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mercoledì 30 maggio 2012

VITA PARALLELA



Solo in ufficio, per almeno un’ora. Lo ammetto, è uno sforzo terribile alzarsi all’alba. Be’… quasi all’alba. Alle otto, più o meno. In ogni caso si tratta di una incredibile sofferenza. Però ne vale la pena, perché ho la possibilità di stare per un po’ di tempo in completa e perfetta solitudine. Prima che arrivino tutti gli altri rompiballe, e mi riferisco a colleghi e colleghe. Non perdo tempo e ancora prima di sedermi accendo il computer. Sapeste quanto mi fa incazzare questa vecchia carretta! Per avviarsi impiega una vita, ed io sempre lì, in piedi, in apprensione, in attesa che si illumini il maledetto schermo. Quando vedo le familiari icone inizio a rilassarmi un po’, e finalmente appoggio le terga sulla sedia. Il dito indice si precipita sul mouse unto e lo martella con violenza. La sequenza è sempre la stessa, ormai ben scolpita nella mia mente. Apro Facebook, poi Twitter e Google Plus. Quindi passo a My Space, Messenger, Badoo e LinkedIn. Prendo fiato e libero My Life, i tre indirizzi di posta elettronica e, perché no, pure Surfpeople, al quale sono iscritto da poco. Alla fine clicco su un paio di quotidiani on-line, sempre gli stessi, ma leggo soltanto i titoli di alcuni articoli, di sfuggita, poiché i testi mi annoiano. Tutto fermo. Nessuno mi ha scritto, nessun nuovo contatto o proposte di amicizia, tweet insignificanti e incomprensibili e, comunque, mai indirizzati direttamente a me. Sono deluso, e il senso di frustrazione mi induce a non fare nulla, a non agire. Rimango passivo, come sempre. Certo, è trascorso troppo poco tempo da quando ho visitato tutti i siti, che cosa pretendo? Era mezzanotte, o forse l’una. Oppure le due? La convinzione che in questi cazzo di social network non accada mai nulla tuttavia si rafforza. A ogni buon conto ne apprezzo l’unico aspetto positivo: è trascorsa più di mezz’ora ed è l’ora del caffè. Via, verso il bar, in compagnia dei soliti vecchi sfigati. Cornetto d’annata, caffè freddo ma non ordinato come tale, tavolino ricoperto di briciole, trambusto, stupida musica sparata ad volume. Ma chi se ne frega? Non siamo mica qui per questo. L’unica ragione della nostra presenza sono le cameriere. Ne abbiamo viste invecchiare molte, in locali diversi. Forse siamo invecchiati anche noi. Forse, ma non ci voglio pensare. Le bariste, occupiamoci delle bariste. Le guardiamo, le osserviamo, le valutiamo, le soppesiamo, le misuriamo, le analizziamo, le esaltiamo e, all’occorrenza, le denigriamo. Sbavare no, però. Il residuo di dignità che siamo riusciti a conservare ce lo impedisce. L’apice è raggiunto quando una delle ragazze si avvicina al tavolo per servire i caffè. L’azione di chinarsi è inevitabile. Occhi avidi scrutano la scollatura, si intrufolano in essa. Quando c’é. Non c’è nulla di peggio di una cameriera con una maglietta accollata. Giornata persa, in pratica. Uno sguardo stanco sulle forme prosperose della stessa, quasi un obbligo, ed è già ora di andare via, di salutare i compagni di sventura e di rituffarsi nella claustrofobica vita d’ufficio.
Di nuovo seduto. Le dita ora snobbano mouse e tastiera e ghermiscono invece la cornetta del telefono. Chiamo Mara. Merda, non risponde. Non risponde quasi mai e in più non mi richiama. Merita di essere inserita in fondo alla sequenza, per punizione. Ci penso un attimo e poi considero che sarebbe più che altro una auto-punizione. Non faccio modifiche, vuol dire la richiamerò più tardi, cioè tra cinque minuti. Passo a Chiara, che è ben lieta di sentirmi. Non so che dirle e dopo un minuto di semi-silenzio riattacco. Sto per fare il numero di Nunzia ma, proprio in quel momento, la mia collega Alessia transita nelle accanto a me, completamente assorta, con un foglio tra le mani. Con noncuranza, senza che lei se ne avveda, tento di annusarla. Lei non si accorge di nulla, ma il mio obiettivo è raggiunto solo in parte. Profuma di buono, credo.
