Powered By Blogger

domenica 28 ottobre 2012

QUELLO DI WELSH



Me lo trovo davanti all’improvviso. Un vero bestione. La pelle del viso chiara, spruzzata di lentiggini. Cranio rasato. Indossa un vecchio giubbotto di pelle e jeans luridi. Al collo porta una sciarpa bianca e verde. È davvero grosso ma non mi fa paura, perché il suo sguardo non è cattivo.
“È qui che c’è il fùtbal?” mi chiede con voce strascicata. Noto che gli mancano due incisivi.
“Lo stadio, vuoi dire? Sì, si trova due isolati più in là. Anch’io sto andando alla partita.”
“Sai mica chi gioca?” chiede ancora.
Sebbene un po’ sorpreso da tale domanda, glielo dico. Lui approva con un grugnito.
“Dov’è la tua banda?” mi fa.
“Quale banda?”
“I tuoi ragazzi. Mica ci andrai da solo alla partita, no? Se c’è da menare le mani come fai? Gli altri ti rompono il grugno.”
“Ma che dici? Non vado alla partita per fare a botte, ma per tifare per la mia squadra.”
“Una volta non era così. Ci si dava bastonate da pazzi. Sai le teste rotte… E quelli che ci venivano con la lama? Quelli erano i più rognosi, perché proprio quando non te l’aspettavi tiravano fuori il coltello e ti bucavano a tradimento, quei fottuti vigliacchi! E la pula interveniva sempre troppo tardi, prima lasciavano che ci legnassimo per bene, poi arrivavano loro e prendevano qualcuno a caso, sempre quelli che non c’entravano niente, e li portavano al gabbio. Una notte e via, finché non era passata la sbronza.”
Devo togliermi di torno questo esaltato, penso.
“Si può sapere chi sei?” gli chiedo.
“Io? Sono uno di Welsh.”
“Eh? E che sarebbe Welsh? Il posto da dove vieni?”
Lui fa segno di no con la grossa mano. Il giubbotto si apre e vedo il suo ventre prominente, da gran bevitore di birra. Il tanfo che proviene dai suoi indumenti è notevole. Acqua e sapone, del tutto sconosciuti, pare.
“Ma no! È uno scrittore, uno delle mie parti. L’hai mai sentito?”
Rifletto un attimo. In effetti ricordo di aver letto, tempo fa, un romanzo di quello scrittore scozzese, Irvine Welsh. Non era affatto male.
“Aspetta” faccio. “Che cosa vorresti dire?”
“Voglio dire che sono uno di loro, uno di quelli di Welsh, dei suoi libri, cioè…”
“Un personaggio?” domando, sbalordito.
“E che ne so? Sono nei suoi libri, ecco tutto” risponde l’energumeno, un po’ spazientito.
“Se è così come dici, che cosa ci fai qui? Siamo tutto da un’altra parte.”
“Senti, a me non frega un cazzo di dove sono. L’ importante è che ci sia il fùtbal, perché è l’unica cosa che mi interessa.”
“Questo lo avevo capito, però ti ribadisco che questo non è il tuo posto. Tu non stavi a Edimburgo?”
“Sì, quando ero nei libri stavo proprio lì. Sai, sono nato vicino al porto, a Leith per la precisione. Anche tutti gli altri figli di puttana che ho sempre frequentato sono venuti al mondo in quello schifo di posto. Tutta gente delle case popolari, come me. Siamo cresciuti tutti insieme, e ne abbiamo combinate di tutti i colori. Poi però, invecchiando, ci siamo un po’ persi di vista. Qualcuno di loro ha pure fatto una brutta fine. Che vuoi, girava troppa droga e quella merda prima o poi ti distrugge; alcuni avevano la mano lesta e riuscivano a sbarcare la giornata ma alla fine li hanno beccati e sono finiti a marcire in galera.”
“Aspetta, e tutto questo l’avresti fatto nei libri? Cioè, non sul serio?” chiedo.
“E che vuol dire? Tu parli un po’ troppo difficile e non è che ti capisco proprio. L’ho fatto, e basta. Che cazzo c’entra se dentro o fuori dai libri?”
“Ma tu li hai letti quei romanzi? Quelli dove c’eri dentro tu, dico.”
Il vecchio teppista scoppia in una grassa risata. Nel farlo, schizza un po’ di saliva. Mi sposto di lato. Poi si calma.
“Quando andavo al pub vedevo che gli altri si passavano di mano quei giornali, quelli del fùtbal, ma a me non interessavano. Lì sopra ci scrivevano solo delle cagate, e io preferivo parlare e ridere con gli amici e sfotterli. I libri non so neppure da che parte prenderli in mano, invece.”
“Sai leggere, vero?”
“Ehi! Stai in guardia, amico! Per chi cazzo mi hai preso? Per un ignorante? Guarda che io scuola ci sono andato, eccome se ci sono andato! Ho fatto tutte le elementari ed ero uno dei più bravi, perché gli altri mi sembravano tanti idioti. I miei vecchi ci tenevano che andavo a scuola! Ma poi dopo, alle medie, mi sono un po’ perso. Preferivo andarmene in giro per le strade a cazzeggiare e a combinare guai e a scuola ci andavo un giorno sì e tre no e sempre i vecchi a quel punto non sapevano più che farne di me. Alla fine ho smesso e mi hanno mandato a lavorare. Facevo un po’ di tutto, consegnavo le bibite e i giornali e altre cose così perché in fabbrica non ci volevo andare e tanto non mi avrebbero manco preso perché ero troppo giovane.”
Sono sempre più sbalordito. Da dove diavolo è spuntato fuori un simile elemento?
“Quindi te ne ha fatto fare di cose il buon Welsh!” esclamo, non sapendo cos’altro dire.
“Ci puoi scommettere! Quello è un tipo tosto. Ci ha sempre passato, a me e ai miei amici, tutta la roba che volevano: erba, coca e anfe voglio dire, a volte persino troppa tanto che eravamo sempre sballati e fuori di testa. Per non parlare del bere. Ogni volta che entravo al pub una bella pinta non mi è mai mancata. E quando scolavo la prima, tutta di un fiato, ne arrivava subito un’altra. Che serate, cazzo!”
“E poi, che hai fatto?” chiedo.
“E che ne so! Ne ho fatte talmente tante che non me le ricordo tutte. Sai che mi sono pure sposato?”
“Sul serio?”
“Sì, roba da non crederci! Lei era una cassiera del market, una sciacquetta tutta brufoli e con le gambe storte. Mi sono rotto le palle di mia moglie dopo pochi mesi e me ne sono andato perché quel tipo di passera ti riesce a rovinare. l’esistenza. D’accordo, l’ho lasciata un po’ nella merda perché quella stronza era pure incinta, ma non me ne fregava nulla. Quando poi ho saputo che aveva scodellato il pupo volevo tornare, per dare almeno un’occhiata al prodotto finito, ma lei e quei bastardi dei suoi genitori non me l’hanno permesso. Pensa che sono persino andati dal giudice, quei fottuti rotti in culo! Allora ho mandato tutti al diavolo e me ne sono andato a Londra, ma questo nel libro successivo.”
“Accidenti! Che vita romanzesca!” gli faccio, ma lui non si accorge della presa per il culo, per mia buona sorte.
“Puoi ben dirlo! Garantito!” risponde lui, piuttosto compiaciuto. “Ehi! Che ne dici se andiamo a farci un goccetto al pub?” aggiunge, entusiasta all’idea.
“Guarda che qui non ci sono pub. Non siamo a Edimburgo, e neppure a Londra.”
“E chi se ne fotte? Ci sarà pure un qualche lurido locale dove danno da bere a chi ha la gola asciutta, no?”
“Possiamo andare in un bar, ma siamo troppo vicini allo stadio e non credo ci serviranno alcolici. Mi dispiace.”
“Cristo! In che razza di merdoso paese sono capitato? Che cazzo sta combinando Welsh?”
“Welsh? Il tuo scrittore? Scusa se te lo dico ma ho l’impressione che il tuo amico ti abbia abbandonato. Non gli servi più, ormai ti ha completamente spremuto.”
“Ehi! Bada a come parli, ti vuoi beccare un cazzottone sul muso?”
“Stai calmo, amico. Volevo soltanto che tu ti rendessi conto che non sei più dentro a un libro. Devi decidere tu che cosa vuoi fare, ora.”
Il bestione cambia espressione. Corruga la fronte e riflette a lungo. Mi fa un po’ pena, in verità.
“Cazzo! Non ne ho la minima idea!” dice infine.
“Non ti preoccupare, ti ci abituerai. Vieni, andiamo alla partita, poi si vedrà. Mani a posto, però!”

