tutto è immobile perché ci si trova avvitati, come sempre negli ultimi vent’anni, attorno alle vicissitudini personali di Silvio Berlusconi. È mai possibile che un solo individuo, a causa dei propri guai giudiziari, riesca a tenere in ostaggio sessanta milioni di cittadini? La Corte di Cassazione (tra la sorpresa generale) ha anticipato al 30 luglio la data per la sentenza di terzo grado riguardo al processo Mediaset (evasione fiscale). Nel giudizio di appello Berlusconi è stato condannato a una pena detentiva di quattro anni (di cui tre condonati) e a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Con buona pace dell’ex premier la Corte confermerà tale sentenza, dal momento che tale organismo, per sua natura, non entra nel merito del verdetto in esame ma si limita a esprimersi sul metodo evidenziando eventuali irregolarità di procedura avvenuti nei procedimenti precedenti.
In tal caso quali saranno gli scenari politici che potrebbero aprirsi? Silvio Berlusconi non è mai stato così debole e vulnerabile come in questo momento (anche se nessuno pare accorgersi di tale fatto, il Partito Democratico per primo). In conseguenza di ciò, anche in caso di condanna definitiva, il padrone del vapore non farà mancare il suo appoggio al governo Letta. La permanenza nell’esecutivo è, attualmente, l’unica sua minima garanzia, il solo elemento di salvaguardia per la sua posizione personale (e per le sue aziende). Altre alternative non sono per lui proponibili. Né una maggioranza diversa (che magari coinvolgerebbe il Movimento Cinque Stelle estromettendolo così in maniera definitiva dalle leve del potere) né tantomeno nuove elezioni anticipate che lo costringerebbero a una nuova estenuante campagna elettorale, e ad affrontare un agguerrito (e tanto giovane) Matteo Renzi, un personaggio che gode oltretutto di buon gradimento anche tra gli elettori più moderati del PDL.

Quindi, per forza di cose, il governo Letta tirerà ancora avanti (fino a quando non si sa) pure se rabberciato e non in grado di svolgere un ruolo determinante per la risoluzione dei gravi problemi del Paese. E gli italiani continueranno ad affondare nel pantano.

venerdì 12 luglio 2013

SPIONAGGIO


Sono una persona di ampie vedute. Quando mia moglie ha manifestato il desiderio di fare vacanze separate non ho avuto alcuna esitazione e ho accordato il mio permesso. Sono abituato ormai da molti anni a soddisfare tutti i suoi capricci e anche questa volta non ho avuto nulla in contrario ad accontentarla. Naturalmente in vacanza alla fine è andata soltanto lei. A me non piace trascorrere le ferie da solo, non provo alcuna soddisfazione. In ogni caso per me non è stata una rinuncia molto dolorosa. In realtà odio i luoghi di villeggiatura in genere, in particolare non amo la vuota confusione dei villaggi turistici, da sempre la meta più ambita per la mia consorte. In quei posti mi sento come un pesce fuor d’acqua, mi annoio e guardo con disgusto alle “attività ludiche e ricreative” con le quali vengono di continuo perseguitati i clienti durante il loro soggiorno. Un vero tormento, che per fortuna quest’anno sono riuscito a evitare. Nei villaggi vacanza ovviamente si crea tra gli ospiti una certa promiscuità, nascono effimere amicizie che comunque non durano e, a volte, sbocciano relazioni amorose. Ecco, è proprio quest’ultimo l’aspetto che più mi ha reso inquieto. Una donna sola in vacanza può essere facile preda dei conquistatori da strapazzo che si aggirano tra i bungalow dei villaggi turistici. Con mia moglie però non ho fatto parola riguardo a queste mie preoccupazioni. Alla sua partenza l’ho salutata con un sorriso e le ho augurato buon divertimento. Le precauzioni le ho assunte dopo, al suo ritorno. Sapevo che la mia dolce metà a me non avrebbe raccontato nulla del suo soggiorno vacanziero, mentre la stessa cosa non l’avrebbe di certo fatta con la sua amica Simona. Ero sicuro che avrebbe rivelato ogni particolare proprio a lei, alla sua amica del cuore.
Durante l’assenza di mia moglie sono andato in un negozio di elettronica gestito da un mio conoscente. Mi sono procurato una microspia, proprio come quelle degli agenti segreti, e un apparecchio ricevente in grado di registrare le conversazioni. Ho sistemato la pulce sotto il tavolino del telefono e ho atteso il ritorno della mia signora. È tornata tutta abbronzata e ancora più bella del solito. Come previsto non mi ha riferito nulla, ha soltanto detto di essersi molto divertita. Il giorno dopo sono andato al lavoro e, alla sera, ho ascoltato le sue conversazioni telefoniche della giornata. Mi è bastato sentire la prima, proprio con quella stronza di Simona, per prendere la mia decisione.
“Allora, racconta, racconta… Com’è andata?”
“È stato bellissimo! Il posto era stupendo e il mare era molto pulito. All’interno del villaggio c’era di tutto! Bar, ristoranti e persino una mega-discoteca. Ci sono andata tutte le sere! Sai che mi è sempre piaciuto ballare, ma con quell’orso di mio marito…”
“E che hai fatto?”
“Ho ballato e ballato fino allo sfinimento. Erano anni che non mi svagavo così!”
“E gli uomini? C’erano uomini interessanti?”
“Pensa che c’era un ragazzo di Milano, molto più giovane di me, che non la smetteva di venirmi dietro…”
“E tu? E tu che cosa hai fatto? Lo hai assecondato?”
Basta così. A quel punto ho spento la mia apparecchiatura. Avevo già saputo ciò che volevo.
Adesso lo chiamano femminicidio, perché questo termine va di moda. Io so soltanto che non ho voluto sentire nessuna giustificazione e l’ho fatta fuori. L’ho fatto perché quella donna si è rivelata una poco di buono, come purtroppo temevo. Poi ho chiamato io stesso i carabinieri e adesso li sto aspettando. Mi è rimasto un dubbio: se lavarmi o no le mani lorde di sangue prima del loro arrivo.