Decido di sgranchirmi le gambe. Mi alzo, vago per un po’ per il corridoio e poi mi dirigo nell’ufficio di Gisella. Mi siedo di fronte a lei, che sembra molto occupata. La guardo lavorare, ammiro la sua solita e grande efficienza. Concentro lo sguardo sul suo braccio, la parte di lei che amo di più. La spalla nuda, il bicipite magro e scolpito, l’avambraccio tonico e sottile, ricoperto da una quasi invisibile peluria nera. La mano affusolata e nervosa, le unghie dipinte di verde e con la punta lilla. Che cosa può esserci di più sensuale? La mia condizione di estasi dura poco perché trovo subito una risposta alla mia domanda. Il fondoschiena di Liliana! Completamente perso nel turpe pensiero, senza salutare Gisella, mi fiondo verso la stanza della bionda collega. Durante il tragitto penso a qualcosa che potrei dire per  indurla ad alzarsi dalla sedia, a voltarsi, a rivolgermi quel lato che più apprezzo di lei… Quasi mi schianto contro la porta del suo ufficio. Chiusa a chiave.
“È in ferie!”
 Imbarazzato, mi volto. Quella voce stridula appartiene ad Egle, la pettegola segretaria del capo.
“Non importa, tornerò domani” dico, ancora a disagio.
“È in ferie per tre giorni” dice ancora lei. E sembra soddisfatta, la stronza.
Con la coda tra le gambe, torno in ufficio e mi attacco al telefono. Miriam, che c’è. Laura, che non c’è. Due parole con Domenica. Invito Lucia per un caffè, il giorno dopo. Rifiuta, come sempre. Ma che si crede di essere? Potrei chiamare Anna, ma non la sento da tempo e potrebbe non riconoscermi. Basta figure di merda, per oggi. Mi appoggio allo schienale e rifletto. Sulla mia misera esistenza? No, su come riuscire ad avvicinarmi il più possibile ad Alessia per completare l’annusata. Mi perdo in quell’odoroso pensiero.
Quasi non me ne sono reso conto e la giornata è ormai trascorsa.
Che dite? Avete l’impressione che io non abbia lavorato? Che abbia rubato lo stipendio? Che sia un parassita? Un fannullone?
No, vi sbagliate.
Vi assicuro che ho lavorato molto. Con impegno, con il solito calvinista senso del dovere. E sono stanco, sono davvero molto stanco.
Non fatevi ingannare da ciò che ho raccontato. Ho riferito soltanto una piccola parte di ciò che è avvenuto oggi. La mia vita lavorativa parallela. L’unica che ricordo. L’unica che sia veramente importante. Di tutto il resto, che pure c’è stato in abbondanza, non ricordo nulla.
Che ci crediate o no.  

lunedì 28 maggio 2012

MAGNÌN E IL FURTO NELLA CHIESETTA



Un lungo attimo di concentrazione. Uno, due e tre passi, in pieno slancio. Poi la boccia si staccò dalla mano, concluse una traiettoria lunga e tesa e ne andò a colpire un’altra. Piombò addosso alla sventurata prescelta e, con un cozzo secco, la scagliò lontano e ne prese il posto.
“Fermo! Punto e partita!” esclamò Giors, che non riuscì a trattenere l’entusiasmo.
Il suo compagno di gioco, Magnìn, rimase invece del tutto imperturbabile. Lui non sbagliava mai una bocciata. Quindi, perché stupirsi tanto?