venerdì 26 ottobre 2012

L'ACCORDO



Lui lo stava aspettando, immobile, sulla soglia di quella povera abitazione. Giuda si avvicinò con cautela, con quella particolare circospezione che contraddistingueva ogni suo gesto. Conosceva bene quell’uomo, eccome se lo conosceva, eppure provava sempre nei suoi confronti un certo timore. Non che ne avesse paura, ciò che sentiva era piuttosto una sorta di trepidazione dovuta alla soggezione, alla preoccupazione di essere di continuo valutato e di conseguenza giudicato. Un’inquietudine strana, segno tangibile della consapevolezza della sua inferiorità, di una sua evidente inadeguatezza di fronte a quell’individuo provvisto di enorme carisma, di un fascino mistico al quale non era possibile sfuggire. Giuda salutò con un profondo inchino, quale segno di grande umiltà.
“Mio padre vuole vedermi morto” disse l’uomo dai lunghi capelli, facendogli cenno di rialzarsi.
Giuda fu sorpreso da quelle parole dirette, che non ammettevano replica. Senza comprendere, e non sapendo che cosa rispondere, si limitò ad annuire. Poi seguì l’uomo all’interno della casa.
Si ritrovarono in una grande stanza spoglia. Al centro c’era un lungo tavolo, ed era imbandito.
“Maestro, perché dici questo?” domandò Giuda, più che altro per rompere quel silenzio che lo metteva a disagio.
“Siediti” fu la risposta, accompagnata da un lieve sorriso. Giuda obbedì, e subito dopo gli fu servita una coppa di vino. Aveva sete, e bevve il fresco nettare con avidità. 
“Tra un po’ arriveranno anche tutti gli altri” disse l’uomo. “Nel frattempo desidero parlare con te, da solo.”
“Dimmi, Maestro.”
“Starai di sicuro pensando che il mio è un genitore crudele.”
“No, non intendo…” cercò di ribattere Giuda, ma l’uomo dai lunghi capelli gli intimò di tacere con un lieve cenno.
“All’improvviso non sono più confuso” disse. “Ho finalmente compreso quale sia il suo progetto. E ho capito quale ruolo ricoprirò in esso: si tratta di una parte che prevede la morte.”
Giuda rabbrividì, l’ultimo sorso di vino gli andò di traverso. Iniziò a tossire.
“Non ti turbare, amico mio. Guardami, non sono mai stato così sereno. In ogni caso, anche tu fai parte di questo grande disegno, nel quale gli uomini sono semplici pedine. Ed io ho bisogno del tuo aiuto.”
“Maestro, puoi chiedere al tuo servo qualsiasi cosa. Anche l’estremo sacrificio” disse Giuda, con enfasi.
L’altro piegò il capo di lato, lo squadrò a lungo, poi gli appoggiò una mano sulla spalla.
“Non sarà necessario arrivare a tanto. Il tuo compito sarà più semplice, non dovrai sacrificare la tua vita.”
“Ordina, ed io eseguirò” disse Giuda, e nello stesso tempo si domandò perché il Maestro avesse deciso di rivolgersi proprio a lui tra tutti i suoi discepoli.
“Dovrai recarti al Tempio e parlare con i sacerdoti.”
“Lo farò, anche se ho paura. Il coraggio mi ha sempre fatto difetto ma riuscirò a vincere la mia solita apprensione. Dimmi, che cosa dovrò riferire loro?”
“Dovrai confermare i loro sospetti. Dirai loro che sono a capo di una cospirazione, che ne hai avuto prova frequentandomi. È ciò che loro vogliono sentire, non aspettano altro. Riceverai una ricompensa, ti daranno del denaro in cambio delle tue informazioni.”
“No!”
“Lo accetterai, invece. A quel punto il tuo incarico sarà terminato, dovrai tornare a casa e attendere il procedere degli eventi.”
“Che cosa ne dovrò fare del denaro?” domandò Giuda, ancora sbigottito.
L’uomo dai lunghi capelli sorrise di nuovo.
“Non temere, quel denaro non sarà il prezzo del tradimento, come tu di certo paventi, ma soltanto il compenso per il nostro accordo, del quale nessuno dovrà sapere nulla. Lo puoi tenere, dunque. E farne ciò che vuoi.”
“Che ne sarà di te, Maestro?”
“Nulla che non sia già stato scritto. Mi verranno a prendere, ed io lascerò fare. Sarò processato e poi giustiziato.”
“No! È terribile!”
“Amico mio, così è stato deciso e questo accadrà. Non è possibile interferire con la volontà del Padre.”
Giuda si inchinò nuovamente, questa volta in segno di sottomissione e assoluta obbedienza.
Poi si udirono delle voci provenire dall’esterno. E risate.  
“Sono arrivati” disse Giuda.
Il Maestro assentì. Il suo sguardo era vuoto, la sua espressione divenne all’improvviso pensierosa. Sembrava stare in quella nuda stanza soltanto con il corpo, non più con la mente.
                                                                              
