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martedì 28 agosto 2012

RITORNO A LHASA - 3° e ultima parte



“Tra un’ora vi voglio tutti quanti qui” aggiunge il seducente attore. “Dovremo prendere delle decisioni importanti. Ormai tutto il mondo sarà venuto a conoscenza della nostra azione.”
“Ci sarà anche il Maestro?”
“No, lui preferisce trascorrere queste ore in meditazione. Era da tanto tempo che attendeva di tornare a casa.”
“Credo proprio che dovremo anticipare la riunione” bofonchia Leonard Cohen, che si é appena affacciato a una finestra. Mentre parla il cantautore canadese strimpella alcuni accordi di Suzanne.
“Che cosa hai visto?” domanda Baggio, nel suo stentato inglese. L’ex-calciatore dal viso infantile ha il sopracciglio sinistro perennemente corrucciato, quasi fosse sempre intento a prendere la mira.
“Cristo! Ci sono carri armati ovunque!” esclama Seagal. “La piazza ne è piena!”
“E guardate quanti militari!”
“Mi piacerebbe proprio prendere a mazzate quelle stupide teste gialle!” rinforza Tiger Woods, apparso all’improvviso, e che impugna una mazza di ferro numero tre.
“Tiger! Stai calmo. Anzi, cerchiamo di stare tutti tranquilli. Bene, dal momento che siamo al completo, possiamo iniziare a parlare. Se siete d’accordo, potremmo tentare di comunicare all’esterno le nostre richieste. Uno: il Tibet dovrà riavere la propria indipendenza. Due: dovrà essere permesso al Dalai Lama di rioccupare il palazzo di Potala, che sarà utilizzato per gestire gli affari di Stato e, come un tempo, per la preghiera. L’attuale museo dovrà quindi essere smantellato. Tre: a noi dovrà essere concesso un lasciapassare per consentirci di abbandonare incolumi il Tibet. Avete qualcosa da aggiungere? Qualche altra proposta?”
Nessuno commenta le affermazioni di Gere. Tutti acconsentono, con aria grave.
“Come pensi abbiano reagito le altre nazioni?” domanda infine Hancock.
Richard Gere riflette a lungo, prima di rispondere.
“Non lo so, Herbie. Proprio non lo so. A noi interessa che siano soprattutto i popoli di quelle nazioni a solidarizzare con noi e con i tibetani. Per troppo tempo questa delicata e tragica questione è stata dimenticata. Il resto verrà di conseguenza.”
“Mmm… e come faremo a comunicare le nostre istanze?” chiede Orlando Bloom.
“Semplice. Attraverso il telefono” dice Gere.
“Mi spiace deluderti, Richard, ma i telefoni non funzionano. Né quelli fissi e tantomeno i nostri cellulari” annuncia Tina Turner, che tiene tra le mani un microscopico telefonino.
“È vero, non funziona nulla, neppure i fax” conferma un giovane monaco, appena entrato nel salone.
Tutti lo guardano. Lui sorride.
“Tu! Calciatore!” ringhia all’improvviso Steven Seagal. “Tieni il dito lontano dal grilletto!” Roberto Baggio  risponde con un grugnito. Si è appena rimesso nella sua posizione preferita, con la canna del lungo fucile che sporge dalla finestra.
“Come ti chiami?” domanda Richard Gere al ragazzino dal cranio rasato, al quale tutti rivolgono di nuovo l’attenzione.
“Wen-zi.”
“Avresti il coraggio di uscire dal palazzo per consegnare ai militari un foglio con le nostre richieste?”
“Certo, io non ho paura dei soldati.”
Tina Turner emette un fischio di ammirazione per il giovane e impavido monaco il quale, dopo meno di mezz’ora, esce dal Potala stringendo tra le mani un rotolo di carta.
“Sono preoccupato per lui…” si lascia sfuggire Steven Seagal che, invano, si é offerto volontario per la rischiosa missione al posto del ragazzo. I suoi amici, con fatica, lo hanno dissuaso. Troppo pericoloso per un occidentale.
“State tranquilli” rassicura tutti Gere. “Sono sicuro che lo lasceranno tornare indietro, magari con una prima risposta delle autorità.”
E così è. Dopo un’attesa piuttosto breve ma che appare invece interminabile, Wen-zi è di ritorno. Reca con sé una grossa busta marrone.
“Da parte del generale Ling” dice. Herbie Hancock si impossessa del plico e lo apre. Estrae un unico foglio e lo scorre rapidamente con gli occhi coperti dalle lenti scure. Il messaggio, conciso, è scritto sia in inglese che in cinese.
“Allora? Che cosa dicono?” domanda Gere, impaziente. Tutti gli altri sono in spasmodica attesa, tranne Baggio che, immobile come una statua, continua a tenere sotto tiro i carri armati.
Hancock scuote il capo.
“Brutte notizie” dice il jazzista, e porge il foglio a Gere. “Leggi tu stesso.”