I giocatori raccolsero in tutta fretta bocce, pallino, stracci e bacchette. L’intero armamentario, insomma. I volti apparivano stanchi e accaldati e in tutti si poteva scorgere la medesima espressione. Una maschera tragica e disperata, quella di chi da giorni sta vagando nel deserto, trafitto dai raggi incandescenti di un sole implacabile. Di chi si ritrova ormai allo stremo delle forze, con la bocca riarsa e la pelle ustionata. Una smorfia che poco alla volta però si modifica, finché i tratti del viso ridiventano normali, alla vista di quel liquido elemento che rappresenta la salvezza. E da quella gola ormai arida fuoriesce rauco e strozzato un grido di pura gioia: vino!
E vino fu. La solita quantità. Un litro a testa tanto per cominciare. Da assaporare seduti attorno al vecchio tavolo di pietra, all’ombra dell’enorme platano.
Ai quattro giocatori si unì anche Dolfo, il corpulento camionista.
“Dolfo! Oggi non lavori?” domandò Giors, gioviale come sempre. L’altro lo guardò ma non rispose.
“Perché non dice niente?” chiese Sergio, rivolgendosi agli altri.
Luigino scosse il capo, sconfortato.
“Non parla perché non ha ancora bevuto” spiegò.
“Ah!”
Arrivò subito un bicchiere, portato da un trafelato Albino, l’oste. Tutti guardarono Dolfo riempirlo tre volte e, ogni volta, lo videro scolare il vino tutto di un fiato.
“Allora?” lo interrogò Giors, impaziente.
Dolfo scrollò le spalle.
“Il mio camion ha preso una giornata di ferie. Era stanco” disse infine.
Tutti annuirono, seri. Magnìn propose un brindisi in onore del saggio veicolo dell’amico. Si alzarono i bicchieri colmi di vino scuro, si sollevò il bicchierino di liquore alla prugna di Luigino. E subito dopo fu proprio Luigino ad emettere un gemito di dolore.
“Che c’è? Il liquore non è abbastanza forte?”
“Stai male?”
“Ho un tremendo mal di schiena” sibilò tra i denti Luigino.
“Saranno le bocciate.”
“Che dici? Luigino è un puntatore puro!”
“Ungila” propose Sergio.
“Eh?”
“Ti porto io il grasso, lo prendo in fabbrica. Se funziona con il tornio, che tra l’altro è fatto di ferro, funziona anche con te.”
“No! Devi fare degli impacchi con l’acqua arnica!”
Alla parola acqua tutti si zittirono. Sguardi torvi. Dolfo, che aveva pronunciato quel termine proibito, si guardò attorno imbarazzato.
“Scusate…” balbettò. Le sue giustificazioni furono accettate, e la ritrovata armonia fu sancita da un nuovo brindisi. Albino portò altre bottiglie. Il robusto oste era madido di sudore. Si fermò per un attimo vicino al tavolo, e scrutò Luigino con occhio esperto.
“La bacchetta! Hai tolto la bacchetta dal taschino prima di sederti?” disse.
Luigino girò su se stesso e sfilò dalla tasca posteriore dei pantaloni la bacchetta telescopica, quella di riserva. La appoggiò sul tavolo, la osservò a lungo e poi, lentamente, la ripiegò. La schiena non doleva più. Per ringraziare l’oste scolò con gusto, proprio di fronte a lui, il terzo cicchetto di liquore.
“Oggi fa molto caldo” esclamò Giors all’improvviso. “Mi piacerebbe essere sul K2! Lì sì che si sta al fresco!”
“Cos’è il K2?” domandò Sergio.
“Ma come! È la seconda montagna più alta del mondo! Quella dove sono arrivati per primi i nostri, Compagnoni e Lacedelli, qualche anno fa. Pensate, più di ottomila metri!”
“Chi è arrivato secondo? Bartali? È lui il più forte in montagna!” disse Albino, che stava servendo un altro tavolo e non aveva inteso bene. Magnìn e tutta la banda lo ignorarono.
“Però sono andati su con l’ossigeno” disse Dolfo, malizioso.
“Dolfo ha ragione. Per andare in montagna basta avere un buon bastone. E poi, a cosa gli serviva l’ossigeno a quei due? Io lo uso per saldare…” intervenne Sergio.
