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domenica 30 settembre 2012

NON PORTARE GATTO...



Mi sbaglio, e scendo dal treno una fermata prima. Poco male, vuol dire che mi farò una bella camminata. In fondo ne ho bisogno, dopo tante ore passate in assoluta immobilità.
Mi guardo intorno e mi rendo conto che tutto è cambiato. D’altra parte sono trascorsi alcuni anni dall’ultima volta che sono stato qui. Per raggiungere a piedi la prossima stazione è sufficiente continuare a camminare attraverso questo ampio tunnel sotterraneo, e allora mi avvio di buon passo. Lungo le pareti della galleria c’è molta animazione, c’è gente che va e viene, sono stati aperti negozi e ristoranti, e anche alcuni uffici.
Dopo un po’ noto, quasi nascosto in un anfratto buio, un piccolo gatto. È poco più di un cucciolo, bianco e grigio, e sembra spaventato. Mi avvicino alla bestiola e la accarezzo. Fa le fusa, e non sembra nutrire alcun timore nei miei confronti. Lo raccolgo, e proseguo la mia marcia tenendolo in braccio, stretto al petto, dove lui si rannicchia e chiude gli occhi. Chissà se avrà fame, oppure se è soltanto stanco. Anche addormentato, non smette di ronfare.
Sulla mia destra scorgo una panetteria e, sempre tenendo ben stretto il gattino, entro e compro del pane. All’improvviso mi sono accorto di avere appetito. La fornaia che mi serve non si avvede di quel minuscolo essere sistemato sotto il mio giaccone. Sorrido tra me, divertito, e riprendo il mio tragitto sotterraneo, sbocconcellando la pagnotta ancora calda e pensando a che cosa fare del gatto.
Dopo un altro po’ finalmente esco alla luce del sole e mi ritrovo in quel quartiere che una volta, quando ero poco più di un ragazzo frequentavo tutti i giorni. Il gattino forse percepisce quel nuovo ambiente, la luce naturale e i diversi odori, e si sveglia. Sorprendendomi, con un balzo si getta a terra. Non si allontana di tanto, tuttavia non riesco a riprenderlo. Zampetta stando alcuni metri davanti a me, e riesco così a non perderlo di vista. D’un tratto mi trovo di fronte una specie di monolite roccioso, del quale non ricordo la presenza. È strano che la memoria mi tradisca in questa maniera, e ne sono sorpreso. Mi riscuoto dallo stupore quando vedo il gattino che si arrampica sulla roccia, svelto e agile. Non mi resta altro da fare che seguirlo. Salgo, aiutandomi con le mani, finché non arrivo in cima, dove la bestiola mi sta aspettando e si lascia catturare. Non siamo molto in alto, però mi rendo conto che sarà difficoltoso scendere, dal momento che soffro di vertigini. Lentamente, con grande cautela, arrivo quasi alla base del monolite, dove non trovo più appigli per proseguire la discesa. Allora chiudo gli occhi e salto. L’atterraggio è piuttosto rovinoso ma per buona sorta senza danni, e riesco a rimettermi in piedi, sempre stringendo il micio, che non appare per nulla turbato. Da lontano, dall’altra parte della strada, un uomo ha assistito a tutta la scena. Tiene una mano sulla fronte, per riparare gli occhi dai raggi del sole. Sembra un contadino, capitato per caso in città. Non c’è più niente da vedere, e allora si allontana.
Ancora ansante per lo sforzo compiuto, e spaventato per il pericolo corso, mi avvio tra le case, strette e lussuose abitazioni appiccicate l’una all’altra, edificate su una ripida salita. Soltanto adesso avverto di non avere più addosso il giaccone. L’ho perso, senza neppure rendermene conto. Non riesco a comprendere quando ciò possa essere accaduto. Nella mano, quella non impegnata a trattenere il gatto, mi ritrovo un paio di guanti, proprio quelli che si trovavano nella tasca del mio indumento scomparso.
Attonito e ormai stranito, mi avvicino a un balcone che sporge sulla via. In piedi, girata di spalle, c’è una donna. Indossa una corta gonna blu e degli stivali color panna. Le sue gambe, nude e abbronzate, sono davvero belle. Decido di rivolgermi a lei per chiedere un’informazione. Non riesco più a rammentare dove si trovi l’abitazione della mia amica, di nuovo la mia memoria fa cilecca.
“Mi scusi…”
La donna si volta e allontana dal viso i lunghi capelli biondi. Vedo un volto pieno di rughe, quello di una vecchia. Seppure sbalordito rivolgo la mia domanda, alla quale lei risponde con voce strozzata, inquietante. Le sue informazioni però risultano precise, e dopo pochi minuti mi trovo di fronte alla casa che stavo cercando. È rimasta uguale, anche se la facciata è dipinta di un altro colore.
Suono il campanello, mentre il gattino si è di nuovo addormentato. Mi apre lei, la vecchia governante, quella che un tempo avevo soprannominato Osso di Seppia. Deve essere molto anziana, ma la sua figura alta e magra è ancora ben eretta. I suoi capelli adesso sono azzurri. Con un cenno mi invita a sottomettermi all’antico rito, quello di sfilare le scarpe prima di entrare. Quando scorge il gatto fa una smorfia, ma non dice nulla. Sono all’interno e, come sempre, mi stupisco di quando sembri enorme quell’abitazione, che dall’esterno invece pare piccola. Subito mi viene incontro la mia amica. Non è sorpresa di vedermi, come se la mia improvvisa visita le fosse stata annunciata. Due cani Carlini si agitano ai suoi piedi, fiutano il micio, che apre gli occhi ed emette con scarsa convinzione alcuni piccoli soffi. Quella bestiola non ha paura di nulla, presto si quieta e guarda con curiosità quei buffi animali dal muso nero.
Lei non è invecchiata. La pelle del viso è ancora fresca, i suoi fitti capelli corvini non hanno alcuna striatura grigia. È felice di rivedermi dopo tanti anni, mi rivolge tante domande, alle quali fatico a rispondere. Mi scorta attraverso gli innumerevoli ambienti dell’abitazione, sempre seguita dai suoi affettuosi cagnolini. Poso a terra il gatto, che rimane immobile, e consente ai cani di appropriarsi del suo odore. Le bestiole tra loro non sono ostili, e fanno subito amicizia. vengo condotto in cucina, dove vedo suo padre impegnato ai fornelli, la sua passione. Quasi non mi saluta, tale è la sua concentrazione. Forse non mi ha nemmeno riconosciuto. Lei prepara una grossa ciotola di cibo, che i Carlini e il mio gattino condividono senza alcun problema.
La casa è piena di gente, tutte persone che non conosco, e non riesco a parlare con la mia amica; di continuo c’è qualcuno che ci disturba, che interrompe la nostra stentata conversazione. Mi viene presentato un giovane infagottato in una sgargiante divisa, forse un parente. O un amico di famiglia, chissà.
Sono ormai stanco e frastornato, quando in lontananza sento dei tuoni. Sta per piovere, e a questo punto devo andare via. Di fretta saluto la mia amica, accenno al gattino. Lei mi guarda meravigliata.
“Pensavo lo volessi tenere tu” dice.
Scuoto il capo.
“Per ora te ne dovrai occupare tu. Con i cani va d’accordo” rispondo e mi avvio verso l’ingresso, pronto a uscire. Dall’ombra sbuca Osso di Seppia, che ha intuito tutto ed è pronta ad aprire la porta. Lo fa, sempre senza parlare.
“Arrivederci e grazie” le soffio in faccia.
La mia amica mi guarda.
“Arrivederci e grazie” dico anche a lei e poi esco.
Sta iniziando a piovere, e lei mi segue e si ferma sulla soglia.
“Stavi scherzando, vero?” dice.
Non rispondo e le chiudo la porta in faccia.
Cerco le scarpe ma non le trovo. Mi affanno, giro più volte su me stesso e infine le scorgo. Ma non sono le mie. Sono due calzature minuscole, da bambino, diverse tra loro e una più piccola dell’altra. Provo ugualmente a infilarle ai piedi, tirandole, cercando in tutti i modi di allungarle, ma è tutto inutile. Proprio non ci riesco. Le mie lacrime si mescolano con la pioggia che cade sul mio viso.