“Mmm… in pratica si tratta di una specie di ultimatum. Ci concedono due ore di tempo per uscire dal palazzo. In caso contrario lo prenderanno a cannonate, dicono. Inoltre ci comunicano che siamo completamente isolati. Hanno provveduto anche a oscurare internet. Nessuno, nel mondo, sa che siamo qui e che cosa stiamo cercando di fare.”
“Se sparano sono pronto a rispondere colpo su colpo” dichiara Baggio, senza neppure voltarsi. Nessuno gli bada.
“E il Maestro?”
“Lo dovremo consegnare. E naturalmente sarà arrestato. Per quanto riguarda noi, saremo immediatamente espulsi e non potremo mai più tornare in Cina. Be’… in fondo è un trattamento di favore, nei nostri confronti, considerando ciò che abbiamo fatto” conclude l’attore, con amarezza.
“È un bluff! Non oseranno mai fare una cosa del genere!” esclama Tiger Woods, roteando a velocità vertiginosa la mazza luccicante.
“Leonard, tu che dici?” La potente voce di Tina Turner è ridotta a un semplice sussurro.
Il canadese appoggia con delicatezza la chitarra al muro, si toglie la coppola e si gratta a lungo la nuca.
“Lo faranno, invece. Conosco molto bene i cinesi. Raderanno al suolo il Potala. Tanto, a loro che cosa gliene importa? Noi e il Maestro rimarremo sotto le macerie, insieme a tutti i monaci. Dopo qualche giorno manderanno un milione di operai e nel giro di due mesi ricostruiranno tutto come prima. O quasi.”
Poi Cohen si siede, afflitto.
“Richard, che cosa dobbiamo fare?” domanda Orlando Bloom. L’attore inglese non riesce a nascondere una certa apprensione.
“A questo punto credo che la decisione non spetti a noi ma al Maestro. Wen-zi, sei in grado di riferirgli quanto abbiamo detto? Tieni, portagli anche questo minaccioso messaggio.”
Il giovane monaco annuisce e subito si dirige verso il Palazzo Bianco, l’ala del Potala dove è raccolto in meditazione il Dalai Lama.
“Ora non ci resta che attendere” dice Gere, prima di accasciarsi su una scomoda sedia di legno intarsiato.
“Tina, perché non ci canti qualcosa? Sai, siamo tutti un po’ nervosi…” propone Bloom.
“Già, e tu in particolare” risponde la cantante nera, scuotendo l’immensa criniera di capelli biondi. E inizia a intonare, dolcemente, We Don’t Need Another Hero, accompagnata alla chitarra da Leonard Cohen e da Herbie Hancock, che ha tirato fuori da chissà dove una minuscola tastiera portatile a pile.
Quando La Turner ha appena ultimato la terza canzone, Wen-zi fa la sua ricomparsa.
“Hai già parlato con il Maestro?” gli domanda Gere, sorpreso.
Il giovane annuisce. Tutti gli si stringono intorno.
“Che cosa ha detto?”
“Dice che dovete fare come ordinano i cinesi.”
“Che cosa? Lui sarà imprigionato!”
“Dice che ciò sarà utile alla causa del popolo tibetano.”
“Non ci posso credere!” esclama Seagal, che appare sconvolto. Wen-zi prosegue, imperterrito, con tono di voce monocorde.
“Dice che Nelson Mandela dopo essere stato in carcere ha avuto fortuna. Sia lui che la propria gente. E inoltre è diventato Capo di Stato e gli è stato assegnato il Premio Nobel per la pace.”
“Ehi! Un attimo!” lo interrompe Tiger Woods urlando. “Il Maestro è Capo di Stato da quando aveva cinque anni e il Nobel gli è stato già assegnato qualche anno fa! Perché vuole andare in prigione?”
Ma il giovane Wen-zi ha una risposta per ogni domanda.
“Dice che è una esperienza che ancora gli manca, e che potrebbe essere la più significativa di tutta la sua ormai lunga vita.”
“Pazzesco!”
“Incredibile!”
Tutti discutono in maniera animata. Solo con un certo sforzo Richard Gere riesce a calmare gli animi accesi dei propri amici.
“Ragazzi! Calma! Dobbiamo accettare la decisione del Dalai Lama. In fondo è il maestro di tutti noi, e se così ha stabilito avrà le sue buone ragioni, che noi non siamo in grado di comprendere. È lui il vero e unico Oceano di Saggezza.”
Adesso tutti stanno zitti e chinano il capo. Dopo un lungo silenzio è Steven Seagal il primo a parlare.
“Dunque è tutto finito?” dice, rivolto a Richard Gere.
“Sì, Steve. È davvero tutto finito. Ci dobbiamo rassegnare. E dobbiamo pregare per Lui.”
E mentre pronuncia queste ultime parole all’attore viene in mente il film. Sì, il film! Sarà il mezzo attraverso il quale tutti saranno informati di quegli avvenimenti, anche se a quel furfante di Bobby Malone non piacerà un finale così malinconico. Di sicuro lo vorrà cambiare. E, per una volta, questa volta soltanto, anche Richard Gere alla fine si troverà d’accordo con lui.