“Ottomila metri? Con la moto ci avrei impiegato dieci minuti al massimo” disse Luigino.
“Ma è in salita!” lo rimbeccò Giors.
“Dodici minuti, allora.” Luigino era serissimo.
“Hanno barato” intervenne con decisione Magnìn. “Io sarei andato su e giù in un giorno solo. E senza ossigeno, idrogeno o altre diavolerie!”
“Bravo Magnìn!”
“Sei tu l’unico vero montanaro!”
L’atmosfera esaltata che si stava creando fu irrimediabilmente rovinata da Sergio.
“Sapete mica se sul K2 quelli hanno trovato dei funghi? O non era stagione?”
A quel punto non rimase altro da fare se non ordinare un altro giro di bottiglie.
A un tratto si sentì qualcuno gridare. Allarmati, tutti rivolsero lo sguardo in direzione della strada. Videro arrivare di corsa il vecchio Giuàn del Torchio, chiamato così perché possedeva un torchio vinario, e che per tale ragione era rispettato dall’intero paese. L’anziano contadino si lasciò cadere su una panca, esausto. Tutti lo circondarono.
“Da bere! Portate subito da bere!”
Si materializzò all’istante un affannato Albino. Porse al vecchio un bicchiere (un bicchiere!) di grappa. Scambiandola forse per acqua, o forse no, l’altro ingollò comunque il liquido in tre lunghi sorsi. In ogni caso, non fece una piega.
“Accidenti che stomaco!” esclamò Sergio, sbalordito.
“È tutto bruciato, ormai” sentenziò Luigino.
Rifocillato, Giuàn iniziò finalmente a parlare. Anzi, a urlare.
“Hanno portato via tutto! Le immagini, la croce…”
Magnìn gli si avvicinò.
“Dove? Dove hanno portato via tutto?” domandò, dopo essersi acceso una sigaretta senza filtro.
“La chiesetta! Quella di Logna! Ci sono stati i ladri!”
Logna era una frazione del paese, la più distante dal centro, la più isolata.
Magnin dovette allontanarsi, per mettere in salvo i timpani. Il vecchio continuava a gridare come un’aquila.
“Hai avvisato don Felice?” chiese Giors.
Il vecchio contadino strabuzzò gli occhi.
“Sei matto? Sono andato da lui ma stava coltivando l’orto, quando zappa non vuole essere disturbato altrimenti diventa una bestia!”
Tutti i presenti annuirono. Nutrivano grande ammirazione per il sacerdote, e l’affermazione di Giuàn rafforzò ancora di più la loro stima nei suoi confronti.
“E i carabinieri? Li avete avvisati?” Giuàn annuì.
Un po’ discosto dal gruppo, Magnìn stava già indossando gli occhiali scuri, quelli da moto. Completò la tenuta legandosi al collo un fazzoletto rosso, di seta. Anche se faceva molto caldo, era comunque conveniente proteggersi dall’aria.
“Vado a vedere” disse appena fu pronto, cioè nel giro di qualche secondo.
“Vengo anch’io” comunicò Luigino.
“Ma oggi sei in bicicletta” gli fece notare Magnìn.
“Ti vengo dietro.”
Magnìn rifletté un attimo.
“Dietro? Aspetta.”
Si avvicinò alla sua moto, una Itom Sirio, frugò in una delle capienti sacche laterali ed estrasse una fune. Legò un capo al retro del sellino e l’altro al manubrio della bicicletta di Luigino.
“Andiamo” disse, aprendo la chiavetta della benzina e scalciando come un forsennato sulla leva di avviamento.
Luigino montò in sella. Sembrava un po’ malfermo sulle gambe. Troppe prugne, forse.
Albino, il premuroso oste, se ne avvide.
“Non è che voi due ragazzi avete bevuto un po’ troppo?” domandò, con la sua voce sottile che produceva un gran contrasto con il suo grosso corpo.