martedì 25 settembre 2012

IL DISPENSATORE



Il trillo rabbioso della sveglia, l’incubo quotidiano di tutti i lavoratori. Non per me. Mi alzo e mi affaccio alla finestra. Fuori è ancora buio, ma che importa? Ora solare e ora legale, e tutte le appassionate discussioni che ne conseguono. L’argomento non mi appassiona, perché io penso soltanto a lui.
E allora mi vesto in fretta, arraffando i primi indumenti che mi capitano a tiro. Proprio a caso, perché non ho neppure acceso la luce nella stanza, e soprattutto perché a me i vestiti non interessano. Firmati o non firmati, tanto sono utili soltanto per coprire il mio corpo. In verità, non tutti condividono questa mia filosofia. Un tempo nemmeno io, ma adesso sì, e questo da quando ho incontrato quell’individuo.
Sempre al buio mi passo il rasoio sul viso, e il risultato si può ben immaginare. Pazienza, vuol dire che la prossima volta sarò più scrupoloso. Per ora, comunque, non ho ferito i miei occhi con il violento chiarore della lampada dello specchio, quello del bagno. Questo è l’importante, e anche lui sarebbe d’accordo, immagino.
In cucina, per una robusta e sana colazione. Su questo il mio amico non transige, a tale proposito le sue raccomandazioni sono continue. Prima non ci badavo, ma lui mi ha spiegato che devo essere in forma se voglio affrontare la giornata nel migliore dei modi. Ho scoperto che ha ragione.
Riordino con gesti svelti e precisi la stanza da letto e la cucina. Quando possibile, è utile vivere in un ambiente pulito e ordinato. Ciò contribuisce ad accrescere l’autostima, a vivere con maggiore serenità e, di conseguenza, a essere sempre ben disposti nei confronti del prossimo. Questo me l’ha insegnato lui, ed io condivido in pieno.
Scendo la scale fischiettando perché sono allegro e non vedo l’ora di incontrarlo. So che mi attende in strada, come fa tutte le mattine da un po’ di tempo. Non vuole mai salire in casa, non l’ha mai fatto neanche una sola volta. Dice che quello spazio e quel tempo sono soltanto miei, e che li devo gestire da solo. Anche su questo ha ragione, naturalmente, tuttavia alla sera lui mi manca, qualche volta un po’ ne soffro.
Esco dal portone, di slancio, e me lo trovo davanti.
“Andiamo?” gli dico. “Non vedo l’ora di cominciare.”
Lui non si muove.
“Aspetta” dice. “Ti devo parlare.”
“Ti ascolto.”
“Tu lo sai che io non esisto, vero?”
Mi secca un po’ ammetterlo, ma alla fine confermo. Sì, questo me l’aveva detto, la prima volta che ci eravamo incontrati.
“Ti devo lasciare” aggiunge.
“Di già?” domando, deluso.
“Lo sapevi che prima o poi sarebbe accaduto.”
“Sì, così avevi detto. Avrei sperato durasse di più.”
Lui ride. È simpatico quando ride.
“Ti rendi conto che ormai hai imparato tutto?”
“Sul serio?”
“Certo. Sai come ti devi comportare, che cosa pensare e ciò che devi dire. Ammetto che mi hai sorpreso, sei stato un allievo perfetto.”
“Ti ringrazio, ma esserlo non mi è costato alcuno sforzo.”
“Lo so, perché già possedevi le necessarie potenzialità. Io le ho semplicemente fatte emergere e le ho levigate. È così in quasi tutti gli individui, credimi. Si tratta solo di lavorarci e i risultati arrivano. E d’ora in poi tu potrai diffondere il mio insegnamento.”
“Sono una specie di discepolo?”
“Puoi ben dirlo! Un discepolo coi fiocchi!”
“Ti posso fare una domanda?” chiedo.
“Certamente” dice lui, ma vedo che ha fretta di andar via.
“Chi sei veramente?”
“Te l’ho detto, materialmente non esisto. Tuttavia, se proprio vuoi, mi puoi considerare come un qualcosa di spirituale, una sorta di consapevolezza, diciamo.”
“Ho un po’ di paura, non ho capito esattamente quello che dovrò fare.”
“Non preoccuparti, lo saprai fare nel migliore dei modi. Devi soltanto essere te stesso, quello che sei diventato, intendo. In tal modo sarai un efficiente… dispensatore di bontà.”
“Era questo il tuo vero scopo?” domando ancora.
“Esattamente. Adesso però ti devo proprio lasciare. Mi raccomando, non venire mai meno ai tuoi importanti compiti. Ne ricaverai grande soddisfazione, e aiuterai gli altri.”
“Dove andrai?”
“Ti concedo un’ultima risposta, te lo meriti. Andrò da qualche altra parte, ovunque  ci sarà bisogno di me, in questo oppure in un altro mondo, chissà…”
“Addio, amico mio…”
“Addio. E tu, ma specialmente tutti gli altri, cercate di fare i buoni…”
Annuisco, ma lui si è già dissolto.