lunedì 27 agosto 2012

RITORNO A LHASA - parte 2°



Lhasa, Tibet. Il cielo è terso e l’aria frizzante. Sul grande spiazzo antistante l’altura di Marpo Ri, la Collina Rossa, dove sorge il palazzo di Potala, scorrono pigre rare automobile e qualche autobus. E poi gente in bicicletta, qualche carretto trainato a mano, uomini a piedi, soprattutto tibetani. I pochi cinesi di etnia han, riconoscibili da lontano per i loro abiti dai colori smorti, si affrettano per andare ad aprire le loro botteghe. Altri cinesi, ma in divisa militare, sono sparsi qua e là nella piazza. Sono le sette del mattino, e la città non ha ancora ripreso del tutto il ritmo di ogni giorno.
Due militari, sostando in piedi accanto alla loro camionetta, fumano con aria annoiata. Spengono una sigaretta e ne accendono subito un’altra, e il tempo non passa mai. A un tratto la loro attenzione è attirata da uno strano rumore che sembra provenire dal cielo. Un fragore che, a poco a poco, diviene loro sempre più familiare. Il più giovane dei due alza gli occhi e rimane a bocca aperta. La sigaretta gli cade sul selciato.
“Gualda!” dice, rivolto al collega. “Un elicottelo! Sta pel attellale nella piazza!”
“Non ne siamo stati infolmati. Che cosa dobbiamo fale?” domanda l’altro.
“Sei tu il capo! Devi decidele tu!”
“Ah! Allola aspettiamo e vediamo che cosa succede. Folse si tlatta di una emelgenza.”
L’elicottero si abbassa sempre più e la sua sagoma diventa sempre più grande. I due soldati sono investiti da un forte vortice d’aria ma, stoicamente, resistono e non si spostano. Alla fine il grosso velivolo si posa a terra. Dopo pochi istanti, quando ancora le pale stanno mulinando, si apre uno sportello e scende un uomo. I suoi capelli d’argento sono scompigliati dal vento.
“Stanno gilando un film!” esclama il militare ragazzino.
“Che cosa?” domanda il suo superiore, gridando per farsi udire nel gran trambusto.
“L’ho liconosciuto! Quello è Lichald Gil, il famoso attole amelicano!”
“Sei siculo?”
“Celto! Ploplio il mese scolso ho visto un suo film, Plitty Vuman!”
“Che dici? L’ho visto anch’io ma non mi sembla sia lui.”
“Ti dico che è lui! Solo che nel film ela più giovane.”
“Molto più giovane!” dice l’altro, ridendo. Poi si accende l’ennesima sigaretta.
“Gualda!”
“Che c’è ancola?”
“Quell’altlo chi è?”
Dall’elicottero sta scendendo un’altra persona. Sembra un uomo piuttosto anziano e indossa una tunica svolazzante, dai colori accesi, giallo e arancione.
“Sembla un monaco!”
“Salà un attole vestito da monaco…”
“Passami il binocolo, plesto!” L’altro esegue e porge lo strumento.
“Polca puttana di una tloia!”
“Che cosa c’è?” domanda il giovane militare.
“Non è un attole! È lui! É il Dalai Lama! Plesto! Plesto! Chiama Pechino! Chiama tutti!”
“Melda!”
L’elicottero sta già ripartendo. E i due uomini che ne sono scesi, quello alto con i capelli d’argento e quello basso, un po’ ingobbito e con il cranio rasato, si stanno già dirigendo verso il palazzo di Potala, dove qualcuno li sta aspettando. Subito dopo tutti spariscono alla vista, inghiottiti dal ventre capace dell’immenso edificio.