“Tanto la moto conosce la strada” gridò Magnìn per sovrastare il rombo del motore. Accelerò ancora di più e partì, come al solito, con un’impennata. Lo strattone fu molto violento. Luigino fu scaraventato giù dalla bicicletta, rotolò a terra alcune volte e infine arrestò la sua corsa tra le gambe di uno stupito Dolfo. Tempo alcuni decimi di secondo e già stava russando.
Magnìn, invece, non si era accorto di nulla. Per miracolo la bicicletta era rimasta in piedi e ora seguiva la moto lanciata a folle velocità.
In un baleno Magnìn giunse sul posto. Vide la chiesetta con un attimo di ritardo e pigiò a fondo sul pedale del freno. Urlò a Luigino di fare la stessa la cosa, ma Luigino non c’era. La moto inchiodò di colpo. Il figlio dello stagnino riuscì a controllare la sbandata sulla ghiaia ma subito dopo fu investito dalla bicicletta. Un colpo tremendo. Magnìn, la moto e la bicicletta finirono la loro corsa in un fosso. Magnìn non si scompose, né si domandò come mai Luigino non ci fosse. Pensò che  fosse smontato dalla bici per andare a bere un goccio all’Osteria del Picchio, che era sulla strada. Con calma tirò fuori dal canale prima la moto e poi la bicicletta. L’Itom non aveva un graffio, mentre il veicolo di Luigino aveva una ruota completamente deformata. Si addolorò pensando ai rimproveri che il povero Luigino avrebbe ricevuto dall’arcigna madre. La donna aveva ottant’anni ma comandava il figlio a bacchetta. Tutti temevano la sua ira.
Completamente inzuppato, Magnìn entrò nella chiesetta. Notò che la serratura della porta era stata forzata con molta destrezza. Si sedette su un banco e osservò le pareti. Erano completamente spoglie. Era stato sottratto tutto. Sia le immagini sacre che il grande crocifisso di legno. Sospirò, poi rovistò a lungo nelle tasche bagnate dei pantaloni. Estrasse un pacchetto di sigarette, fradicio, del tutto rovinato. Le cicche erano ridotte in poltiglia. Considerò che la chiesa, priva di tutti gli ornamenti, dovesse essere ritenuta ormai sconsacrata. Allora imprecò e bestemmiò ad alta voce per quasi dieci minuti. Esaurito il vasto e colorito repertorio di invettive, cominciò a spogliarsi. Appese i suoi abiti al piccolo altare di marmo, ad asciugare, e rimase completamente nudo. In fondo, quel povero Cristo che fino al giorno prima stava lì appeso in croce non era vestito molto di più. Era sicuro che non se la sarebbe presa.
Magnìn sentì il rumore di un’automobile. Sbirciò fuori e vide che si trattava dei carabinieri. Il giovane appuntato Varvello scese dall’auto ed entrò in chiesa. Lanciò un urlo disumano e scappò fuori.
“Maresciallo! Maresciallo! In chiesa c’è un uomo nudo!”
Magnìn si alzò in piedi, pronto ad accogliere il maresciallo Sotgiu, sua vecchia conoscenza. Il militare comparve quasi subito. Cercò di nascondere il suo stupore, ma non riuscì a dissimularlo troppo bene.
“Magnìn! Che cosa ci fai qui?” disse.
Il figlio dello stagnino gli andò incontro, una mano alla fronte in un irridente saluto, l’altra in basso a coprire l'attrezzatura.
“Sono passato a dare un’occhiata” disse, tranquillo.
“L’occhiata la sto dando io a te, purtroppo” rispose il maresciallo, squadrandolo. “Allora, come te la passi? Stai lavorando?”
Magnìn si sfilò gli occhiali scuri e scosse il capo.
“No, non ho ancora finito i soldi.”
“Come sarebbe a dire?”
“Si lavora per avere dei soldi. Quando poi si hanno i soldi è inutile lavorare. Comunque il prossimo mese ricomincio.”
“Bravo, bella filosofia! Ah, ricordati di passare in caserma, uno di questi giorni. Mi devi firmare un verbale, quello dell’incidente.”