lunedì 24 settembre 2012

GIORNI DORATI




Erano giorni dorati

In due, oppure in tre, prendevamo e partivamo

Il mondo era nelle nostre mani

La strada, e la musica

Quelli erano giorni dorati

Che non torneranno più

venerdì 21 settembre 2012

LA RICHIESTA



Ne avevamo parlato il giorno prima, durante la cena. Quella sera non eravamo soli. Avevamo invitato i nostri amici Leo e Sandra. Lo facevamo all’incirca una volta al mese, con sorprendente regolarità. Mio marito e Leo si conoscevano da tanto tempo. Si erano incontrati sui banchi di scuola, ne avevano compiuto insieme tutto il percorso, poi si erano persi un po’ di vista. Si erano rivisti per caso qualche anno dopo, quando noi eravamo già sposati e Leo aveva appena iniziato a frequentare Sandra. Per loro niente matrimonio, così avevano deciso, anche se avevano iniziato a convivere quasi subito.
Leo non mi è affatto simpatico. Lo tollero, niente di più. Non riesco proprio a capire che cosa mio marito trovi di interessante in lui. Si tratta di due persone molto diverse. Il mio compagno è un tipo serio e riflessivo, di poche parole, mentre il suo amico è completamente all’opposto. Borioso, a tratti arrogante, molto vanitoso. Ama essere sempre al centro dell’attenzione e la sua logorrea è proverbiale. Un diluvio di parole, spesso vuote, in grado però di stordire chiunque dopo pochi minuti. In quanto a Sandra, la sua compagna, mi spiace dover dire che si tratta di una ragazza insignificante, del tutto priva di personalità. Molto insicura di sé, ogni volta che apre bocca rivolge lo sguardo in direzione di Leo, ne cerca l’approvazione e quasi mai la ottiene.
Come sempre la serata si prospettava tutt’altro che stimolante. Tuttavia, come le altre volte, mi sarei sforzata di fare il possibile affinché non risultasse disastrosa. Lo facevo soltanto per mio marito, per assecondare in qualche maniera quella sua voglia di farsi del male. Perché ci teneva così tanto a incontrare Leo? Tra l’altro avrebbero potuto benissimo vedersi da soli, evitando così di coinvolgere me e Sandra, che non avevamo mai nulla da dirci, dal momento che tra noi non c’era davvero alcuna affinità. Invece non lo facevano, e insistevano per perpetuare quei tristi ritrovi dai quali mai nessuno usciva appagato. Neppure loro due, immagino.
Durante il pasto avevamo iniziato a parlare di lavoro, come d’altronde accadeva tutte le volte, poiché tra noi non c’era altro argomento possibile su cui intavolare una conversazione. Leo, con snervante ripetitività, aveva esaltato la sua attività. Dicendo che gli affari stavano andando sempre meglio, che i clienti erano in costante aumento, che stava addirittura pensando di assumere un dipendente. Che lavoro fa? Il rappresentante di piccoli elettrodomestici, mi pare. Mio marito, da parte sua, seppellito dal profluvio di parole dell’amico, aveva di sfuggita accennato a delle difficoltà che stava incontrando in ufficio in quel periodo. In ogni caso, che mai avrebbe potuto dire? Lui é un semplice impiegato, in una anonima azienda che produce imballaggi. Sandra, come suo solito, non si era pronunciata su nulla, anche perché un lavoro non ce l’aveva. Aveva detto soltanto che lo stava cercando, senza però precisare quale tipo di occupazione. Leo l’aveva interrotta, affermando che, se le cose fossero andate come lui sperava, lei non avrebbe mai avuto bisogno di lavorare. Sandra si era ammutolita, mortificata. Probabilmente per lei il lavoro possedeva altri significati, oltre all’aspetto esclusivamente economico, ma non aveva osato dirlo. Povera ragazza. Alla fine della sua esibizione Leo aveva iniziato a interrogare me che, a differenza sua, non amo molto parlare, o addirittura esaltare, la mia professione. Lui invece è interessato in maniera quasi morbosa a ciò che faccio, e non manca mai di informarsi sui dettagli anche minimi che riguardano la mia attività di tutti i giorni. In realtà non riesco proprio a comprendere questo suo malsano interesse, forse quell’uomo è malato. Mi riferisco alla sua testa, naturalmente, ma probabilmente si tratta soltanto di una deformazione professionale. Inoltre io non sto a contatto con chi ha disturbi mentali, ma contribuisco a curare le malattie del corpo e quindi la mia valutazione potrebbe essere sbagliata. Sì, sono un’infermiera. Non una qualunque, bensì un’infermiera specializzata, e svolgo questo lavoro, che mi appaga completamente, ormai da molti anni.
Stavamo già sorseggiando il caffè quando ho raccontato un episodio che mi era accaduto il giorno prima in ospedale. Così, tanto per dire qualcosa.
“Davvero quel paziente ti ha fatto una tale richiesta?” era sbottato Leo, affibbiandosi nel contempo una gran manata sulla coscia. Era eccitato e rosso in viso, per la gran quantità di vino bevuto. Non pago, si stava servendo una abbondante dose di cognac.    
Mio marito non aveva detto nulla, perché già conosceva quel fatto. Sandra aveva lo sguardo assente, la sua espressione più frequente. Io mi ero limitata ad annuire.
“Incredibile! Proprio come nei film!” aveva aggiunto Leo.
“I film, spesso, non fanno altro che rappresentare la realtà” avevo ribadito. Ma lui non si era arreso.
“Aspetta, fammi capire bene. Quello avrebbe chiesto a te di fare quella cosa? E l’avresti dovuta fare con le tue graziose manine?”
A quelle parole mio marito aveva rivolto all’amico uno sguardo torvo. Forse non aveva apprezzato il riferimento alle mie mani, ma era rimasto in silenzio. Da parte mia non sapevo più che cosa dire, e allora avevo confermato con un cenno del capo. Finalmente Sandra si era decisa a intervenire. A sproposito.
“Guarda che Clara è una bella donna” aveva detto. “Forse l’ha chiesto a lei proprio per questo motivo.”
Leo, invece di rimproverare la sua compagna, era scoppiato a ridere.
“Che cosa c’entra la bellezza?” Mio marito, da ultimo.
Il suo amico si era drizzato sulla sedia e aveva cercato di assumere, invano, un atteggiamento più rispettoso. Ma non aveva rinunciato a ingollare una robusta sorsata di liquore.
“Ehi! Mi stupisci!” aveva detto Leo. “Una cosa del genere è meglio farsela fare da una persona carina. E tua moglie, con tutto il rispetto, lo è. Sai, si prova di certo più soddisfazione!”
Sandra aveva distolto lo sguardo, avvilita.
“Leo, non si scherza su queste cose!” lo avevo biasimato io.
“Non sto affatto scherzando. Stavo semplicemente immaginando la situazione. Lui - perché era un uomo no? – che ti domanda quella cosa assurda e tu che di sicuro rimani strabiliata. Credo non ti fosse mai capitato in precedenza, no?”
Non avevo risposto nulla. Forse avevo scosso il capo. Non in segno di diniego, ma di compatimento.
“Perché non l’ha chiesto a qualcun altro?” aveva chiesto Sandra, che per un attimo si era riscossa dal torpore in cui era precipitata dopo la precedente infelice battuta.
“Vale a dire?” Di nuovo mio marito, sempre più serio.
E di nuovo Leo si era abbandonato all’euforia. Un entusiasmo del tutto fuori posto.
“Scusa, a chi lo avrebbe dovuto domandare? A sua madre, forse? Ve lo immaginate?”
 Mio marito aveva sospirato.
“Ragazzi!” aveva ripreso Leo, sempre più infervorato “Anch’io al posto di quel tale avrei preferito farmi fare il servizio da una bella donna piuttosto che da qualcun altro!”
“Leo, smettila! Stai diventando pesante e volgare!” era esplosa Sandra. Il suo viso era pallido e la sua voce stridula.
“Falla finita…” aveva aggiunto mio marito con tono stanco all’indirizzo dell’amico.
Leo a quel punto aveva ubbidito ma non aveva rinunciato a riempire di nuovo il bicchiere.
Per fortuna la serata poi si era conclusa. Leo, barcollante, era stato sostenuto e accompagnato da Sandra fino alla loro macchina. Alla guida si era sistemata lei. Mio marito, almeno questa volta, appariva a disagio. Rimasti soli, non avevamo fatto ulteriori commenti ed eravamo andati subito a letto.
E adesso mi trovo qui, in questa asettica stanza di ospedale. È già trascorso un giorno dalla sciagurata serata. Ci sono due letti, ma uno soltanto è occupato. Il mio paziente sta dormendo. Negli ultimi giorni lo fa quasi sempre. Lo osservo con attenzione. È una persona ancora giovane, un bell’uomo. Anzi, era un bell’uomo. So che potrebbe svegliarsi da un momento all’altro, e io temo quel momento. Perché so che potrebbe rinnovare la sua richiesta, e non saprei che cosa rispondere. Non penso più alle risate di Leo quando mi avvicino alle complesse apparecchiature che circondano il suo giaciglio, strumenti che io conosco bene, alla perfezione. Lancio un’ultima occhiata al malato, mi abbasso e cerco il tubo dell’ossigeno. Lo stacco.   