“Accompagna il Maestro nei suoi appartamenti, al Palazzo Bianco, sarà molto stanco e ha bisogno di riposare” ordina Richard Gere a un giovane monaco. Tenzin Gyatso conferma, si inchina con umiltà di fronte all’attore e poi segue il ragazzo dal cranio rasato nel labirinto di piani e stanze del palazzo. Gere rimane con un altro monaco.
“Portami dai miei amici. Sono arrivati tutti?” Il monaco annuisce e si incammina a passo veloce, seguito dall’americano. I due camminano a lungo, attraverso corridoi infiniti, salendo e scendendo di piano, finché giungono nei pressi di un ampio salone, situato nel Palazzo Rosso, e di solito utilizzato da gruppi di monaci per le loro abituali preghiere.
“Accidenti” esclama Gere, meravigliato. “Qui dentro è facile smarrirsi.”
“Le stanze sono più di mille” risponde il monaco, che poi si allontana con discrezione, a rapidi passi.
L’attore entra nel salone e subito è travolto da un ciclone con fattezze femminili. La donna lo abbraccia e poi lo bacia sulla bocca, con un gran schiocco prodotto dalle sue labbra carnose e cosparse di un rossetto dal colore rosso brillante.
“Tina!”
“Richard! Finalmente!”
La cantante indossa un top dorato, una microgonna nera e un paio di stivali a mezza coscia.
“Ehi! Che cosa hanno detto i monaci riguardo al tuo abbigliamento?”
Tina Turner scuote il capo leonino.
“Nulla! Erano talmente in apprensione per il Maestro che non mi hanno neppure guardato! Sono proprio da buttare?”
“Sei deliziosa, come sempre. Anzi, sempre di più!”
“Grazie, mio caro.”
Quindi Richard Gere si guarda attorno, alla ricerca degli altri compagni d’avventura. In un angolo appartato scorge due uomini non più giovani impegnati in una partita a carte. Uno è bianco, magro, con un gran naso e indossa una vistosa coppola bianca. Accanto a lui è appoggiata una chitarra. L’altro invece è un nero dai capelli ricci leggermente spruzzati di bianco, e porta degli occhiali scuri. Gere si avvicina alla strana coppia. Entrambi appaiono molto concentrati nel gioco.
“Scopa!” esclama all’improvviso il bianco.
L’altro sbuffa, contrariato.
“Diavolo di un ebreo, mi hai fregato ancora!”
Quando finalmente si avvedono del nuovo arrivato, i due giocatori si alzano e lo salutano con grande cordialità.
“La rivincita della rivincita?” propone Herbie Hancock al suo avversario di gioco. Leonard Cohen annuisce sornione.
“E gli altri? Dove sono finiti gli altri? E quel ragazzino chi sarebbe?” domanda Gere alla Turner, che lo segue come un cagnolino. Seduto in maniera scomposta su una grossa poltrona di legno, con un videogioco stretto tra le mani, c’è un giovane biondo. Avrà non più di quindici anni.
“Ah! Quello? È il caddy di Tiger. Sai, se lo porta sempre dietro.”
“Anche Tiger è arrivato?”
“Arrivato? Guarda che Tiger era già qui da mesi.”
“Sul serio?”
“Certo, stava seguendo un percorso di meditazione…”
“E si è portato il caddy?”
Tina Turner si stringe nelle spalle.
“Be’… perlomeno qui a Potala non ci sono donne. O meglio, non c’erano fino al tuo arrivo” si corregge appena in tempo Gere. “E dov’è adesso quel birbante di Tiger Woods?”
“Credo sia di sopra. Ha scovato un corridoio lungo più di trecento metri e, con l’aiuto dei monaci, lo ha ricoperto interamente con degli spessi tappeti. Un green un po’ rudimentale, comunque utile per provare alcuni dei suoi colpi. Sai, ha intenzione di riprendere alla grande!”
“Riprendere a fare che cosa?” domanda Gere, preoccupato.
“Stai tranquillo, vuole ricominciare giocare a golf. Con l’altro sport ha smesso, grazie all’aiuto dei monaci.”
“Bene, sono contento per lui.”
Richad Gere riprende ad avanzare nell’ampio salone, sempre seguito come un’ombra, una grande ombra scura, dalla Turner. Poi si arresta di colpo.
“E quello?” domanda, distinguendo nell’oscurità una figura accovacciata accanto a una finestra.
“Quello? Boh! È un italiano. Mi pare si chiami Roberto Bagghio, o Baggio che sia. Afferma di essere un caro amico del Maestro, e appena ha saputo delle nostre intenzioni è subito accorso. Si trovava in Birmania, e stava partecipando a una battuta di caccia.”
“Caccia? Un buddista che pratica la caccia?”
L’attore si avvicina al piccoletto. Nota i suoi capelli ricci, e il sottile codino che ricade morbido sulla nuca. L’italiano sfila il fucile da caccia grossa dalla feritoia della finestra e gli porge la mano destra. Naturalmente, da buon italiano, parla inglese in maniera tremenda. Riesce in qualche modo a presentarsi.
“Sei un attore?” gli chiede Gere.
“No, ero un calciatore” risponde l’altro.
“Un calciatore? Ma non hai il fisico adatto!”
“Forse si riferisce al soccer” interviene Tina Turner. E Baggio conferma con un impercettibile cenno del capo.
“E come hai fatto a portare con te quel mostruoso fucile?” domanda ancora l’attore americano.
“In cambio di alcuni autografi. Sai, sono ancora piuttosto conosciuto, qui in Oriente.”
“Ah!” esclama Gere, meravigliato. Non ha mai sentito parlare di lui, di quel piccolo italiano dallo sguardo determinato.
Un rimbombo di passi sul pavimento.
“Richard, eccoci!”
Steven Seagal e Orlando Bloom arrivano di corsa. Entrambi sono fradici di sudore.
“Ehi! Che cosa stavate facendo?”
“Abbiamo praticato un po’ di arti marziali, tanto per mantenerci in forma. E poi, chissà, ne potremmo aver bisogno” spiega Seagal, che sovrasta tutti con la sua alta statura.
“Mi auguro di no” dice Gere. (continua)