Giuda percorre senza meta quel terreno di roccia e sabbia, al di fuori delle mura. Accanto a lui sfilano miseri arbusti assetati e ricoperti di polvere fine. È livido in volto, disperato, colmo di angoscia. Non sa che cosa fare, non sa dove andare. La sua mente è annebbiata e confusa. A tratti si ferma, si batte più volte un pugno sul petto, si maledice. Poi riprende a camminare a capo chino. In una mano stringe una piccola borsa di cuoio. A un certo punto sembra notarla, allora si ferma di nuovo. La soppesa a lungo, poi slega il laccio che la chiude. Lascia sfilare sul palmo quelle grosse monete luccicanti, una dopo l’altra, quindi stringe le dita e, portando di scatto il braccio dietro la schiena, lancia il denaro che si spande nel deserto. Una semina tragica, che non darà mai alcun frutto. Quindi suggella l’azione con un grido bestiale, poi inizia a correre, una corsa folle tra le pietre, che termina soltanto quando prevale il completo sfinimento.
Giuda allora si inginocchia a terra, sul volto impolverato una smorfia di infinito dolore, la sofferenza di un animale ferito, e piange.
Quando infine rialza il capo, in direzione del sole che sta calando, li vede. Dapprima riconosce Pietro, poi Giacomo e Andrea, quindi tutti gli altri. Vorrebbe scappare, andare a rintanarsi in qualche anfratto buio per non uscire mai più, invece rimane immobile. I suoi amici lo raggiungono e, senza pronunciare una sola parola, lo attorniano. Sui loro volti, un tempo benevoli, Giuda legge soltanto odio e disprezzo.
“Alzati, traditore!” dice infine Pietro. “Vattene, e non farti vedere mai più!” Poi sputa nella sua direzione, con rabbia.
Giuda, con gli occhi bassi, curvo come un vecchio, si allontana con passi incerti. Dietro di lui percepisce soltanto cupi borbottii, qualche ringhio sordo, un digrignare di denti. Allora si ferma e si volta.
La prima pietra lo colpisce in piena fronte. È grossa e aguzza, e provoca una profonda lacerazione. Sente il sangue scorrere, inondare gli occhi. Le altre arrivano subito dopo, in rapida successione. E poi ancora e ancora, tra sbuffi cupi e grida bestiali. Quando i sassi cominciano ad accumularsi sul suo corpo martoriato e steso a terra, Giuda ormai non sente più nulla.

giovedì 25 ottobre 2012

SE IO FOSSI...



L’ho conosciuta un anno fa e da allora per me tutto è cambiato. Amore a prima vista, direbbe qualcuno. In realtà non è andata proprio così. Dapprima non ho quasi fatto caso a quella donna che era venuta a lavorare nell’ufficio accanto al mio. Certo, ho notato subito il suo aspetto piuttosto gradevole, i suoi modi gentili. Ogni tanto mi capitava di avere con lei contatti occasionali, per via del lavoro. La sua naturale ritrosia, presto superata, ha fatto sì che il rapporto di amicizia che ora ci unisce sia nato e cresciuto senza fretta. Un processo lento ma intenso. Ciò mi ha consentito di studiarla poco per volta, di apprezzare i tanti aspetti positivi del suo carattere, di consolidare la nostra conoscenza.
A un certo punto però, e non saprei dire quando, qualcosa è cambiato. Il rispetto e la stima che provavo nei suoi confronti si sono trasformati in un sentimento diverso. Ho cominciato a nutrire per lei una vera e propria attrazione. Il mio corpo, quando lei si avvicinava, reagiva in maniera strana. Gradevole ma allo stesso tempo spiacevole. Avvertivo una specie di disagio, quasi un senso di inadeguatezza. Ho cominciato a temere i suoi giudizi, soprattutto quelli non espressi. E poi ero preda di reali manifestazioni fisiche. Spesso non riuscivo a modulare la mia voce, che risultava incerta e farfugliante, ed ero preda di lievi tremori delle gambe, difficili da reprimere, che mi causavano imbarazzo. Non c’era più alcun dubbio: la mia era una tremenda cotta. Il tormento di chiunque sia innamorato è quello di sapere se il sentimento sia o meno corrisposto dall’altra persona. E tale supplizio era anche il mio. Allora la osservavo con più attenzione, cercavo di cogliere dei segnali che potessero avvalorare, se non consolidare, le mie smaniose aspettative. Invece il suo comportamento era sempre lo stesso. I soliti gesti misurati, pieni di cordialità, dai quali tuttavia non traspariva un qualche particolare interesse. Lei, come detto, è una bella donna. I corteggiatori, in ambito lavorativo, non le sono mai mancati fin dall’inizio. La gelosia che avvertivo per i miei colleghi era tale da soffocarmi. Eppure non potevo intervenire, non potevo fare nulla, dovevo limitarmi ad assistere ai loro maldestri tentativi di conquista. Però li odiavo. Tutti, dal primo all’ultimo. Confesso che a volte provavo pure ostilità verso lei, la mia amata. Perché non si sottraeva a quelle attenzioni. Anzi, ne sembrava addirittura compiaciuta. Accettava i complimenti sempre con un sorriso, sembrava gustarli, anche se poi non c’era mai un seguito, quel suo atteggiamento condiscendente si rivelava di pura facciata. Questo lo sapevo di certo, perché lei mi raccontava tutto, tra noi due c’era la massima confidenza. Di conseguenza ricominciavo a sperare, pensavo che prima o poi si sarebbe accorta finalmente di me, del mio amore, della voglia che avevo di lei. Invece è passato tanto tempo e nulla è mutato. Tutti i miei sforzi si sono rivelati vani, inconcludenti. Il mio sogno si è trasformato in un incubo. Mi devo accontentare di guardarla, e non mi stancherei mai di farlo, di parlare qualche ogni tanto con lei, quasi sempre di argomenti che in fondo non mi interessano. Ogni tanto riesco a toccarla e ciò per un istante, per un fugace attimo, mi appaga. Accade quando riesco a sfiorare le sue dita sottili, ad accarezzare la pelle delle sue mani, con una scusa qualsiasi. Lei non si sottrae, perché non riesce a cogliere le mie reali intenzioni, non percepisce i battiti tumultuosi del mio cuore. No, lei sorride e afferra le mie mani, dice che sono belle, che dovrei curarle di più. Poi scoppia in una risata, quasi pentita per ciò che ha detto, mi abbraccia per farsi perdonare. Ecco, in quel momento vorrei morire, cessare di esistere per non soffrire più, farlo tra le sue braccia, a contatto con il suo corpo morbido e caldo. Invece non muoio mai, e il magico istante finisce presto.
Alla fine di tutto mi ritrovo in compagnia della mia solitudine, dei miei pensieri cupi, E sempre, in quei tristi momenti, affiora nella mia testa quella domanda che mi angoscia e che non riesco a ricacciare indietro, anche se lo vorrei. Quella domanda alla quale non so e non voglio dare risposta: cambierebbe qualcosa se io fossi un uomo?             