mercoledì 19 settembre 2012

FILMETTI SATANICI



Non accenna a placarsi l’ondata di protesta, a opera di gruppi integralisti musulmani, scatenata dal film “Innocence of Muslims” (i cui contenuti sono stati reputati offensivi e blasfemi), culminata con l’assalto alla sede diplomatica statunitense a Bengasi che è costata la vita all’ambasciatore e ad altri civili americani. Rimostranze, spesso condotte in forma rabbiosa, che hanno coinvolto e continuano a interessare tanti paesi islamici, dall’Africa all’Asia.
Le numerose fazioni fondamentaliste, più o meno simpatizzanti se non direttamente legate ad Al-Quaeda, ma anche altre formazioni più isolate, hanno ritrovato un nemico comune: l’Occidente, raffigurato ed esemplificato, come spesso già accaduto in passato, dagli Stati Uniti. Si è scatenata così una insensata caccia al diplomatico, sostenuta da un pretesto assai debole ma sufficiente per convincere masse di persone a scatenare la loro indignazione, e a tradurla in atti violenti: un modesto filmetto, realizzato con scarsi mezzi ma con l’evidente intenzione di provocare.
Stati quali la Tunisia, l’Egitto e la Libia, democrazie giovani e tutt’altro che consolidate, stentano ad arginare queste rivolte, e non paiono essere in grado di assicurare una protezione adeguata ai cittadini occidentali impegnati nell’attività diplomatica. Numerose ambasciate e consolati sono stati evacuati per motivi di sicurezza.
Perché tutto questo odio? Per quale motivo, periodicamente, si rinfocola quella che può essere definita, se non una vera e propria guerra di civiltà, un conflitto tra religioni?
In realtà, non c’è nulla di nuovo. Secoli fa gli infedeli erano loro, turchi e arabi, considerati tali da chi li combatteva proprio in nome della religione, e lanciava nei loro confronti le Crociate, le Guerre Sante. Ora i nuovi infedeli sono gli imperialisti americani e gli abitanti del Vecchio Continente.
Negli ultimi anni le occasioni di scontro tra l’Occidente e l’Islam oltranzista (una minoranza di individui, certo, ma in grado di sconvolgere gli equilibri) sono state molteplici.
Chi non ricorda la fatwa (secondo una concezione popolare moderna si tratta di una sentenza di condanna a morte di una persona, considerata blasfema, da parte della comunità islamica) scagliata dall’ayatollah Khomeini contro lo scrittore anglo-indiano Salman Rushdie per via del libro “I versi satanici”? Oppure l’uccisione del regista olandese Theo Van Gogh? O ancora l’aggressione al vignettista danese Kurt Westergaard, autore di disegni satirici su Maometto ritenuti sacrileghi ed esibiti, in maniera stolta, su una maglietta dal nostro ineffabile Roberto Calderoli, allora ministro? Tra l’altro, è opportuno ricordare che la stupida bravata dell’esponente leghista è costata alla collettività italiana una cifra enorme per la sorveglianza della sua villa, vigilanza che si è protratta per ben otto anni.
Ma, di fronte a quanto accaduto negli ultimi giorni, ci si rende conto che, in questa specifica occasione, il fronte si è allargato. L’oggetto della disapprovazione, da parte del mondo musulmano, non è più soltanto un singolo individuo ma una intera civiltà, un modo di vivere forse più dissoluto, ma di certo più tollerante, disposto a indignarsi e a condannare le offese ma che mette sempre e comunque al primo posto la libertà di espressione.
E persiste la convinzione che anche lui, il Profeta, troppo spesso e a sproposito chiamato in causa, di fronte a un episodio come quello del filmetto americano, avrebbe di sicuro chiuso un occhio e si sarebbe accontentato della solidarietà di chi, con l’Islam, è alla ricerca di una pacifica convivenza.