domenica 26 agosto 2012

RITORNO A LHASA - parte 1°



Hollywood, California. La porta dell’elegante ufficio del produttore cinematografico Bobby Malone si spalancò all’improvviso. L’uomo si svegliò di soprassalto ed emise una specie di gemito. Di sorpresa.
“Richard!” esclamò, dopo essersi un po’ ricomposto.
L’uomo alto e distinto, vestito con un raffinato abito grigio chiaro che ben si abbinava con i suoi capelli d’argento, avanzò di qualche passo facendo scricchiolare il pavimento di legno e poi sprofondò su una comoda poltrona.
“Carissimo Richard” proseguì Malone. “Sai che sono sempre disposto a incontrarti, anche se non ti fai annunciare e non bussi neppure prima di entrare…”
“Mi spiace, ma avevo bisogno di parlarti con una certa urgenza.”
“Certo… certo.”
“Si tratta di un progetto…”
“Ah! Pensavo fossi venuto per quella parte nel film di Craig. Alla fine non se ne farà nulla. Sai, Willy è testardo e non c’è stato verso di fargli cambiare idea. Vuole a tutti i costi un protagonista più giovane. Non che tu sia vecchio, per carità, il fatto è che…”
“Bobby, falla finita! Il film di Craig è una schifezza! In ogni caso non avrei mai accettato di interpretare quello stupido ruolo.”
Malone risistemò il suo corpaccione sull’ampia poltrona.
“Di che cosa si tratta? Il tuo progetto, intendo…”
L’altro annuì, frugò in una borsa di pelle ed estrasse alcuni fogli. Li porse al produttore.
“È una sceneggiatura originale per un film” disse.
“Mmm… guarda dietro di te.”
L’attore si voltò. A lato di un enorme armadio c’era una pila di copioni, che nessuno aveva ancora sfogliato.
“Come puoi vedere, le proposte non mancano. A scarseggiare sono invece i fondi, il denaro liquido. Quel poco disponibile lo devo investire a colpo sicuro. Non mi posso permettere errori. Che vuoi, la crisi ha colpito anche il cinema, era inevitabile.”
“Dagli comunque un’occhiata, leggi almeno il plot.”
Bobby Malone sospirò.
“D’accordo, ma solo perché sei tu, e in nome della nostra antica amicizia” acconsentì il produttore.
“Che devo fare? Baciarti i piedi? Mettermi a piangere per la commozione? Forza, leggi!”
“Ehi, Richard! Non arrabbiarti!”
Malone inforcò un paio di minuscoli occhiali con la montatura in oro, si mise comodo e iniziò a scorrere le righe, emettendo dei piccoli grugniti di approvazione. Poi posò il foglio sulla scrivania, sfilò gli occhiali e si passò un fazzoletto sull’ampia fronte.
“Allora? Che ne dici?”
“Non è male, non è affatto male. Curioso e insolito. Anche avvincente, direi. Però permettimi, caro Richard, di rivolgerti una domanda: perché dovrei preferire questa idea a quelle, altrettanto buone, che sono sottoposte di continuo alla mia attenzione?”
L’attore lo guardò e poi scoppiò a ridere, mettendo in mostra la sua perfetta dentatura.
“Semplice” rispose. “Perché in questo caso non si tratta di pura finzione.”
“Eh? Che cosa intendi dire?”
“Questa è una storia vera.”
Il produttore scosse il testone.
“Non capisco, Richard. Vuoi dire che questi fatti sono già accaduti? È impossibile! Ne sarei di sicuro venuto a conoscenza e…”
“Infatti, non sono ancora accaduti, ma se tu darai la tua approvazione accadranno presto. E il film li racconterà. E sono certo che sarà un grande successo.”
“Pazzesco!” esclamò il produttore, ancora strabiliato per quanto aveva letto.
“Allora? Qual è la tua decisione?” domandò l’uomo dal vestito grigio.
“Devo decidere adesso? Così, su due piedi?”
“Credo proprio di sì. Ho l’impressione che molte altre case di produzione potrebbero essere interessate a questo progetto. Sai, ho già avuto contatti con la Harper’s e con la…”
“Aspetta!” lo interruppe Malone. “Sarà necessario definire meglio i particolari, alcuni dei quali non sono di poco conto. Per esempio, chi sarà l’interprete principale?”
L’altro sorrise.
“Si trova di fronte a te” disse.
“Un attimo, fammi capire. Impersonerai te stesso?”
“Perché no? Hai qualcosa in contrario, forse?”
Malone rifletté un attimo, poi si versò un bicchiere d’acqua.
“Assolutamente no” rispose infine. “Ti va un drink?”
“Non ti ricordi? Sono astemio. Acqua anche per me, grazie.”
“Mmm… e per gli altri ruoli?” domandò il produttore.
“Mi fido di te. Ho chiesto agli altri, a tutti quelli che saranno coinvolti, e nessuno di loro è interessato a recitare la parte di se stesso. Quindi, a tale proposito, hai campo libero.”
“Mmm… che ne dici del vecchio Clint per la parte del… monaco?”
Ora fu l’attore a sospirare.
“Bobby! Per prima cosa si tratta di un monaco un po’… particolare. E, in ogni caso, ci vorrebbe un interprete che abbia tratti somatici orientali.”
“Hai presente gli occhi di Clint? Sono due fessure! Immaginatelo completamente rasato, e con la pelle del viso un po’ ingiallita…”
“Bobby, ti prego! Tieni a freno la tua fantasia. Queste cose le chiariremo in seguito. In più, ho intenzione di curare personalmente la regia, e quindi avremo tutto il tempo per parlarne. Al momento mi interessano di più gli aspetti economici della questione.”
“Vale a dire?” chiese Malone, all’erta. Dopotutto si parlava di soldi.
“L’hai letto il soggetto, no? Affinché certi eventi possano accadere, per poi essere raccontati, ho necessità di disporre di un cospicuo anticipo.”
Malone iniziò a sudare, e dovette sfilarsi la giacca. L’attore, invece, sembrava fresco come una rosa.
“Le spese per i trasferimenti, l’elicottero e… tante altre cose” elencò. “Saranno costi di pre-produzione, così li chiamate voi, no?”
Il produttore alla fine acconsentì, non prima di essersi scolato altri tre bicchieri d’acqua, che subito ributtava fuori in forma di sudore.
“Ti posso fare un’ultima domanda?” chiese all’attore prima del congedo.
“Certamente.”
“Ma… quel monaco, perché accetta di mettersi in gioco in questo modo? In fondo è una persona importante e, da quanto ho inteso, ha più da perdere che da guadagnare in questa faccenda.”
“Vedi, nella sua lunga vita quell’uomo umile e meritevole ha intrapreso qualsiasi azione che, a suo giudizio, potesse essere utile per il suo popolo. Questa volta ha deciso di porre in atto un gesto eclatante. In fondo, che male c’è?”
“Già, già…”
“Bobby, è arrivato il momento di salutarci…”
Il produttore, con fatica, si alzò in piedi. Strinse la mano all’attore, ma era molto pensieroso.
“Ah! Il finale!” strillò.
“Come?”
“Sulla trama non è precisato il finale.”
“Il finale, naturalmente, è aperto” disse l’affascinante uomo dai capelli d’argento. “Non sappiamo ancora come andrà a finire.”
“Certo, hai ragione. In ogni caso sarà un film drammatico, vero? O addirittura tragico?”
L’altro non si scompose. Arricciò solo lievemente le labbra.
“Può essere, caro Bobby, può essere. Ma potrebbe pure essere una pellicola divertente, comica” disse, prima di uscire e lasciare completamente di stucco il corpulento produttore.
“Ricordati” aggiunse l’attore mentre era già fuori. “Tenzin Gyatso è un uomo davvero sorprendente!” (continua)