“Quale incidente?”
“Il penultimo, mi pare…”
“Maresciallo, hai da accendere?” domandò Magnìn.
“Certamente.” Sotgiu tirò fuori una luccicante macchinetta a benzina.
“Hai anche da fumare, per caso?”
Il maresciallo sbuffò e porse a Magnìn un pacchetto di Turmac.
L’altro si servì. Mise una sigaretta tra le labbra, poi ne prese un’altra e la sistemò dietro l’orecchio.
“Per dopo” spiegò. Sotgiu annuì, rassegnato.
“Allora, che ne dici? Del furto, intendo. Chi può essere stato? Zingari?”
Magnìn, avvolto da una nube di fumo blu, scosse il capo con energia.
“Che cosa accadrà alla chiesetta?” domandò al carabiniere.
“Non lo so. Temo che farà una brutta fine. Comincerà a essere frequentata da coppiette, e da vagabondi che la useranno per dormire. Non è neppure troppo vecchia. Alla fine sarà sconsacrata e abbattuta.”
Magnìn annuì. Condivideva in pieno il ragionamento del maresciallo.
“Sai a chi appartengono tutti i terreni qui attorno?”
“No.”
“All’ingegner Nobili.”
“Ah! Vuoi dire Guglielmo Nobili, l’impresario edile?”
“Proprio lui” confermò Magnìn.
“E questo che cosa vuol dire?”
“Vuol dire che l’ingegnere riuscirà finalmente a realizzare il suo progetto, cioè costruire due palazzi. L’unico impedimento finora è stato proprio questa povera chiesetta. Se non ci fosse più…”
“Come fai a sapere queste cose?” chiese Sotgiu, ormai incuriosito.
“Mi è stato detto da amici in Comune…”
“Magnìn! Guarda che ti sbagli. Io e te non abbiamo nessun amico in comune.”
“Mi riferivo al Municipio.”
“Ah!”
“Che cosa ne deduci, maresciallo?” domandò Magnìn con aria furba, mentre schiacciava sotto il piede il mozzicone di sigaretta. Troppo tardi si rese conto di non avere le scarpe. Non gli sfuggì il minimo lamento.
“Vorresti forse accusare l’ingegnere del furto? Sei pazzo?” rispose Sotgiu, leggermente infastidito dall’odore di carne bruciata che si stava diffondendo nella chiesetta.
“Perché non gli vai a parlare?”
“Non ho nessun motivo di ritenere che…”
“Così gli potresti restituire questo, deve averlo perso lui l’altra notte.” E Magnìn porse al carabiniere uno scintillante fermacravatta d’oro, sul quale erano ben visibili le iniziali ‘G. N.’
“L’ho trovato ai piedi dell’altare. Sai, a volte la fretta…”
Il viso del maresciallo si illuminò di colpo. Intascò il gingillo.
“Grazie, Magnìn. Mi sei stato di grande aiuto” disse. “Andremo subito a parlare con l’ingegnere.”
Magnìn sfilò l’altra sigaretta dall’orecchio e, come aveva fatto prima, con un morso staccò il filtro. Poi chiese fuoco e lo ottenne.
“Maresciallo, posso chiederti un favore? In fondo me lo devi.”
“D’accordo, ma questo è proprio l’ultimo.”
“Potete riportare la bicicletta all’osteria di Albino, in paese? Il mio amico Luigino sarà in pensiero. Ah! Non scordarti di lasciare un litro pagato!”
“E tu che ne dici di rivestirti, adesso?”
 “Aspetto ancora un po’. Hai mai provato ad andare in moto con le mutande bagnate?”
Magnìn soffiò una boccata di fumo in faccia a Sotgiu che, tossendo, uscì dalla chiesetta e andò a raggiungere il suo appuntato, che trovò chiuso in macchina, ancora terrorizzato.