domenica 16 settembre 2012

SPECCHIO DELLE MIE BRAME



Prima di uscire si osservò un’ultima volta nel grande specchio dell’ingresso. Socchiuse gli occhi, si concentrò, e cercò di imprimersi bene in mente quell’apparenza, la propria. Espirò profondamente e finalmente andò fuori.
L’uomo camminava lentamente, circospetto, quasi timoroso, tenendosi sulla destra del marciapiede, il più possibile vicino ai palazzi. La sua indecisione si accentuava al momento di attraversare la strada. Indugiava a lungo, guardava il semaforo diventare verde, poi rosso e di nuovo verde. Alla fine si decideva e si azzardava a oltrepassare la via con passi corti e veloci. Giunto dall’altra parte riprendeva il cammino, voltando di continuo il capo in tutte le direzioni, come fosse alla ricerca di qualcosa che non riusciva a trovare.
Proprio a causa di questo suo incedere nervoso e inquieto, quasi non si accorse della persona che proveniva dalla direzione opposta alla sua e contro alla quale per poco non andò a sbattere.
La donna si fermò e lo fissò, con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati. Posò a terra la borsa della spesa.
“Fiorenzo!” esclamò.
Anche lui, alla fine, l’aveva riconosciuta. In verità non ricordava più quale fosse il suo nome. Era indeciso tra Marta e Maria e, nel dubbio, si limitò a sorridere e a chinare la testa in un cenno di saluto. In ogni caso si trattava della figlia di una vecchia amica di sua madre con la quale, in passato, aveva avuto sporadici contatti. Ma da allora era passato un po’ di tempo, e non sapeva che cosa facesse adesso quella donna, se fosse sposata e se avesse dei figli. Di sicuro era invecchiata. Il volto si era arrotondato e le guance parevano cascanti. Era apparsa qualche piccola ruga ai lati della bocca e l’intera sua figura sembrava appesantita, come gravata da qualcosa di indefinito.
Sentendo il suo nome, rispose con un ulteriore segno d’intesa, sempre accompagnato da un lieve sorriso.
Non sapeva proprio che cosa dire a quella donna, quindi cercò di sfruttare la situazione a suo vantaggio.
“Ti piaccio?” esordì con una buona dosa di sfacciataggine.
Lei, dapprima, rimase un po’ stupita. Poi si ricompose.
“Sei davvero in gran forma” disse, esitante.
“E il mio abito? Che ne dici del mio abito?”
La donna lo squadrò, dall’alto in basso.
“È veramente bello, e ti sta molto bene.”
“Il colore?” chiese ancora lui.
“Si intona perfettamente con la tua carnagione. È una tinta strana, molto originale. Cos’è, color tortora?”
“Quasi. È difficile trovare una cravatta che si possa abbinare. Che ne dici della mia scelta?”
“Ottima, direi. Una cravatta davvero graziosa, con quei riflessi cangianti…”
La donna era sempre più meravigliata, ma si sforzava di stare al gioco.
“E mi piacciono molto anche le tue scarpe, con quelle nappine veramente carine” aggiunse.
“Ti ringrazio, sei veramente gentile. È come se mi fossi specchiato in te” disse lui, con entusiasmo.
A quelle parole la donna si chinò e afferrò la borsa.
“Ciao Fiorenzo, adesso devo proprio andare. Sono contenta di averti incontrato.”
“Arrivederci, Maria. Anche a me ha fatto molto piacere rivederti.”
“Marta…” mormorò la donna, che poi si allontanò a passo veloce.
L’uomo, rinfrancato, riprese il cammino. Adesso sembrava più sicuro di sé, quell’inaspettato incontro lo aveva rasserenato. Sapeva però che quella condizione di benessere non sarebbe durata a lungo, che presto sarebbe subentrata l’abituale sensazione di insicurezza, quella sfumata percezione di sé che sempre lo tormentava.
Intravide in lontananza la vetrina dell’oreficeria, fra tutte la sua preferita. Non per il suo contenuto, dal momento che non degnava mai di una sola occhiata gli orologi, gli anelli, i bracciali e tutti gli altri oggetti luccicanti che vi erano esposti. Ciò che suscitava il suo interesse era la vetrina vera e propria, e precisamente il vetro. Era uno dei pochi che riflettesse alla perfezione l’immagine di chi vi stava davanti. Forse per la sua eccelsa qualità, o probabilmente perché era un vetro particolare, molto spesso, a prova di spaccata. Oppure, più semplicemente, per la felice posizione del negozio, collocato in un punto in cui la luce lo investiva nel giusto modo, non provocando riflessi molesti.
Dopo essersi soffermato a lungo di fronte alla vetrina, e aver così rinnovato nella memoria quell’immagine che a volte gli sfuggiva, si diresse verso l’edicola, la vera meta della sua uscita.
Salutò l’edicolante e acquistò alcuni giornali.
“Sandro, scusa, ce l’hai sempre quello specchio?” domandò dopo aver pagato.
L’altro annuì e poi sparì all’interno del chiosco. Riapparve avendo tra le mani un piccolo specchietto rettangolare con la cornice di plastica verde. Lo porse all’uomo.
“Devi incontrarti con la morosa?” domandò l’edicolante al suo elegante cliente. Tra le labbra aveva come sempre una cicca spenta, poiché da anni aveva abbandonato il vizio ma non riusciva a rinunciare al piacere di stringere tra le labbra una sigaretta.
“Macché, devo trovarne una!” rispose l’uomo in tono gioviale mentre si esaminava con accuratezza nello specchio. Prima il viso, poi il resto della figura, a pezzi, uno dopo l’altro fino alle scarpe.
Restituì il vecchio specchietto, che negli angoli aveva delle chiazze opache ma che comunque riusciva ancora a svolgere la sua funzione, e si incamminò verso casa con i giornali sottobraccio.
Dopo aver percorso un centinaio di metri vide una lunga fila di automobili parcheggiate lungo il corso principale del paese. Durante la settimana ciò non accadeva mai. Le vetture erano sempre in movimento, frenetiche come i loro autisti chiusi all’interno. Oggi invece era domenica, e i padroni di quelle scatole di vetro e lamiera stavano riposando, così come le loro macchine.
Si avvicinò di soppiatto a quella invitante successione di auto. Cominciò dall’ultima, per poi risalire lentamente la fila. Di fronte, anzi di lato, si tratteneva per qualche istante, guardando con soddisfazione la propria immagine riflessa. I vetri non erano tutti uguali. Alcuni erano chiari, altri più scuri, affumicati. Qualcuno era piatto, altri ancora invece tondeggianti, e spesso la sua figura rispecchiata ne risultava buffa, distorta, come al labirinto di specchi del Luna Park. Ma andava bene lo stesso anche così, l’importante era riuscire a vedersi, o almeno intravedere qualcosa che rinsaldasse quel ricordo che tendeva a sbiadire se non richiamato di frequente.
Poco prima di giungere dinnanzi al suo portone, l’uomo scorse sull’altro lato della strada il suo amico Giuseppe. Era circondato da alcune persone e stava parlando. Parlava sempre lui, qualcuno lo stava ad ascoltare, altri fingevano di farlo ma erano distratti, i restanti proprio non lo stavano a sentire ma lui non vi badava, continuava a concionare senza sosta, alzando sempre di più il tono di voce.
Cercò di non farsi notare e infilò furtivamente l’androne. Povero Giuseppe! Era affetto da una specie di malattia, un disturbo che nessun medico, nessuno psicologo, era riuscito finora a curare. Non poteva fare a meno di parlare. Se trovava qualcuno disposto a starlo a sentire bene, altrimenti discorreva pure da solo. Lo faceva anche in casa; i vicini lo sentivano esibirsi in estenuanti monologhi rivolti a nessuno se non a se stesso, e ciò anche in piena notte. Giuseppe gli aveva confessato che se avesse smesso di parlare sarebbe morto. Perché soltanto le parole pronunciate a fiumi, senza sosta, ne attestavano a suo parere l’esistenza in vita.
L’uomo scosse il capo, addolorato al pensiero dell’amico, ed entrò in casa.
Dopo una breve sosta di fronte al solito grande specchio dell’ingresso si diresse in cucina, dove iniziò a preparare il pranzo. Negli specchi posizionati dietro la cucina a gas gli piaceva osservare le proprie mani all’opera, abili e veloci. Ogni tanto apriva lo sportello di un pensile, dotato di specchio interno, e osservava compiaciuto il suo volto. In quei momenti era sereno. Tutta la sua casa, opportunamente attrezzata, contribuiva a calmarlo, a permettergli di vivere in pace e tranquillità: le numerose superfici riflettenti poste in bagno e, soprattutto, l’immenso specchio che aveva fatto installare sul soffitto della stanza da letto. Durante la notte, quando gli capitava di svegliarsi, e ciò gli accadeva spesso, non aveva bisogno di alzarsi per rassicurarsi, per stemperare l’angoscia che lo coglieva in quell’istante. Gli era sufficiente guardare verso l’alto e, nello scorgere la sua figura distesa nel letto, comprendere così di essere ancora vivo. Soltanto in quel modo riusciva a dormire di nuovo. 

venerdì 14 settembre 2012

LORO



Noi siamo in tanti, loro sono in pochi

Tutti ordinati, puliti e profumati

Tirano i fili, e gli altri ballano

Noi siamo poveri, loro sono nati signori

Ci sfruttano, e noi li odiamo

Veri bastardi, non hanno segni sulle mani

Divorano tutto, sono eleganti e ridono

Noi crepiamo di stenti, loro muoiono nel letto

Parlano bene, con parole false e vuote

Le loro figlie sono belle, ma non sono per noi

Hanno grandi case, con giardini fioriti e schiavi fedeli

Noi siamo in tanti, ma non contiamo

Loro sono in pochi, comandano e hanno sempre ragione

Mai potrò essere uno di loro.