venerdì 24 agosto 2012

LA BOCCHITE

Appena fu terminata l'accurata visita il medico la fece accomodare sulla sedia posta di fronte alla sua scrivania. Dopo aver scarabocchiato qualcosa di incomprensibile su un foglietto finalmente alzò il capo e la scrutò. A lungo, ma non disse nulla. Fu invece la donna a parlare.
“Allora? Di che cosa si tratta?”
Il medico iniziò a tamburellare con la penna sul piano del tavolo. Ma ancora non disse nulla.
“Per favore! Non mi faccia stare in pensiero!” esclamò la donna. Dal tono di voce si percepiva in lei una certa apprensione.
“È proprio come pensavo” disse infine l’anziano medico, sospirando.
“Cioè?”
“Lei è affetta da bocchite.”
“Ha detto bronchite?”
“Purtroppo no, signora. Ho detto bocchite.”
Seguì un lungo silenzio. L’uomo distolse lo sguardo e finse di interessarsi a un piccione che si era posato sul davanzale della finestra. La donna, nel frattempo, era impallidita in maniera evidente.
“Non ho mai sentito prima d’ora questa parola. È qualcosa di grave?” domandò con un filo di voce.
Il medico la fissò con severità.
“Non è una malattia vera e propria…” iniziò a esporre, poi si bloccò.
“Non è una malattia?” chiese la donna che, poco alla volta, stava riprendendo colore.
“Soltanto in parte” aggiunse il dottore.
“Continuo a non capire!”
“Sa, è difficile da spiegare…” Nel medico si avvertiva una certa reticenza.
“Ci provi! Per favore!”
“Vede, la letteratura medica, a tale proposito, si presenta assai incompleta…” E subito si fermò.
La donna si spazientì. Iniziò a gridare.
“Non mi interessa la letteratura medica! Voglio sapere se posso essere curata!”
“…sempre se si tratta di una malattia” aggiunse il medico.
“Ma che cos’è allora?”
“Signora, per favore, si calmi. In realtà la scienza non è ancora riuscita a definire questa… situazione?”
“Non capisco! Non capisco! Non capisco!”
“Signora, stia tranquilla, per carità! Non si agiti!”
“Le cause. Almeno sa dirmi quali sono le cause che provocano questa… bocchite?”
“Si riferisce all’eziologia?”
“Eh?”
“Le cause, appunto. Sì, a tale proposito la letteratura medica individua alcune presunte cagioni che possono condurre a contrarre questa… condizione?”
“E quali sarebbero?”
“Mmm…. in verità si tratta di processi piuttosto generici e sommari che tuttavia sono dai più considerati significativi per addivenire a una diagnosi, sebbene non del tutto certa, di questo… stato?”
“Dottore, me li dica! Cazzo!”
Il medico trasalì. Mai si sarebbe aspettato una simile volgare espressione da quella signora così graziosa. Allora, preso dal panico, iniziò a snocciolare senza indugio le possibili cause di bocchite.
“Una costipazione prolungata, un anomalo addensamento di umori che non trovano sfogo, oppure alcune forme di meteoropatia, una prostrazione nervosa dovuta a eccessivo affaticamento, inalazione di miasmi impuri. O ancora brividi congestizi, idropisia addominale e febbre ghiandolare notturna, e anche inanizione, piressia.”
“La smetta con i paroloni!”
Il medico, assorto, non badò all’interruzione.
“Alcuni miei colleghi definiscono all’opposto la bocchite come un’affezione dell’anima.”
La donna fece una smorfia, disgustata da quell’ultima affermazione. Poi si ricompose.
“La prego, dottore, mi dica che cosa devo fare. Per favore!”
Lui annuì, compunto, ma stette zitto.
“É… è contagiosa?” domandò la paziente, ora non più aggressiva ma intimorita.
“Assolutamente no!” la rassicurò il medico, stentoreo.
“Come ho fatto a contrarre questa… malattia?”
Il medico distolse lo sguardo, imbarazzato. Si schiarì la voce. Una, due volte.
“Pare che il germe, se di germe in senso fisico si può parlare, sia presente in noi fin dalla nascita. Alcuni frangenti, alcune occasioni particolari, ne possono scatenare l’azione. È bene precisare che tale patologia, del corpo e della mente, si ricordi, colpisce soprattutto gli individui di sesso femminile. Non mi chieda la ragione di tale peculiarità, perché non la conosco. Comunque si rassicuri: dalla bocchite si può guarire, completamente, anche se il pericolo di una ricaduta persisterà sempre. Possiamo impedire ciò con una vita sana, e intendo pura da tutti i punti di vista, e dobbiamo fare di tutto per tenere a freno certi… comportamenti. Inoltre…”
“Dottore?”
“Eh?”
“Mi scusi, ma mi viene da piangere! Sono così confusa…”
“Signora, non faccia così. Abbiamo diagnosticato l’affezione, e questo è l’aspetto più importante. Ora si tratta soltanto di adottare alcuni semplici accorgimenti.”
“E quali sarebbero?” domandò la donna, un po’ rasserenata.
“Aspetti…”
“Dovrò prendere delle medicine? La cura sarà lunga? Dovrò fare delle iniezioni? Io detesto le iniezioni!”
“Si calmi! No, nessun farmaco, almeno per il momento. Si tratta solo di… limitare l’utilizzo della bocca alle sue funzioni essenziali.”
“Cioè?”
“Vale a dire per emettere suoni e per nutrirsi.”
“Uh?”
“Intendo dire per parlare e per mangiare. Chiaro?”
“Scusi, ma lei per cosa utilizza la bocca? Oltre che per parlare e per mangiare…”
Il medico arrossì e la sua fronte si imperlò di sudore unto. Abbassò lo sguardo e riprese a disegnare strani ghirigori sul foglio delle ricette. Quindi rialzò il capo e, sempre evitando di incrociare lo sguardo della donna, si sfilò gli occhiali e li strofinò a lungo con un minuscolo panno che poi ripiegò con cura. Infine, riacquistato un vago contegno professionale, tornò finalmente a rivolgere l’attenzione alla sua paziente.
“Signora, non ho altro da aggiungere. Credo che ci siamo intesi” disse, in tono molto grave.
“Non ci siamo intesi per nulla!” sbottò la donna, ormai esasperata e con i nervi a pezzi.
Il dottore sbuffò, spazientito.
“Se lei mi assicura che userà la sua bocca soltanto per parlare e mangiare, e non sono certo che ciò sia accaduto in passato, le assicuro che guarirà dalla bocchite. Si rimetterà del tutto, e questo grazie a tale atteggiamento virtuoso. E questo è tutto.”
L’uomo si alzò e porse la mano alla donna, con l’intenzione di congedarla. Lei si alzò a sua volta, ma ignorò il gesto.
“Virtuoso? VIRTUOSO?” urlò a squarciagola. E decise, seduta stante, di iniziare la cura non subito, ma un minuto dopo. Sputò in faccia al medico, utilizzando la sua deliziosa bocca in maniera impropria (e pericolosa per la salute?), poi raccolse la borsetta e uscì come una furia, sbattendo la porta. L’intero studio medico tremò.