martedì 9 luglio 2013

IL PADRONE DI CASA


L’uomo è in piedi in mezzo alla stanza situata al piano terra e che si affaccia su un misero cortile. Qualche istante prima ha bussato ed è entrato. Nessuno gli ha detto: “Avanti”. E lui non l’ha ritenuto necessario, perché è il padrone. Il proprietario di quella spoglia abitazione. Il suo affittuario è seduto con la famiglia attorno a un tavolo da cucina. Stanno cenando. Quattro paia di occhi scuri lo fissano con intensità. Il lieve senso di disagio è presto superato. L’uomo si toglie il cappello e lo trattiene tra le mani. È vestito in maniera elegante, anche se nella sua alta figura c’è un qualcosa di stonato. Gli abiti stessi, forse. Il cappotto di lana pesante. La giacchetta troppo stretta e dalla tinta sgargiante, i pantaloni di stoffa lucida e troppo abbondanti. Oppure lo è il suo portamento. O la testa, dalla forma irregolare e incassata tra le spalle. I piedi piatti e le mani enormi. La donna, dal corpo minuto e dall’espressione seria, si alza. Senza pronunciare una sola parola apre lo sportello di vetro della vicina credenza e prende un bicchiere. Lo osserva a lungo in controluce, con grande attenzione, poi lo strofina con un panno pulito, dedicandosi in particolare ai bordi. Lo posa sul tavolo. Rivolge un’occhiata d’intesa al corpulento marito che, pronto, impugna il bottiglione del vino.
“No, grazie. Non bevo” dice l’ospite, con voce sottile ma ferma. E non aggiunge altro. Si limita a osservare. La camera appare buia e disadorna. Soltanto il vecchio caminetto, con il fuoco acceso e scoppiettante, contribuisce a rendere meno triste l’ambiente. Non meno freddo, tuttavia. Ora l’uomo indugia con lo sguardo sui due ragazzi. Salvo, il più giovane, ricambia l’occhiata in un modo che pare quasi volerlo sfidare. Lui e il mondo intero. La sua espressione è dura e ostile. La ragazza, Rosetta, abbassa invece gli occhi. È imbarazzata, dalla situazione e da se stessa. Dal suo corpo, che l’uomo fissa con insistenza e sfrontatezza. Con un movimento lento la giovane porta le mani al petto, proprio dove la stoffa del vestito è più tesa e non riesce a celare, come lei vorrebbe, le morbide forme che da un po’ di tempo non sono più acerbe.
“Siete qui per l’affitto?” chiede finalmente il capofamiglia, rompendo il pesante silenzio. “È presto. Non è ancora scaduto.”
“Lo so” risponde il padrone di casa, con insofferenza.
“E allora?”
“Siete in quattro. Una bella famigliola, ma avete poco spazio. Come riuscite a dormire tutti in una sola camera? E poi quella stanza di sopra è molto fredda. E la scala esterna…”
L’altro si sforza di rimanere calmo.
“Che cosa volete?” domanda, interrompendo. La sua voce si alza di tono. Involontariamente.
“Ve l’ho mai detto? Da queste parti, fino a poco tempo fa, nessuno voleva affittare case ai meridionali. Di sicuro ne avrete sentito parlare. Comunque, voi siete stati fortunati. Avete incontrato me. Ed io non bado a queste cose. Sono stupidaggini e poi mica sono razzista. Ci si incontra, ci si mette d’accordo sul prezzo e via! Senza stare a guardare da dove viene uno e da dove viene l’altro.”