domenica 21 ottobre 2012

SFASCISTI



Gli ultimi sondaggi lo danno addirittura sotto il quindici per cento. Un disastro, un autentico tonfo, qualcosa di inimmaginabile fino a pochi mesi fa. Si sta parlando del PDL, naturalmente, il partito di plastica di Silvio Berlusconi, pure lui in caduta libera in quanto a consenso personale. In realtà, sarebbe più corretto dire il partito guidato da Angelino Alfano, poiché il Cavaliere negli ultimi tempi si è un po’ defilato e ha passato la mano al presunto delfino: tuttavia il giovane politico siciliano non è assolutamente riuscito a sottrarsi alla curatela del padre-padrino, e la sua azione alla guida del PDL è risultata più che fallimentare. Tanto da spingere lo stesso Berlusconi a prendere le distanze da tale catastrofica gestione. Sarebbe ingeneroso, in ogni caso, attribuire l’intera responsabilità al comunque incapace Alfano, dal momento che la inarrestabile decadenza del partito ha origini lontane, fin dalla sua fondazione.
Uno sfascio completo, dunque. Ognuno tira l’acqua al proprio mulino, tutti appaiono indecisi se abbandonare la nave che sta affondando oppure se tentare l’ennesima rinascita, che appare però impossibile e soprattutto improponibile. Anche il vecchio e imbolsito leader sembra incerto sulla strada da percorrere per arrestare la china che porta al mortificante oblio. Un capo che è confuso, senza idee, privo del tutto proprio di quelle spettacolari (e ingannevoli) trovate che ne hanno caratterizzato l’operato fin dalla discesa in politica. Un Berlusconi, come sempre, impegnato a difendersi in Tribunale e, nel contempo, ad attaccare e delegittimare la Magistratura. Un giochetto che non riesce più bene come una volta, che è diventato penoso. Così come sono apparse patetiche le sue dichiarazioni spontanee, l’altro giorno, di fronte ai giudici milanesi. Come avrà fatto, ci si domanda, la procuratrice Boccassini a reprimere le risate ascoltando quelle parole farneticanti, quasi comiche. Professionalità, tanta professionalità…
Berlusconi, nell’eventualità di una sua candidatura, sta pensando di formare una lista personale che possa coalizzarsi con ciò che rimane del suo vecchio partito (trasformato così in bad company!), lo stesso progettano di fare gli ex-AN, alcune deputate vicine al vecchio (quanto vicine?) hanno costituito un gruppo a sé, i “Fratelli d’Italia”, l’inguardabile Santanché propone invece di azzerare tutto, di ripartire da capo, anche se non si comprende in che modo, perché lei non lo dice. Ma poi nessuno fa nulla, tutti stanno a guardare, desolati e impotenti di fronte a un tale sfacelo, a una tanto vertiginosa perdita di consensi.
Eppure queste sono tutte persone che hanno attraversato un’intera stagione politica, durata quasi un ventennio. Individui indecorosi che, tranne brevi intermezzi, hanno governato il paese, determinandone il completo sfacelo, a tutti i livelli, non ultimo quello morale.
Ognuno dà la colpa all’altro, tutti danno la colpa a Gianfranco Fini, il traditore, l’uomo che, con la sua diserzione, ha avviato il triste epilogo. Nessuno compie la minima autocritica, meno di tutti Silvio Berlusconi, il vero responsabile della deriva, l’anima nera.
Un intero elettorato, quello di destra, rischia di non avere nessuno a cui rivolgersi per essere rappresentato, e questo a pochi mesi dalle elezioni politiche. Un’occasione forse irripetibile per la sinistra, predestinata a vincere, al di là della legge elettorale che sarà utilizzata per il voto. Una possibilità, forse l’ultima, per dimostrare che è possibile governare bene, perseguendo il rigore necessario per questi tempi difficili, ma senza perdere di vista equità e solidarietà, senza lasciare indietro chi è più disagiato, chi ha tanto patito la crisi economica. E tutto questo in un paese nel quale le idee conservatrici comunque continuano a essere prevalenti, e che forse prevarranno anche in futuro. Un modello che, tuttavia, nel futuro passaggio elettorale risulterà gioco forza minoritario, causa delusione, scoramento e indifferenza di tante persone che non si sentiranno rappresentate e che si tireranno indietro, preferiranno rimanere in attesa. Un varco nel quale dovranno insinuarsi le forze del progresso, una posizione che poi dovrà essere difesa con decisione. E questo potrà essere fatto con successo in una sola maniera, l’unica possibile, attraverso un’azione di governo finalmente virtuosa.           