giovedì 23 agosto 2012

LA SAGGEZZA E' BELLEZZA



L’uscio della stanza da pranzo sbatte con violenza. La ragazza esce di corsa, singhiozzando, e attraversa il soggiorno, che è avvolto dalla penombra, a passi rapidi e nervosi.
“Ehi! Dove stai andando?”
Una voce profonda, che si fa strada nell’oscurità. Una voce stanca, la voce di un vecchio.
La giovane si blocca, aguzza gli occhi.
“Nonno!”
Lui è seduto su una poltrona, la sua poltrona. In mano tiene una pipa, spenta.
“Che cosa stai facendo?” domanda la ragazza, sorpresa da quella improvvisa apparizione, da quella figura emersa dalle tenebre.
“Sto pensando” dice l’uomo. “Piuttosto, dimmi tu che cosa sta succedendo in questa casa. Perché i tuoi genitori stavano urlando?”
La giovane si passa il dorso di una mano sugli occhi, cerca di asciugare le lacrime che ancora stanno sgorgando copiose.
“Nulla, le solite cose. Non riusciamo proprio a comprenderci.”
Il vecchio scuote il capo, sospira.
“Qual era l’oggetto della disputa?”
Lei alza le spalle, poi accende la luce. Si avvicina al nonno.
“Guarda” dice, mostrandogli le mani. Lui inforca gli occhiali. Osserva con attenzione le unghie lunghe e curate, dipinte ognuna di un colore diverso.
“Interessanti, originali. Tutto qui?”
“Non proprio.”
“Allora?”
La ragazza scosta la maglietta, scopre la spalla.
“C’è anche questo” dice, con tono contrito. Il tatuaggio colorato brilla sulla pelle nuda.
“Una rosa!” esclama il vecchio. “Bella e delicata, proprio come sei tu.”
Lei sbuffa.
“Nonno! Non essere stucchevole!”
Lui sorride, compiaciuto.
“Stucchevole! Che bel termine! Mi piace l’uso che fai delle parole, sai?”
“Mi stai prendendo in giro.” Le labbra della giovane si schiudono. Su di esse, per la prima volta, affiora l’abbozzo di un sorriso. Basta così poco per far risplendere quel volto così grazioso.
“Ti garantisco che non è così.”
“Sicura che non ci sia qualcos’altro?” chiede ancora l’uomo.
Un broncio, un piccolo broncio.
“La scuola. Mamma e papà mi accusano di impegnarmi poco.”
Il vecchio annuisce.
“È vero?”
“In parte, soltanto in parte. In realtà i miei risultati sono buoni, però ammetto che potrebbero essere migliori. Dicono che dovrei dare loro più soddisfazione.”
“Eh? Dicono così? Allora vuol dire che non hanno capito niente!”
La ragazza assume un’espressione meravigliata.
“Che cosa intendi dire?” chiede, quasi timorosa.
“Cosa c’entrano loro con il tuo studio? Le soddisfazioni le devi dare a te stessa! Tu studi per te, non per loro! È chiaro che non vi capite!”
“Perché, secondo te?”
“Uh? È semplice, perché loro si trovano in una condizione, io e te in un’altra.”
La giovane arriccia il naso.
“Spiegati meglio” dice.
“Vedi, tu non sei ancora entrata in pieno nella vita, ed io ormai ne sono fuori. I tuoi genitori invece sono dentro la tempesta, perché la vita è come una tempesta, e i momenti di bonaccia sono davvero pochi. Il loro compito principale, in questo momento, è quello di non fare affondare la nave. Sai, si tratta di una responsabilità enorme, e a volte la loro capacità di giudizio può risultare un po’ offuscata. Preferiscono concentrarsi sui particolari più insignificanti del vivere quotidiano per poter scordare, almeno per un attimo, i loro obblighi e i loro doveri, che sono davvero molto impegnativi. Vedrai, questo tempo di conflitto passerà, perché tutto passa.”
La ragazza guarda il nonno, ammirata. Si sente meglio, di nuovo in pace con quella parte di se stessa che spesso le causa tormento, e allora osa.
“Nonno, lo sai che non riesco a trovare un ragazzo?” Poi arrossisce, piena d’imbarazzo.
“Ma tu non devi trovare un ragazzo!” esclama lui, divertito.
“Perché, sono brutta?”
“Brutta? Ti ho appena detto che sei bella come una rosa! Guarda che alla mia età non si mente più, non ce n’è più bisogno. Non c’è più nulla da nascondere, più nulla da velare o da manipolare. Rimane soltanto l’incanto della verità, uno splendore che si rinnova ogni giorno, che da sostanza a giorni che altrimenti sarebbero tutti uguali. Presto o tardi anche tu farai questa strepitosa scoperta, e allora…”
“Sì. Ma il ragazzo?”
“Non hai capito? Sarà lui a trovare te!”
“Per adesso scappano tutti…” dice la giovane.
“Meglio! Vuol dire che hanno paura di te!” risponde il vecchio, con sincero entusiasmo.
“Ma io non voglio che scappino! Voglio che si interessino a me!”
“Scappano perché hanno paura!”
“No!”
“E invece sì! E hanno ragione ad avere timore di te. Perché tu sei incantevole, ma sei soprattutto molto intelligente e consapevole di te. Adesso hanno paura, ma con il tempo questa paura si trasformerà in stima, rispetto e ammirazione, questa attuale diffidenza nei tuoi confronti contribuirà a selezionare nel migliore dei modi chi veramente ti merita.”
“Dici?” domanda la ragazza, che sembra però convinta.
“È così!”
“Nonno, ti credo.”
Lui sorride.
“Passami i fiammiferi” dice il vecchio, avvicinando la pipa alle labbra. Poi si alza, e le sue ginocchia scricchiolano.
“Nonno, dove vai?”
“Fuori, a fare due passi. Mi accompagni?”
“Certo.”
“Guardami” aggiunge l’uomo.
“Uh?”
“Osserva bene questo vecchio che ti sta di fronte: capelli bianchi, barba e pipa in mano. Non sono forse figo?”
Una risata.
“Nonno! Ma come parli?”
I due, il nonno e la nipote, escono nella tiepida serata di primavera. Lei gli prende la mano. Non si avvedono che qualcuno li sta scrutando da una finestra. L’uomo e la donna, mentre assistono a quel tenero quadretto, dimenticano in fretta rabbia e animosità, e i tratti dei loro volti si distendono. Rasserenati, possono tornare al loro compito principale, quello di governare la nave, per far sì che non corra pericoli anche quando le acque sono agitate. Perché tutto passa, anche le tempeste.