L’uomo, quasi compiaciuto del proprio eloquio, si interrompe un istante. Appoggia il cappello sul tavolo, sfrega tra loro le mani nodose e subito prosegue.
“E i ragazzi, come vanno i ragazzi a scuola?” Poi si rivolge a Salvo. “Tu, che classe fai quest’anno?”
“Quinta elementare” risponde pronto il ragazzino, senza alcuna esitazione.
Lo sguardo si sposta su Rosetta. La scruta con grande attenzione.
“E tu, bella ragazza?
La giovane arrossisce e non risponde.
“Terza media” dice la madre, al posto suo.
“Bravi! Eh… come crescono ‘sti figli!” si compiace l’uomo, con falsa giovialità.
“Cosa siete venuto a fare?” lo gela l’operaio.
Il suo interlocutore, di colpo, diventa serio. I lineamenti del suo viso si contraggono.
“Dovete andare via” sentenzia.
“Come?”
“Avete capito bene. Dovete lasciare la casa. Sono passato ad avvisarvi, per darvi il necessario preavviso. Mi serve quest’abitazione, al più presto. Per mio nipote. Si sposa. Anzi, si deve sposare per forza, comprendete vero? Di conseguenza intendo ristrutturare tutto e non posso certo perdere tempo.”
“Non potete farci questo!” sbotta l’inquilino, incredulo. Si volta e sputa in direzione del fuoco. Salvo e Rosetta scambiano un’occhiata. I loro volti esprimono incredulità e sgomento. La loro madre tiene le mani giunte, in posa di muta preghiera.
“Mi dispiace, ma ne sono costretto. Vi do un mese di tempo” ribadisce l’uomo.
“Dove andremo?”
La faccia del padrone di casa si trasforma in una maschera beffarda. Ammicca.
“Ho saputo che avete acquistato una casa” dice. “Che cosa volete, qui in paese alla fine si viene a sapere qualsiasi cosa.”
“Ma non è una casa! È solo un rudere. Ho intenzione di sistemarlo un poco per volta. Occorreranno anni! E tanti soldi” dice con amarezza l’operaio.
“Non dica così! Lei è un bravo muratore. Faccia in questo modo: si fa aiutare da questo ragazzo, che mi sembra bello robusto, o da qualche parente, e comincia a rendere subito abitabile una stanza o due, poi… col tempo…”
“Ma l’acqua, e la luce… non c’è nulla! Mannaia!”
“Calma. E mi ascolti. Poiché siete brava gente e avete sempre pagato il fitto con puntualità, vi voglio aiutare. Vi concederò due mesi di tempo invece di uno ma poi dovrete sgombrare senza fare tante storie. D’accordo? Ci siamo capiti?”
Non segue nessuna risposta. L’intera famiglia è frastornata. Annichilita.
“Bene” dice l’uomo riprendendo il cappello. “Adesso devo proprio andare. Buonasera. E ricordatevi l’affitto, la settimana prossima.”
Volta le spalle ed esce.
In casa, nessuno parla. E nessuno pensa a riprendere il pasto così brutalmente interrotto.
“Padre?” esclama all’improvviso il giovane Salvo. “Dobbiamo proprio andare via? Il padrone ci ha cacciati?”
Il genitore guarda la moglie, che ora sta piangendo, poi annuisce costernato.
“Questa è un’ingiustizia?” incalza ancora il giovane.
“Sì, lo è” risponde il padre.
E quella è proprio la risposta che lui si aspettava di ricevere.