RICONOSCENZA



I quattro ragazzi sono seduti attorno al tavolo, in quella stanzetta spoglia che odora del fumo di tante sigarette. Osservano attenti un foglio di carta spessa, sul quale è stata tracciata una rudimentale ma precisa piantina. Uno di loro, l’unico che parla perché tutti gli altri ascoltano soltanto, ha tra le mani un grosso pennarello blu. Lo agita in aria, ad accompagnare le parole decise che pronuncia, ogni tanto lo appoggia sul disegno, che di sicuro ha fatto lui, ma non appone alcun segno.
“Avete capito bene? Oppure è il caso di rivedere tutto ancora una volta?” domanda il giovane dai capelli rossi.
“Stai tranquillo, Simone. È tutto chiaro. Il vero problema, almeno da parte mia, è un altro” risponde il tizio alla sua destra, quello con la barba nera e incolta. Gli altri annuiscono, perché conoscono bene quale sia il dubbio dell’amico, un dilemma che è anche il loro.
“Problema? Quale problema?” si infervora il rosso.
“Come possiamo essere davvero sicuri che non passerà nessuno? Che qualcuno non venga coinvolto?”
Simone sogghigna, poi si accende l’ennesima cicca. Racchiude tutti in uno sguardo beffardo.
“Vi state cagando?” dice, senza che quel sorriso pungente abbandoni le sue labbra.
“Sai bene che non è così!” protesta il tipo smilzo dai lunghi capelli e dal grande naso.
“Non si direbbe…”
“Non vogliamo fare del male a nessuno. Lo scopo del nostro gesto è un altro” spiega con calma il giovane barbuto.
“Cazzo, Nicola!” sbotta Simone. “Quante storie! Abbiamo fatto sopralluoghi per un mese consecutivo. Dimmi, hai mai visto qualcuno transitare in quel vicolo alle tre di notte? Nessuno! Neppure un cane, un gatto o un sorcio. Nessuno!”
“Simone ha ragione” interviene il quarto ragazzo, l’unico che porta i capelli tagliati corti. “E poi non si tratterà di una grossa esplosione, così ha assicurato Bum-Bum. Un atto simbolico puro e semplice, e nulla di più.”
“Ehi! Non c’è qualcosa da bere?” domanda Simone il rosso, il capo.
“Purtroppo no.”
“Perché non andiamo a comprare qualche birra? L’importante sarà essere lucidi domani notte, non ora.”
Simone rivolge un’ultima occhiata al pezzo di carta, poi finalmente si rilassa.
“Come volete, ma non subito” dice guardando l’orologio. “È meglio se prima ripetiamo tutto di nuovo. Vedete, non dobbiamo trascurare alcun dettaglio, anche se in apparenza tutto può apparire semplice. Dobbiamo essere pronti ad affrontare eventuali difficoltà.”
“Ufff! E va bene, come vuoi tu. Ma poi si beve!” ribatte il ragazzo mingherlino.
E proprio in quell’istante qualcuno bussa alla porta. Dapprima con colpi lievi, che poi aumentano di intensità. I quattro giovani si guardano, colmi di apprensione. Qualcuno tra loro sbianca in volto.
“Che succede?” si domanda Simone, e subito ottiene la risposta.
“Aprite! Polizia! Aprite immediatamente!”
“Merda!” Ancora Simone, l’unico del gruppo che sembra mantenere il sangue freddo. È rimasto seduto, mentre gli altri si sono alzati e ondeggiano da una parte all’altra della stanza, simili a mosche impazzite.
Ancora colpi, sempre più forti. La porta sta per essere sfondata.
“Andate ad aprire, nel frattempo farò sparire il foglio. Ricordate, non ci possono accusare di nulla. Tanto non abbiamo armi né altro che ci compromettere. Forza, sbrigatevi!”
E i suoi amici, come fanno sempre quando lui ordina qualcosa con quel tono perentorio, ubbidiscono.

I quattro uomini sono seduti attorno al tavolo, in quella stessa stanzetta spoglia che non odora più di fumo, perché tutti hanno smesso di fumare. Sono trascorsi trentacinque anni dall’ultima volta che si sono ritrovati insieme, tanto tempo è passato da quella serata balorda che però è ancora ben impressa nelle loro menti, ma che nessuno di loro preferirebbe evocare.
“Voi lo avete detto?” domanda invece l’uomo calvo con il viso chiaro spruzzato di lentiggini, le sopracciglia rosse striate di fili bianchi. Tutti lo guardano ma non rispondono.
“Avete raccontato quell’episodio alle vostre mogli? Ne avete parlato con i vostri figli?” insiste lui.
“Cazzo, Simone! Non ci vediamo da una vita e la prima cosa che ci chiedi è questa?” sbotta il tipo con la barba completamente bianca.
L’altro scrolla le spalle e sorride.
“Semplice curiosità” dice.
“Piuttosto, che ne hai fatto dei tuoi bei capelli rossi?” domanda l’uomo secco dal grande naso.
“Non vedi? Li ho rasati. Sai, la moda…”
“Quali hai rasato? Gli ultimi quattro? O l’unico rimasto?”
“Sai che non ho mai visto una persona così magra con una pancia così pronunciata?” ribatte Simone, con l’antico tono canzonatorio.
“Non siate infantili!” interviene il quarto uomo. “No, io non l’ho mai detto a nessuno” aggiunge.
Tutti ridiventano seri di colpo.
“Neppure io” dice un altro.
“Anna, mia moglie, lo sa. Mia figlia no” interviene il quarto.
“E tu, Simone?” domanda il barbuto.
“Non sono sposato, non ho una donna. E neanche figli” risponde l’amico, con l’aria sconsolata.
“Che cosa hai fatto in tutto questo tempo. Perché non ti sei più fatto vivo?”
“Non vi siete dati molto da fare per rintracciarmi” ribatte Simone, con asprezza.
L’uomo magro si stringe nelle spalle, scuote il capo.
“Sei scomparso all’improvviso. Credevamo non volessi più avere niente a che fare con noi” dice.
Simone sospira, poi si sfrega gli occhi a lungo.
“Non è così. Il fatto è che mio padre prese molto male quella faccenda. Mi impedì di proseguire gli studi e mi spedì in Germania, da suo fratello, per allontanarmi dalle cattive compagnie, disse. Le cattive compagnie eravate voi.”
“Noi? Eravamo i tuoi migliori amici!” protesta il tipo abbronzato con i capelli corti completamente bianchi.
“Voleva proteggermi dalle vostre idee, non gli piaceva il clima che si era venuto a creare nel nostro paese, quella situazione di conflitto permanente.”
“Ma le nostre idee erano anche le tue!”
“Che volete, andò così. Mio padre riteneva che io fossi una persona debole e facilmente influenzabile.”
“Eri tu a trascinare noi!” sbotta il tipo con l’enorme naso.
Simone lo guarda e annuisce.
“Ho fatto il gelataio per trentacinque anni. Prima alle dipendenze di mio zio, poi per conto mio. Adesso ho venduto tutto e sono tornato. Con la mia attività ho guadagnato molto, non ho più necessità di lavorare. Ho sentito il bisogno di rivedervi.”
L’uomo con la barba scruta l’amico, pensieroso.
“In quella occasione tuttavia tuo padre ci aiutò” dice.
“Eh? Ti riferisci forse all’avvocato Volpini?” domanda Simone.
“Sì, era il suo avvocato, no? Prese le difese di tutti noi e fu molto abile. Riuscì a dimostrare che la nostra era stata una ragazzata, ci fece scagionare.”
“Cazzo, una settimana in galera però l’abbiamo fatta!” esclama il secco.
Simone lo squadra con sguardo feroce.
“Abbiamo rischiato di fare vent’anni, Cristo!”
“Simone ha ragione” interviene il tipo elegante dai capelli candidi. “Abbiamo avuto davvero una gran fortuna, anche se non ho mai capito bene un particolare.”
“Vale a dire?” domanda Simone.
“Il foglio, perché non lo hai distrutto?”
Tutti gli sguardi si appuntano su Simone.
“È vero, non sono riuscito a farlo sparire. Avrei potuto mangiarlo, ma non avevo sufficiente appetito” risponde, sorridendo. “Allora lo nascosi sotto il giornale che era sul tavolo.”
“Sotto il giornale?” domandano gli amici, quasi in coro.
“Be’… lo trovarono subito” conclude Simone, sempre sogghignando.
“Incredibile!”
“Pazzesco!”
Simone fa segno a tutti di tacere.
“Vedete, quella sera prima di incontrarmi con voi telefonai alla polizia e dissi tutto, o quasi.”
“Che cosa?”
“Avevo riflettuto a lungo, e avevo concluso che ci stavamo per imbarcare in qualcosa che era al di sopra delle nostre capacità, qualcosa che avrebbe potuto rovinare le nostre vite. Mi sentivo responsabile, perché era stato io a trascinarvi in quella faccenda. Gli elementi influenzabili eravate voi, non io, su questo mio padre aveva completamente torto. Tuttavia non potevo tirarmi indietro del tutto, non volevo perdere la faccia.”
“Traditore! Giuda!” esclama con foga, e rabbia, l’amico con la barba.
“Aspetta!” lo blocca Simone. “Se non fosse stato per me tu, Alfio, adesso non saresti un famoso architetto. E tu, Claudio, non saresti diventato uno stimato medico. E la tua grande azienda non esisterebbe, Massimo. Ragazzi, dovete ringraziarmi perché vi ho salvato, e ho fatto in modo che le vostre vite non fossero distrutte. In fondo, quello che ci ha rimesso di più sono stato io.”  
I tre si guardano, increduli. Poi annuiscono, e sorridono. Anche Simone lo fa, finalmente libero da quel gran peso. Quindi si alzano e, come un solo uomo, iniziano a colpire l’amico traditore. Sfogano su di lui, con crudeltà, quella violenza che per trentacinque anni è rimasta repressa. E lo fanno finché non vedono scorrere il sangue.