sabato 26 maggio 2012

LA MALATTIA



Mi piace pensare mentre cammino, anche se spesso i pensieri mi sfuggono. Non riesco a trattenerli a lungo, scivolano via, come se fossero ricoperti di sapone. Arrivano, si sovrappongono e si confondono, tutto dura un attimo e nulla si fissa nella mia mente. A meno che le mie riflessioni riguardino qualcosa di ossessivo, di tormentoso, che mi provoca dolore. In tal caso tutta la mia forza di volontà e la mia concentrazione non sono sufficienti a scacciare ciò che mi assilla. Dopo un po’, quando mi rendo conto che la mia lotta è vana, mi arrendo. Accetto la sconfitta, e mi rassegno a soccombere sotto il peso di elucubrazioni che mi trafiggono così come il coltello penetra il burro. Con facilità, senza che sia opposta la minima resistenza. Sintomi, questi sono soltanto i sintomi, gli indizi di una malattia che, proprio quando sono più debole, più indifeso, a volte mi colpisce. Per questa patologia non esiste cura immediata, né definitiva, dice il mio medico. Bisogna essere pazienti, saper aspettare. È necessario attendere lo scorrere del tempo, il solo elemento in grado di lenire tale affezione, aggiunge. Ogni volta non gli credo e pretendo una cura. Si tratta di una malattia antica quanto l’umanità, e non è possibile che non esista un rimedio, qualcosa che mi possa guarire subito, qualcosa che impedisca al male di ritornare. Quando sarai vecchio, dice sempre il mio medico, quando sarai vecchio non ti capiterà più e potrai finalmente vivere in pace. Allora sarai finalmente immune, non dovrai più temere niente. Se non la morte, aggiungo io prima di congedarmi da lui, sconsolato. Ma io non intendo aspettare di essere anziano per guarire, voglio vivere sereno fin da ora, voglio gustarmi ogni attimo della mia vita presente senza il continuo incubo di una possibile ricaduta.
Non mi sento bene, da qualche giorno accuso i soliti sintomi, quelli che ormai ho imparato a riconoscere. Sto andando da lui, dal medico. E questa volta dovrà aiutarmi, perché lo pretendo. Non mi potrà liquidare con le solite scontate parole, mi dovrà curare seriamente, una volta per tutte. Mi dovrà prescrivere dei farmaci efficaci, che possano risanarmi in breve tempo. So che esistono, e non riesco a comprendere perché mi siano negati. È proprio necessario che io soffra? A quale scopo? Non mi interessa se la malattia che mi affligge sia piuttosto comune, come ripete il medico, ciò che conta per me è liberarmi per sempre da questa condizione di estrema sofferenza, che mi provoca sia euforia che tristezza, ma soprattutto tanta indicibile tristezza. Il dispiacere, la pena e la prostrazione, se duraturi, sono tutti segnali positivi, afferma il mio medico, perché indicano l’avvenuta guarigione. Già, la guarigione. Ma fino a quando potrò considerarmi ristabilito? Al prossimo mese? Al prossimo anno? Fino a domani? È proprio questa incertezza che mi uccide poco alla volta.
Cammino e penso. Anzi, cammino e subisco i miei pensieri. Sorrido, e l’istante successivo mi incupisco, vedo tutto nero. Poi mi riprendo, e per qualche momento sono felice, prima di ripiombare nella più tetra disperazione.
Sto camminando troppo in fretta. Rallento il passo, non vorrei arrivare in anticipo, quando l’ambulatorio è ancora chiuso. Non voglio sostare sul marciapiede, attorniato da tutti quei vecchi. Quei logori fantasmi dal corpo minato ma con l’animo quieto, perché loro non possono più ammalarsi. Mi riferisco alla mia malattia, naturalmente. Chissà se davvero è così, se è proprio come dice il medico. Forse lo dice soltanto per consolarmi, per farmi stare tranquillo. Forse si possono ammalare anche loro, i vecchi. Mi è difficile immaginarlo, ma ciò non vuol dire che non sia possibile. A tale pensiero rabbrividisco, mi auguro che il mio medico sia una persona sincera, e che non mi inganni.