domenica 9 settembre 2012

IL NIPOTE DI STAKANOV



Non so che viso avesse, né mi interessa saperlo. Di certo non è per la somiglianza fisica che i miei colleghi mi paragonano a lui. È per la mia alacrità. Lo fanno di continuo, con velate allusioni, con riferimenti diretti, spesso con battute malevole. E poi il mio strumento di lavoro non è il martello pneumatico, bensì carta e penna, computer e calcolatrice, fax e telefono. No, io non scendo nelle viscere della terra per estrarre carbone, non passo la mia giornata senza mai vedere la luce del sole. La mia attività lavorativa non si svolge in una lugubre miniera, ma in un ufficio luminoso, seduto dietro a una grande scrivania.
È inutile negarlo, tra i miei compagni di lavoro non sono molto popolare. Suscito in loro impulsi negativi, pieni di invidia e di risentimento. Quasi nessuno mi rivolge la parola. Ciò avviene solo quando è assolutamente necessario, allorché sono le necessità lavorative a imporlo.   
Scaccio via dalla mente questi pensieri molesti e fastidiosi, che oltretutto mi fanno perdere tempo. A che serve recarsi al lavoro un’ora prima di tutti gli altri se poi non ci si mette subito all’opera?
Questo periodo di tempo che trascorro in perfetta solitudine è molto appagante ed estremamente produttivo. Nessuno mi disturba con chiacchiere vuote, e le distrazioni sono del tutto assenti. Posso così concentrarmi sul lavoro, pianificare la mia giornata senza trascurare il minimo dettaglio. Dopo, quando l’ufficio sarà al completo, tutto sarà differente. Dovrò sopportare, come al solito, gli sguardi di dileggio e di compatimento dei colleghi, i loro motti sarcastici sempre e soltanto indirizzati al sottoscritto, il loro bersaglio privilegiato. Non baderò a nulla, non alzerò mai gli occhi dal piano della scrivania, dalle mie adorate pratiche che invece quei serpenti si ostinano a definire scartoffie. Vedrò quegli scansafatiche bighellonare senza costrutto da una stanza all’altra, abbandonarsi a stupide risate, svagarsi con la lettura dei giornali o impegnati in altre amenità.
Non importa, tanto sarò io a svolgere il loro lavoro, tutto il lavoro dell’ufficio. Ed è ciò che più desidero. Guai se rimanessi senza qualcosa da fare! Sarebbe per me una vera tragedia, un autentico dramma. Loro lo sanno e pensano di approfittarne. Non si rendono conto che è proprio quello che voglio, disporre sempre di tante pratiche da sbrigare, farlo in maniera sempre più rapida ed efficiente.
Durante l’intera mattinata non sollevo mai le terga dalla poltroncina imbottita che ormai ha assunto le mie forme. Nessuna pausa di alcun tipo. Niente caffè, niente cappuccino e brioche. Non ne sento il bisogno. E poi, se lo facessi, sarei colto dal rimorso, perderei tutta la stima che possiedo verso me stesso, mi sentirei un verme. Allo stesso modo non ho mai necessità di sgranchire le gambe. Se devo parlare con qualcuno utilizzo il telefono. Non sono mai entrato in un altro ufficio che non sia il mio, a eccezione di quello del mio responsabile. Quando lui mi convoca non riesco a nascondere del tutto il mio estremo disappunto. Minuti preziosi che vanno persi. Mi siedo di fronte a lui, che mi guarda a lungo, e poi sospira, prima di parlare. In tutta la mia ormai lunga carriera lavorativa non ho mai ricevuto dal mio responsabile un solo apprezzamento. In fondo lo capisco. La mia eccessiva laboriosità gli provoca imbarazzo, gli causa delle difficoltà. Non è per nulla orgoglioso di essere il dirigente dell’ufficio più produttivo dell’azienda. I suoi colleghi, gli altri dirigenti ma anche i vari direttori, gradirebbero un livello di rendimento più consono agli standard medi. Insomma, vorrebbero che lui mi obbligasse a lavorare di meno. Naturalmente non ci riuscirà mai. Potrà chiedermi qualsiasi altra cosa, ma quello proprio no. Mi spiace per lui se ciò continuerà a porlo in cattiva luce, se i vertici dell’azienda continueranno a osservarlo con sospetto. Un responsabile che non riesce a imporre una diminuzione di produttività a un suo subordinato appare debole e incapace di fronte ai superiori. Temo che la sua carriera sia ormai compromessa, ma nessuno riuscirà mai a costringermi a fare ciò che non voglio. I suoi tentativi di rallentare il mio zelo sono un po’ patetici. Mi trattiene a lungo nel suo lussuoso ufficio, mi parla di politica, del tempo atmosferico, racconta in maniera minuziosa le sue vacanze, ciò che fatto nel fine settimana, si lamenta della moglie, impreca quando parla dei figli, fannulloni e senza alcuna voglia di impegnarsi nello studio.  Io lo ascolto, in silenzio, a volte annuisco per compiacerlo. A un certo punto non sa più che cosa dire, che cosa inventarsi per trattenermi. Allora si arrende e, rassegnato, mi permette finalmente di rientrare nel mio ufficio. In pochi minuti recupero tutto il tempo perso. Anzi, vado oltre, come colto da una specie di febbre. Non penso più a nulla, soltanto alla mia attività, che svolgo con precisione ancora maggiore, con spietata efficacia. Le mie energie si moltiplicano, diventano inesauribili. Una vera e propria macchina da lavoro. I miei colleghi distolgono lo sguardo, disgustati.
Ed è subito ora di pranzo, il momento che tutti prediligono, che agognano, e che io invece odio. Perché sprecare tempo per alimentarsi quando ciò può essere fatto dopo, la sera, quando si è purtroppo liberi dagli impegni di lavoro? No, non ho affatto intenzione di schiodarmi dalla mia scrivania. Al contrario, è ora di ributtarsi nell’attività con reiterato impegno, con rinnovata lena. Con intenso vigore. In tal modo, il pomeriggio diviene tristemente breve. Il solo pensiero che mi rallegra è che il giorno successivo potrò ricominciare. La giornata non è ancora del tutto trascorsa e già mi pregusto quella successiva, che per buona sorte non è festiva. Già, le feste, la vera sciagura dei lavoratori instancabili.
È quasi ora di uscire. Lo farò, come sempre, dopo aver svolto un’ulteriore ora di lavoro non retribuito. E di nuovo sono assalito da pensieri cupi. La mia carriera lavorativa si sta avviando alla sua conclusione. Tra pochi anni mi attende la pensione, il sogno di tutti gli impiegati come me, ma non il mio. Per me è un incubo. Eppure dovrò rassegnarmi, prima o poi quella tremenda scadenza giungerà. Non sarò più nulla, non produrrò più nulla.
Prima di allora però, forse proprio l’ultimo giorno, farò una cosa che non ho mai fatto. Una piccola stravaganza, un qualcosa che per me è sempre stato inconcepibile. Mi alzerò dalla scrivania e, lentamente, mi dirigerò verso i bagni. Entrerò per la prima volta in quei locali che non conosco, che non ho mai visto, e mi accomoderò sulla fredda tazza. Non rimarrò seduto per molto tempo, soltanto lo stretto necessario per donare alla mia amata azienda un raro e prezioso ricordo di me stesso, del nipote di Stakanov, perché è così che mi chiamano tutti.