martedì 16 ottobre 2012

RINNOVAMENTO?



Mai come in questi tempi travagliati si presenta così attuale il tema del ricambio della classe politica. Nei giorni scorsi Walter Veltroni, uno degli esponenti storici del Partito Democratico, ha annunciato che non si candiderà alle prossime elezioni politiche, considerando esaurita la sua esperienza nelle istituzioni.
Veltroni, ricordiamolo, è stato il primo segretario del PD, nonché deputato per tre legislature, candidato premier nel 2008, Vicepresidente del Consiglio e ministro della Cultura nel primo governo Prodi, sindaco di Roma. La sua mossa a sorpresa ha naturalmente ricevuto il plauso di tutti, anche se ha creato alcune comprensibili difficoltà ai colleghi di partito con analoga, lunga militanza parlamentare. Al di là di una decisione che comunque è da ritenersi personale, degna del massimo rispetto, la questione del rinnovamento della classe dirigente si ripropone, dopo questo fatto di rilievo, con ancora maggiore forza.
Walter Veltroni non sarà quindi uno dei politici messi da parte, nel perseguimento della sua furia rottamatrice, da Matteo Renzi, il sindaco di Firenze candidato alle elezioni primarie del Partito Democratico.
La battaglia di Renzi, pur encomiabile sotto alcuni punti di vista, appare però ristretta a una disputa di natura strettamente generazionale: i vecchi costretti a farsi da parte, con le buone o con le cattive, per fare spazio ai giovani. Una conclusione, forse eccessivamente semplificata, che non sempre in politica si è dimostrata valida. Il rischio, che è facile intuire, è quello dei “dilettanti allo sbaraglio”. Da evitare.
Nell’ultimo periodo è cresciuta sempre di più l’ostilità, da parte di un’ampia fetta di cittadini, nei confronti dei politici di professione. La causa è da ricercarsi, oltre che nei ripetuti esempi di cattivo governo degli ultimi anni, soprattutto nel moltiplicarsi di scandali e episodi di malaffare con politici quali protagonisti. Ci si chiede, a questo punto, quanto questi due aspetti siano legati. È alquanto problematico poter fornire una risposta soddisfacente. Un tentativo di analisi, seppure superficiale, porterebbe a ipotizzare che tale legame in realtà non esista. Oppure che sia assai debole. Un conto sono la scarsa competenza, l’incapacità manifesta e l’assoluta improvvisazione, un altro è la disonestà sempre più diffusa.
Quali dovrebbero essere, allora, i criteri ai quali ispirarsi nella selezione della classe politica?
Innanzitutto non l’età anagrafica. Un paese ha necessità dell’apporto, e dell’impegno diretto, di tutti i suoi cittadini, giovani e meno giovani. La data di nascita non conta, poiché in tutti è possibile riscontrare doti di abilità e preparazione, attingere a nuove idee o affidarsi a esperienze consolidate.
La qualità principale dell’aspirante governante dovrebbe essere la passione, mai inquinata da interessi personali, sempre accompagnata dal desiderio di lavorare per gli altri.
L’attività politica, inoltre, può essere interpretata sia come un servizio da rendere al proprio paese per un periodo limitato di tempo sia come un impegno a vita. L’uno non esclude l’altro. In base a ciò, non è possibile dunque escludere a priori la presenza di politici di professione, a condizione che questi ultimi si siano dimostrati all'altezza dell'importante incarico ricoperto e abbiano conseguito buoni risultati.
La selezione, in ogni caso, spetta in prima battuta ai partiti, poi agli elettori.
Sarebbe sbagliato buttare via tutto, e lasciare così prevalere l’insana volontà di cambiare a tutti i costi, tanto per il gusto di farlo. Ci si potrebbe trovare di fronte a sgradevoli sorprese.

domenica 14 ottobre 2012

NON CHIAMARMI PIU'