domenica 19 agosto 2012

MOMENTO PERFETTO



Si erano incontrati la prima volta alla fermata del bus. E non era accaduto nulla. D’altra parte, che cosa sarebbe potuto accadere? Lui però aveva avuto la possibilità di esaminarla a lungo perché, come sempre, il mezzo si era fatto attendere. In effetti, quel giorno, tra tutte le persone presenti alla fermata, lui aveva notato, e poi scrutato con vivo interesse, soltanto quella ragazza. Non si può dire che fosse vistosa in maniera particolare, poiché vestiva con abiti semplici, né che il suo viso fosse grazioso più del normale. Anzi, i tratti di quel volto era piuttosto anonimi, quasi sfumati. L’attenzione dell’occasionale osservatore era stata attirata soprattutto dall’enorme massa dei suoi capelli. Neri, spessi e crespi, raccolti in un’acconciatura che poteva sembrare del tutto casuale, ma che quasi di sicuro era il risultato finale di una accurata applicazione. Per il resto, non c’era tanto altro da dire. La pelle di quella giovane donna era molto chiara, tanto da sfiorare la trasparenza. Lo si poteva constatare con certezza considerando il suo viso, ma anche dalle sue gambe, che spuntavano abbastanza lunghe, sottili e smorte da un paio di pantaloncini alquanto corti. Quelle gambe che, in ogni modo, erano tutt’altro che perfette. Una pelle così pallida che formava un crudo contrasto con quella chioma così scura, e con quelle sopracciglia tanto marcate. Anche l’espressione perennemente imbronciata della ragazza rappresentava una singolare peculiarità, così come la sua maniera di muoversi, a scatti, vittima di improvvisi e incontrollabili impulsi nervosi. E il suo sguardo, apprensivo, in continuo allarme.
A quel primo incontro ne erano seguiti moli altri. Ciò avveniva tutti i giorni, o quasi. Spesso l’uomo riusciva a sedersi sul bus proprio accanto a lei. In quel caso, il tragitto risultava alquanto piacevole. A volte si girava a fissarla, per un breve attimo, e ammirava il suo profilo, caratterizzato dalla mandibola leggermente sporgente e dal naso delicato, dalla forma regolare. Di frequente i loro sguardi si incrociavano, e sulle sottili labbra della donna appariva una piccola smorfia, forse l’abbozzo di un sorriso, ma subito dopo lei volgeva il capo in direzione del finestrino. L’uomo rimaneva un po’ deluso, ma non si scoraggiava. E poi, era così gradevole sfiorare con la sua spalla la spalla nuda di lei quando il bus affrontava le curve e i loro corpi inevitabilmente erano destinati a sfiorarsi.
Un giorno, finalmente, i due si parlarono. Non si trattò di un discorso lungo, né approfondito, soltanto di un rapido scambio di imbarazzati e banali vocaboli.
“Scusi, che ore sono?” domandò lui, che aveva davvero scordato a casa l’orologio.
“Non lo so” rispose lei, arrossendo.
Un dialogo minimo, certamente, ma ormai il ghiaccio era rotto. La parete dell’incomunicabilità che esiste molte volte tra gli esseri umani era stata infine abbattuta.
Poco alla volta, con lentezza, con estrema circospezione, l’uomo e la donna scambiarono sempre più parole. Non era facile, perché entrambi erano molto timidi. Discorrevano del tempo e del loro lavoro. Lui scoprì che lei faceva la commessa in un negozio di articoli regalo. In realtà lo aveva già intuito, ma fu contento quando la ragazza glielo confermò. Da quel momento cominciò a scendere una fermata prima. Camminava con lei per qualche decina di metri, al suo fianco, senza mai toccarla, fino all’ingresso del negozio. Poi si salutavano. Un giorno, nel farlo, lui le sfiorò un fianco con la mano, e lei sembrò gradire quel fuggevole contatto. Allora divenne più ardito. Nell’accomiatarsi, cominciò dapprima ad afferrarle l’esile braccio, in un gesto amichevole, e dopo un po’ a schioccare sulle sue guance esangui un paio di casti baci. Naturalmente tutte le mattine l’uomo arrivava in ritardo al lavoro, e doveva subire di continuo i rimbrotti sempre più feroci del suo capo. Tuttavia si trattava di un sacrificio accettabile, dal momento che aveva incontrato l’amore. Sì, ne era sicuro, anche la ragazza nutriva per lui un sentimento speciale, di quelli in grado di allietare l’esistenza. L’uomo era in estasi, poiché prima d’allora non aveva mai conosciuto tale senso di appagamento. No, non si era mai innamorato di una donna. La gioia, in alcuni momenti, era accompagnata e contrastata da un senso di sconvolgimento assoluto. Iniziò a pensare che uno stato del genere, con tutta probabilità, non si sarebbe mai più ripetuto nel corso della sua vita. E dunque fu costretto a prendere quella terribile decisione.
Quel giorno erano scesi dal bus, avevano percorso a piedi il solito breve tragitto e, come sempre, era arrivato il momento del saluto.
“Sappi che non ci vedremo più” disse, allegro.
Lei non comprese bene il significato di quella inattesa affermazione. Lo guardò e sorrise.
“Che cosa?” domandò, ora un po’ inquieta.
“Lo sai, sono innamorato di te, e so che tu ricambi il mio sentimento…” proseguì lui, sempre di buon umore.
“Ehi! Non capisco…”
“Sono felice, sono molto felice…” aggiuse l’uomo, in tono sempre più amabile.
“Anch’io…” disse lei, incerta.
“Non sarò mai più felice come in questo momento” concluse lui.
“Che cosa intendi dire?” I tratti del viso della donna si andavano sfaldando.
“Non capisci?” domandò lui, sereno. “Questo è il nostro momento perfetto. Non lo possiamo rovinare continuando a frequentarci. Sai, in futuro potrebbero sorgere tra noi dei malintesi, delle incomprensioni, e non possiamo correre il rischio di rovinare tutto. Siamo giunti all’apice della nostra storia, al momento più alto e irripetibile…”
“Mi stai lasciando?” pigolò lei.
“Sì, ti sto lasciando. Anzi, ti ho già lasciato! Non ho mai provato una gioia pari a quella che provo in questo istante. Non posso sopportare l’idea che possa svanire, e tu mi sarai riconoscente per sempre…”
La giovane rimase impietrita, del tutto incapace di ribattere. Lui si allontanò saltellando. Si sa, è difficile reprimere la contentezza.