venerdì 7 settembre 2012

ESTATE ITALIANA



L’estate si sta avviando alla sua conclusione. Un periodo contrassegnato dal grande caldo, con temperature massime che non erano più state raggiunte da molti anni. Un bel tempo che, in condizioni normali, avrebbe spinto gli italiani a concentrarsi in massa nei luoghi di villeggiatura, per godere del refrigerio dell’acqua di mare o della frescura dell’aria di montagna. Invece non è stato così. Perché c’è la crisi economica, i disoccupati seguitano ad aumentare, così come è cresciuto il numero di lavoratori in cassa integrazione oppure quello di chi il posto di lavoro lo ha addirittura perso. E altre imprese saranno destinate a soccombere nei prossimi mesi. Meno presenze nei luoghi di vacanza, dunque, con il risultato che anche il settore del turismo ha sofferto. Il solito circolo vizioso, dal quale è difficile uscire fuori.
Nel frattempo, ci domandiamo, che cosa ha fatto la politica? Consapevole – ci si augura – delle difficoltà attraversate dal Paese, in quale modo è intervenuta per tentare di alleviare le penurie della gran parte dei cittadini?
Tra i vari soggetti politici sulla scena, il Presidente della Repubblica è stato più volte al centro delle vicende pubbliche estive. Dapprima per le sue ripetute e accorate esortazioni ai partiti a intraprendere, prima che sia troppo tardi, la via delle riforme condivise, e in particolare l’accordo su una nuova legge elettorale. In un secondo tempo Giorgio Napolitano è stato coinvolto, suo malgrado, nell’oscura vicenda della presunta trattativa Stato-mafia avvenuta circa vent’anni fa. Il Presidente è stato accusato di reticenza riguardo al contenuto di alcuni colloqui privati avvenuti con Nicola Mancino, l’allora ministro dell’Interno, e intercettati dalla Procura di Palermo, essendo l’ex-ministro coinvolto nell’inchiesta dei magistrati del capoluogo siciliano. La reazione di Napolitano è stata veemente, dal momento che, a suo avviso, sono state messe in discussione le prerogative del ruolo presidenziale, la principale tra tutte quella di non essere oggetto di intercettazioni. Toccherà alla Corte Costituzionale dirimere la spinosa questione. In ogni caso l’immagine del Presidente è stata scalfita e un po’ indebolita. Ci si chiede se tutto ciò non faccia parte di un preciso disegno rivolto a sfibrare, di conseguenza, il governo Monti, che di Napolitano è diretta emanazione. Tutto è possibile, nel nostro disgraziato Paese. Tuttavia, in mancanza di precisi riscontri, è inutile inseguire presunti complotti o fantasiose macchinazioni. Non porta a nulla.
Dal canto suo, l’esecutivo guidato dall’economista lombardo ha proseguito, pur tra mille complicazioni e con l'importante sostegno del governatore della BCE Mario Draghi,, la sua azione per condurre l’Italia definitivamente fuori da ogni pericolo, e per sottrarla alle attività speculative dei mercati finanziari, sempre piuttosto aggressivi verso chi appare debole (e noi di sicuro lo siamo, a causa dell’imponente stock di debito pubblico accumulato). I casi della Grecia e della Spagna, a riguardo, sono esemplari.
Grazie all’indiscusso prestigio personale di Mario Monti la posizione dell’Italia, sia a livello europeo che internazionale, si è consolidata. Certo, rimane ancora molto da fare a livello interno, ed è tempo di attuare finalmente una redistribuzione delle (scarse) risorse esistenti. Naturalmente ciò non può essere fatto dall’attuale governo, che si regge su una maggioranza anomala e dispettosa, ma deve essere messo in pratica da una coalizione politica che disponga di una ampia prevalenza numerica e che soprattutto sia omogenea. Più facile a dirsi che a farsi…
E i partiti, come si sono comportati durante questa torrida estate? Si sono assunti in pieno le loro responsabilità, com’era auspicabile, oppure si sono dimostrati, come sempre, scriteriati?
Più che sconsiderati, si sono dimostrati del tutto incoscienti nonché incapaci di percepire l’umore dei cittadini nei loro confronti. Si erano impegnati a riformare la legge elettorale e finora non lo hanno fatto. Per il resto, la loro azione è risultata completamente nulla.
Il PD ha scelto il partito di Vendola quale probabile alleato alle prossime elezioni, prendendo così le distanze (e ciò doveva essere fatto subito) dai centristi di Casini, i quali rischiano di dover condurre una corsa solitaria, essendo al momento improponibile un loro accordo con le formazioni di centro-destra. Inoltre, sempre il PD ha seri problemi di governabilità interna. Il segretario Bersani è sempre più incalzato da Matteo Renzi, autocandidatosi aspirante premier, e rischia di soccombere di fronte alla spinta “rottamatrice”, chissà se del tutto positiva, del sindaco di Firenze. I notabili del Partito Democratico, per ora, fanno quadrato e resistono. Fino a quando, non si sa.
Silvio Berlusconi è ancora indeciso se ridiscendere in campo per l’ennesima volta. Alla fine lo farà, perché a suo avviso la gente lo vuole (la stessa che si è fatta abbindolare per vent’anni?) portando così alla distruzione la sua creatura più malriuscita, il PDL. Poco male.
Antonio Di Pietro invece è riuscito nell’impresa non facile di isolarsi completamente. I continui battibecchi con il Partito Democratico, suo possibile alleato fino a poco tempo fa, l’ostilità (eccessiva e insensata) verso il Governo Monti e gli attacchi irragionevoli al Presidente della Repubblica lo hanno alla fine costretto all’angolo e hanno scatenato mugugni all’interno del suo partito. Non si prevede, per lui, un grande futuro politico.
La stessa cosa si può dire per la Lega Nord, uscita con le ossa rotte dagli scandali familiari del vecchio Umberto Bossi. Il nuovo segretario non sembra in grado di imprimere al movimento nuovo abbrivio. La gente del Nord è stanca è sfiduciata, sarà difficile per chiunque continuare a illuderla e ingannarla.
In quanto a Grillo e al suo (?) Movimento Cinque Stelle, è meglio stendere un velo pietoso. Non abbiamo assolutamente bisogno che ulteriori incubi si materializzino.
Signori, lo scenario attuale è questo. Purtroppo peggiorerà, quando l’intero mondo politico sarà intriso dagli umori avvelenati di una campagna elettorale che si preannuncia alquanto aspra.
C’è il rischio concreto di un nuovo periodo di instabilità, che potrebbe compromettere ciò che di buono è stato fatto negli ultimi mesi.
Come sempre ci rimetterà il Paese. E ne pagheremo le conseguenze noi tutti.