Appena mi siedo sul divano, di fronte al televisore acceso, squilla il telefono. Vorrei non rispondere, ma ormai la mia quiete è stata turbata, sarebbe un gesto inutile, una vana ripicca. Sbuffo e mi alzo, senza che il fastidio mi abbandoni.
“Ciao, sono io…”
“Scusi, chi parla?” domando, anche se ho riconosciuto quella voce. Non tollero chi non si presenta, soprattutto quando quel qualcuno irrompe senza preavviso nella mia vita attraverso l’odioso apparecchio.
“Sono Rina! Ti ho forse disturbato?”
Non è il caso di tergiversare, di mostrarsi falsamente gentile. Permetto alla mia insofferenza di affiorare e affondo, crudele.
“Ti avevo chiesto di non chiamarmi più” dico, con asprezza.
“Lo so…”
“E allora? Perché l’hai fatto?” Giro il coltello, la lama penetra in profondità. Lacera.
“Mi sentivo sola, avevo bisogno di parlare con qualcuno. Ho pensato a te.”
Tento di placare la mia irritazione. Me la immagino, all’altro capo del filo. I suoi capelli biondastri, mai troppo puliti, il suo sguardo obliquo.
“Che cosa mi devi dire?” chiedo, cercando di controllare il tono di voce, che risulta comunque troppo acuto.
“Sei solo, vero?”
“Sono quasi sempre solo” rispondo.
“Perché non vieni da me?”
Colpito. Mi aspettavo qualsiasi richiesta, ma non quella. Ho un attimo di confusione, fatico a riordinare le idee, a rimetterle una dietro l’altra in una successione ordinata e coerente. Non rispondo.
“Allora?” insiste lei. Vuole insinuarsi in quella breccia che si è aperta, lo so.
“Non so…”
“Ti aspetto.”
“Non credo che verrò” riesco a dire, fingendo sicurezza. Che non ho.
Lei non bada alla mia risposta. Una strategia che ho imparato a conoscere, ma dalla quale non mi so difendere. Rimango zitto.
“Sai, sono a letto…”
“Ah…”
“Pensa a come sono vestita.”
“Non saprei…” Ogni mia risposta potrebbe essere fatale. Preferisco la prudenza, non desidero scoprirmi.
“In realtà sono quasi nuda. Indosso soltanto una leggera sottoveste. Sai, di quelle corte e trasparenti, e sotto non ho nulla.”
Deglutisco, poi mi maledico. Di sicuro il disgustoso suono è stato amplificato dal telefono. Lei lo avrà sentito e chissà che cosa avrà pensato. Forse ha sorriso soddisfatta, corrucciando le labbra sottili in una espressione compiaciuta.
“Su, vieni…” La sua voce ora è roca, sensuale.
“Non hai rispettato i patti” dico, contegnoso.
“Eh?” Disappunto. Sì, ho compromesso quell’atmosfera costruita da lei con tanta fatica. Sono orgoglioso di me.
“Non avresti dovuto telefonare. Così avevamo stabilito” aggiungo.
“Perché sei così spietato con me? Così insensibile? Sei cambiato, sei diverso rispetto a quella prima volta.”
Mi rendo conto che la sua è una manovra diversiva. Che cosa dovrei fare a questo punto? Riattaccare? No, non ci riesco e allora cerco di guadagnare tempo.
“A cosa ti riferisci?” chiedo, prudente.
“Ma come? Non ti ricordi più? Parlo di quando siamo usciti insieme, quel pomeriggio…”
“Ah! Scusa se ti correggo, ma quella volta ci siamo incontrati per caso, anche se già ci conoscevamo…”
“Però non hai proseguito per la tua strada, come facevi sempre, mi hai accompagnato.”  
“Non eri sola…” ribatto con scarsa convinzione.
“Che importa? Ero con la mia amica Carla. Ti sei fermato per lei, forse?”
“No, certo che no. Tra l’altro quella tua amica non è molto simpatica.”
“Che dici?”
“Non ha detto una parola, e ha continuato a scrutarmi per tutto il tempo” ribatto, ripensando a quell’atteggiamento che mi aveva parecchio infastidito.
“Le avevo parlato di te, era soltanto curiosa.”
“Mi è sembrata una gran cafona…”
“Smettila! È la mia migliora amica! E poi se n’è andata quasi subito, ci ha lasciato soli. In fondo è stata discreta.”
“Mi hai chiamato per difendere il comportamento della tua amica?” Il mio tono è ridiventato duro, quasi feroce, tale da ferire.
“No, scusa. Ti ricordi che cosa abbiamo fatto dopo?”
“Non abbiamo fatto nulla” replico.
“Non è vero, siamo andati in un bar.”
“Appunto.”
“Stupido! Io ho ordinato un grosso gelato e tu soltanto un misero caffè. Rammento che guardavi di continuo l’orologio, anche se cercavi di farlo di nascosto. Però sei rimasto, anche se avevi fretta, e hai ascoltato tutto ciò che ti ho detto.”
“Hai parlato soltanto tu” mi affretto a ribattere.
“Ho raccontato tutto di me…”
“Già…”
“Poi tu all’improvviso ti sei alzato e sei scappato via. Ti ho osservato, mentre camminavi sotto i portici. La tua andatura era strana, ti affrettavi ma, nello stesso tempo, sembravi intento a pensare. Volgevi il capo prima in una direzione poi in un’altra, senza sosta, come se fossi impegnato in un muto dialogo con te stesso. Chi era l’oggetto di quelle tormentate riflessioni? Ero forse io? Adesso me lo puoi dire…”
“Senti, ora ti devo lasciare” dico. Non ho alcuna intenzione di parlare del passato, né di farmi coinvolgere in una discussione cerebrale. Non ne ho più voglia.
“E poi ci siamo rivisti, alcuni giorni dopo. Hai accettato di incontrarmi ai giardini.”
“È stato più facile dire di sì che di no. Avevi insistito così tanto” dico, volutamente perfido.
“Bugiardo, confessa che eri contento che te l’avessi proposto. Desideravi stare solo con me, ammettilo.”
“Forse…”
“Quel giorno ci siamo baciati.”
“Tu hai baciato me” preciso, con un puntiglio del tutto fuori luogo.
“È vero, ma anche tu lo volevi. Soltanto, non hai avuto il coraggio di farlo. Ho dovuto prendere l’iniziativa, ma non ne sono pentita, lo rifarei.”
La conversazione sta diventando patetica, addirittura penosa. La devo interrompere.
“Senti…”
“Ci siamo baciati a lungo. Provavo dolore alle labbra, ma ero felice” prosegue lei, imperterrita.
Non replico, le permetto di continuare. Un errore.
“E ti ricordi l’altra volta al bar? In quel salottino al piano di sopra? Eravamo soli” dice.
“Mi rammento il cameriere…”
“Era buffo, con quei ridicoli piedi piatti. E poi era anziano, poveretto…”
“Temevo che salisse a ogni momento. Invece non lo fece più, dopo averci servito.”
“Forse aveva capito.”
“Chissà…”
“Mi hai accarezzata a lungo.”
“Eh?”
“Le gambe. Prima le ginocchia, poi poco alla volta hai sollevato la mia gonna, e la tua mano ha iniziato a sfiorare, leggera, le mie cosce. In un primo momento all’esterno, quasi con timore, dopo sempre più su, all’interno…”
Al pensiero deglutisco di nuovo, le mie fauci sono aride. Non riesco proprio a reprimere i miei più bassi istinti.
“Portavi le calze” dico soltanto.
“Certo, era inverno e faceva freddo. Però ho percepito ugualmente, anche attraverso il tessuto, il tuo desiderio.”
“A un certo punto avevo le dita indolenzite” mi scappa. Dall’altra parte sento un risolino.
“Lo avevo capito!” dice, con voce squillante. “Per questo hai cambiato obiettivo?” aggiunge.
“Come?” Fingo di non aver compreso, ma non è così.
“Mi hai sbottonato la camicetta. Senza guardare, non so se perché temevi di incrociare il mio sguardo oppure se per tenere d’occhio la scala. E i movimenti del vecchio cameriere.”
“Tu eri tutta rossa in viso” dico, un po’ indispettito.
“Per forza, ero molto eccitata. Tu no?”
“Può essere…”
“Dopo mi hai abbassato il reggiseno…”
“Lo hai fatto tu.”
“No, ti sbagli. Mi hai scoperto un seno, hai stretto un capezzolo tra due dita, lo hai sfregato ha lungo. Quindi vi hai appoggiato le labbra…”
“Ho dovuto smettere quasi subito. Non riuscivi a controllarti, hai iniziato a mugolare…”
“Certo, non possiedo la tua imperturbabilità” dice, seccata.
“Ascolta, non mi va più di parlare del passato. Da allora è trascorso del tempo, e siamo entrambi cambiati. Abbiamo fatto altre cose, avuto altre esperienze.”
“Rinneghi ciò che hai fatto?”
“No, perché sarebbe come rinnegare me stesso, e non intendo farlo. Ma è del tutto inutile…”
“Vieni da me, ti prego.” Quasi una disperata invocazione.
“Non lo so…” avverto che qualcosa dentro di me si sta incrinando. La mia determinazione a resistere si attenua sempre più.
“Se stasera non sarai qui con me non ti vorrò mai più vedere!”
Crollo, ma non del tutto.
“Potrei passare da te dopo la partita” propongo con una certa cautela.
“Come? Quale partita?”
“Stasera c’è la finale della Coppa. Deve essere già iniziata.” Mi rendo conto che la mia proposta è un po’ azzardata. Ma ormai i miei freni hanno ceduto, e voglio tutto.
“Ascoltami bene. Io sono qui, distesa sul letto, e mi sto toccando in attesa di te. Ti aspetto, ma se non ti vedrò entro mezz’ora davvero non ti chiamerò più!”
Proprio ciò che avevamo deciso, penso. E che lei non ha fatto.
Farfuglio qualcosa, poi ci salutiamo senza che nulla sia stato definito. Da una parte un’incertezza che dilania, dall’altra qualcosa di più dcheuna speranza.
Riattacco, e torno a sedere sul divano, zuppo di sudore gelido. Rivolgo per un attimo l’attenzione allo schermo del televisore e mi accorgo che la mia squadra sta perdendo.

sabato 13 ottobre 2012

ARRENDITI, SEET CIRCUNDA'A!



E lui, il governatore lombardo Roberto Formigoni, non ne vuole proprio sapere di dimettersi. Un altro dei suoi assessori, l’ennesimo, è stato pizzicato e sbattuto in galera con accuse infamanti, gravissime. Collusione con la malavita organizzata, con la ‘ndrangheta per la precisione. Intese finalizzate alla compravendita di voti, almeno quattromila, per cinquanta euro a croce.
No, lui non molla. Anzi, minaccia di far saltare le giunte di altre regioni del Nord, Piemonte e Veneto, causa effetto domino. Così erano gli accordi siglati a suo tempo, dice, tra la malcelata irritazione e le accuse di indebita ingerenza dei suoi colleghi governatori (leghisti) Cota e Zaia.
Il Celeste non cede, e non si riescono a comprendere le ragioni di tanta stupida ostinazione. Sarà puntiglio, sarà ottusità o pura tigna, oppure semplice disperazione, forse la consapevolezza che dopo tutto sarà finito per sempre. Niente più luci della ribalta e sfoggio di superbia, mai più vacanze a scrocco. In ogni caso Formigoni non esita a ostentare l’abituale faccia di tolla, quella che lo ha sempre contraddistinto, quella dei suoi giorni migliori. E non manca la solita prepotente arroganza, accompagnata dalla presunzione di essere in ogni caso il più bravo, di avere operato bene, e la certezza dell’impunità. Sì, perché lui non ha fatto nulla di male, ma è stato tradito da uomini nei quali aveva riposto la massima fiducia. Uomini che, comunque, aveva scelto lui. A tale proposito dovrebbe avere almeno l’onestà di ammettere la sua palese incapacità politica, la sua inadeguatezza ad un ruolo che ricopre da tanto tempo.
E invece no, lui tira dritto, azzera la giunta e la intende ricomporre. Con persone nuove, poche, forse soltanto tecnici, il tutto allo scopo di andare avanti e di arrivare a fine mandato, nel 2015. Il suo quarto mandato, poiché il governatore è alla guida della Lombardia da quasi quindici anni. Tanti, troppi. Un’eternità.
Naturalmente non può fare tutto ciò da solo. Ha bisogno dell’appoggio dei suoi alleati storici, i leghisti. E questi all’inizio tentennano, le accuse di connivenza con la malavita non piacciono per nulla, sono difficili da accettare, e proprio con quella malavita che il loro eroe, “barbis” Maroni ha combattuto con forza; addebiti pesanti che soprattutto non sono ben digeriti dalla base, o perlomeno da quello che ne è rimasto dopo la penosa vicenda che ha coinvolto Umberto Bossi.
Il segretario lombardo Matteo Salvini tuona, chiede elezioni anticipate, vuole che si riparta da zero. Insomma, la Lega intende mettere al più presto le mani sulla Lombardia, l’ultima vera roccaforte dei sognatori padani. E il popolo leghista approva, plaude, si entusiasma per questo inconsueto scatto di reni del proprio stanco partito. Invece Maroni frena, parla con Angelino Alfano e forse con chissà chi altri, modera e soffoca, apre ad altre possibilità senza ben precisare quali esse siano. La base, di nuovo, non capisce. Si indigna, incredula per questa retromarcia, per questa improvvisa giravolta dettata da motivazioni del tutto incomprensibili, da tatticismi non degni di un movimento quale dovrebbe essere la Lega, già rovinata dalle scandalose questioni interne e da anni di partecipazione a governi che hanno affossato il Paese. E fatto naufragare soprattutto quel Nord che invece doveva essere tutelato, perché questa era la vera missione del partito padano.
E poi, oggi, un nuovo colpo di scena. Maroni cambia idea ancora una volta. Formigoni se ne deve andare al più presto. Si dovrà votare ad aprile, in concomitanza con le consultazioni politiche. La dirigenza leghista non ha retto alla pressione della sua base come al contrario aveva fatto per lunghi anni. Stavolta però è in gioco la sopravvivenza stessa del partito. Occorre dare ai militanti un segnale forte, dimostrare che, al di là delle titubanze, un nuovo corso è stato avviato.
E lui, il governatore, rimane solo. Adesso è davvero assediato, è circondato. Formigoni dovrà cedere per forza. Chissà se finalmente riuscirà a pronunciare quella parola, dimissioni, che proprio non riesce a dire.