domenica 2 settembre 2012

VIETATO STUPIRSI



Si sta svolgendo a Londra, proprio in questi giorni, la XVI edizione dei Giochi Paralimpici estivi. Come per le Olimpiadi concluse da poco, si tratta anche in questo caso di un grande evento sportivo, al quale hanno aderito oltre centosessanta federazioni nazionali e alcune migliaia di atleti. Le gare stanno riscuotendo un grande successo, la partecipazione del pubblico londinese è entusiasta e appassionata, in tutti i siti sedi delle prove si registra il tutto esaurito. I risultati ottenuti fino a questo momento dagli atleti, come accade quasi sempre in tutte le competizioni di vertice, sono all’altezza delle aspettative. Ricordiamo, per quanto ci riguarda, le due splendide vittorie della nuotatrice Camellini che hanno fruttato due medaglie d’oro nonché un primato mondiale. Oppure l’ennesima ottima prova del corridore sudafricano Oscar Pistorius (che già aveva preso parte alle Olimpiadi), trionfatore nella gara dei 2oo metri con il nuovo record del mondo.
Alcune sere fa abbiamo potuto assistere, con grande partecipazione, alla bellissima cerimonia di inaugurazione dei Giochi. Una celebrazione elegante e raffinata, addirittura superiore, per intensità, a quella analoga delle Olimpiadi e alla quale ha partecipato anche il fisico Stephen Hawking, che ha dato il via ai Giochi. Come sempre in queste occasioni, il momento di maggiore impatto emotivo è stato quello della sfilata dei partecipanti, contraddistinto dalla percezione della gioia e dal sincero entusiasmo che era possibile scorgere sui volti felici degli atleti.
Per chi ancora non lo sapesse i Giochi Paralimpici sono l’equivalente delle Olimpiadi, e i partecipanti sono atleti con differenti disabilità. La prima edizione di questa competizione fu organizzata nel 1948, a Stoke Mendeville nel Buckinghamshire, ad opera del medico britannico Ludwig Guttmann, ed era rivolta in particolare ai veterani della Seconda Guerra Mondiale che, durante il conflitto, avevano subito danni alla colonna vertebrale.
Nel 1960 i Giochi furono disputati, per la prima volta, in concomitanza con le Olimpiadi, che quell’anno si svolgevano a Roma. Da allora i Giochi hanno avuto luogo con regolare frequenza quadriennale, e a partire dal 2002 (Barcellona) il paese organizzatore delle Olimpiadi, sia estive che invernali, deve assumere l’obbligo di allestire l’equivalente manifestazione per atleti disabili.
Tornando per un momento alle miserie di casa nostra, a proposito dei Giochi Paralimpici hanno destato profondo sconcerto le affermazioni fatte da Paolo Villaggio nel corso di una trasmissione radiofonica. L’attore e scrittore genovese ha detto che tali Giochi suscitano molta tristezza, perché sono tutt’altro che entusiasmanti, ma soltanto la malinconica rappresentazione di alcune disgrazie. Pertanto, sempre a suo parere, non dovrebbero aver luogo perché appaiono come una specie di sublimazione della sventura stessa e l’esaltazione di una finta pietà. Anche se si fosse trattato di una semplice provocazione (aspetto non insolito nel personaggio) tali parole sono comunque odiose e detestabili, da rigettare allo stolto mittente.
Gli atleti paralimpici sono atleti veri, impegnati quotidianamente in severi e faticosi allenamenti, e per i quali i Giochi non rappresentano di certo un’occasione di rivalsa nei confronti delle persone normodotate, ma un palcoscenico importante nel quale poter metter in mostra di fronte a un grande pubblico (per una volta) tutto il loro valore sportivo. É infatti assurdo parlare di eccessiva spettacolarizzazione dell’evento e di esorbitante esposizione mediatica trattandosi di atleti che, come tutti gli altri sportivi, per anni si sono preparati in vista del rilevante avvenimento con grande spirito di sacrificio e che si sono regolarmente esibiti in competizioni internazionali invece sempre trascurate dai mezzi di informazione. Qual è il problema - e quale disturbo possono mai arrecare - se almeno una volta ogni quattro anni ci si occupa anche di loro, e del loro indiscusso valore agonistico?
Apprezziamo quindi, in assoluta serenità, da veri sportivi, da effettivi appassionati, le prestazioni di questi atleti. Partecipiamo alle loro vittorie, rattristiamoci alle loro sconfitte, applaudiamo il loro impegno e lo spirito competitivo che li anima, condividiamo la loro gioia o il loro momentaneo sconforto. Soltanto una cosa non dobbiamo fare: stupirci.
Perché l’autentico sportivo, quello davvero genuino, privo di qualsiasi preconcetto, è da sempre abituato a stupirsi.                

sabato 1 settembre 2012

HOMELESS



Homeless. Mi è sempre piaciuto il suono di questa parola perché, tutto sommato, possiede una certa soavità, una specifica leggiadria. Non è come pronunciare termini quali barbone, emarginato oppure clochard. No, è tutta un’altra cosa, completamente diversa. Ricordo con piacere quando, appena ragazzo, mi immergevo nella lettura di quei romanzi americani dove spesso i protagonisti erano proprio loro, gli homeless. Fantasticavo a occhi aperti su quei simpatici vagabondi, sempre pieni di risorse, che si spostavano da un capo all’altro di quello sconfinato paese accucciandosi nello spazio tra le ruote dei treni, interminabili convogli trainati da sbuffanti locomotive a carbone. E quei tipi me li immaginavo scanzonati, sempre sorridenti, intenti a sgranocchiare con autentico gusto tozzi di pane nero e raffermo, nonché di continuo avvolti da spesse nubi di vapore. Figure romantiche, per me quasi leggendarie, intrise di una peculiare dolcezza, e alle quali non mancavano di certo sia il coraggio che un selvaggio spirito di avventura. L’unica loro brama, la sola aspirazione, era la libertà. L’affrancarsi, attraverso una scelta audace, tale da sfiorare l’insolenza, da legami, obblighi e limitazioni di tutti i generi, da imposizioni e costrizioni in grado di annientare la voglia di vivere di un essere umano. E allora partiva per loro la rincorsa verso una differente condizione, quella di uomo libero, un’ambizione che permetteva di rimuovere o almeno di attenuare la sofferenza e i patimenti, e quei treni che sfrecciavano attraverso le sconfinate pianure, che superavano i fragili ponti gettati con ardimento tra le rocce, che sostavano nelle vivaci e pittoresche cittadine, ne rappresentavano l’eloquente rappresentazione. Rapide fermate, con appena il tempo di sgranchire le gambe indolenzite dalla lunga immobilità, di stirare le braccia intorpidite, e di immergere il viso impolverato e annerito in un secchio d’acqua fresca. Oppure, a preferenza, ma sempre in nome dell’assoluta libertà, una pausa più lunga, forse un lavoro avventizio in qualche fattoria, per racimolare alcuni spiccioli da sperperare subito in una colossale bevuta, in un lauto e occasionale pasto, prima di riprendere quella folle e spensierata corsa senza lacci. Su un altro lungo treno, per scoprire altri posti, per conoscere nuova gente, e per rinnovare la meravigliosa emozione di essere completamente padroni di se stessi, di poter assumere qualsiasi decisione, immuni da influenze e dipendenze di ogni sorta.
Da allora, da quando mi smarrivo in quelle affascinanti visioni, provenienti direttamente dalle pagine ingiallite di quei libri imbevuti di intensa fragranza, di un aroma di antico, è trascorso molto tempo. È passata una vita intera. Un’esistenza che ho facilmente scordato, che ho rimosso quasi del tutto. Tuttavia, per cercare di rinnovare quei lontani e gradevoli ricordi, tutto ciò che è stato prima del nulla che è seguito, e che non desidero invece rammentare, qualche giorno fa sono andato alla stazione, alla stazione di questa immensa e crudele città. Sono entrato, con un po’ di timore, benché noncurante degli sguardi curiosi e insensibili delle persone, dei frettolosi viaggiatori, ai quali sono avvezzo, e ho camminato a lungo sulla banchina, lentamente.
 Adesso i treni non sono più come quelli di una volta, sono del tutto differenti. È quasi impossibile distinguere la locomotiva dai vagoni, perché tra loro sono uguali. Ed è inutile cercare il fumaiolo, poiché non c’é. I treni sono affusolati, quasi altezzosi, e sono verniciati con colori brillanti. Le loro lamiere sono fredde, ne sono quasi certo, anche se non ho osato toccarle.
 A un certo punto mi sono accostato a un vagone, uno qualsiasi dei tanti, e mi sono disteso a terra, per vedere meglio. Tutti guardavano me, ma io ho seguitato a osservare ciò che realmente mi interessava. L’ho fatto con attenzione, per lungo tempo, finché un ferroviere non mi ha costretto a rialzarmi e ad andarmene. Ma ormai avevo visto tutto, ed è stata enorme la mia delusione, doloroso il mio disappunto. Mi ero reso conto che lo spazio non c’è più! È diventato impossibile, per un uomo, seppure intrepido, riuscire a sistemarsi sotto ai vagoni per farsi trasportare sulle ali di una libertà senza confini. Alla fine, pieno di amarezza, sono uscito dalla stazione, che stava diventando sempre più rumorosa e affollata. Fuori era già quasi buio, il freddo iniziava a mordere la mia carne stanca, ed io dovevo ancora trovare una sistemazione adatta per trascorrere la notte. Chissà se il mattino dopo mi sarei risvegliato?