Adesso mi torna in mente Patrizia. Tutte le volte che sto male penso sempre a lei. Mi sono ammalato la prima volta proprio quando l’ho incontrata. Allora ero molto giovane, e lei lo era ancora di più. Mi è accaduta la stessa cosa quando stavo con Erika, anche se in quel caso l’affezione è stata più leggera, quasi sopportabile. Non è andata così con Gianna, con Francesca e con Michela. Per non parlare di Fulvia. Ricordo con angoscia quel lungo periodo di tempo, durante il quale sono stato malissimo. E poi... poi tante altre volte. Tanti nomi, ma sempre la stessa terribile malattia.
Sono arrivato. Entro con decisione nello studio medico. Sono stufo, non ne posso più. Voglio guarire. Esigo di essere guarito. Non voglio più stare male, non voglio più soffrire. Mai più.
Non mi voglio più innamorare. 

venerdì 25 maggio 2012

IL QUADRO



In fondo, è bastato poco. Un turno elettorale amministrativo che, in condizioni normali, non sarebbe stato di grande rilievo. Che avrebbe fornito qualche utile indicazione, messo in evidenza tendenze e umori dei cittadini, e nulla di più. Invece il quadro politico ne è risultato sconvolto e, in prospettiva delle elezioni politiche del prossimo anno, è bene riflettere e riconsiderare a freddo la situazione.
Si è insistito molto, commentando i risultati, sull’indubbio successo del Movimento Cinque Stelle. Per i seguaci di Grillo si tratta sicuramente di un ottimo risultato, tuttavia affermare che ciò sia un qualcosa di inatteso non è del tutto corretto. Un tale livello di consenso era, a mio avviso, alquanto prevedibile.
I demagoghi e gli agitatori hanno sempre avuto un buon seguito nel nostro Paese. Sembra che una parte consistente di nostri concittadini ne senta un bisogno al quale non è possibile rinunciare. I danni che poi derivano da questi atteggiamenti scriteriati e irresponsabili sono ormai ben noti perché ce lo insegna la storia, ma non si riesce comunque a resistere a questa fatale attrazione. Un noto arruffapopoli, l’indecente Silvio Berlusconi, è appena caduto in disgrazia che subito sorge la necessità di sostituirlo. Beppe Grillo può andare benissimo per assolvere tale compito, al di là di ciò che dice o di ciò che propone o non propone. L’importante è avere qualcuno a cui accodarsi, mentre sarebbe più importante, nonché segno di acquisita maturità, avere qualcosa da seguire, e mi riferisco naturalmente a un’idea, un valore, una visione, un progetto e così via.
Il fatto è che, a parte la fenomenologia del M5S, tutti gli altri partiti, quelli tradizionali per intenderci, di impianto novecentesco, strutturati e/o radicati, sono usciti dal confronto elettorale piuttosto malconci. Alcuni a pezzi. Altri ancora rischiano una rapida estinzione.
Il PDL è finito. Lo ha ammesso - forse con eccessiva precipitazione - lo stesso Berlusconi. Quando ha affermato ciò la sua intenzione era quella di azzerare tutto, di ripartire per l’ennesima volta, forse addirittura quella di riproporre la propria candidatura, di mettere da parte la sbiadita e impotente figura di quell’Alfano che lui stesso ha scelto, ultimo errore - in fondo veniale - di una teoria infinita, sbagli che hanno condotto il Paese sull’orlo del fallimento. I colonnelli-servi del suo partito gli hanno impedito di farlo. Si riparte, ma sempre dal PDL. In che modo? Nessuno lo sa, visto che nel partito-azienda regna la massima confusione. Qualcuno, da tempo, è pronto a scappare. Nessuno pare accorgersi che gli elettori sono già in libera uscita, pronti a votare per Grillo (come molti hanno già fatto) o per qualsiasi altro sobillatore che potrebbe presentare la sua offerta politica d’ora in avanti.
Voti in libera uscita dei quali, di certo, non beneficerà la Lega Nord. Anche questa formazione politica è ormai finita. L’ingenua gente del Nord è stata prima illusa e poi ingannata, presa in giro in tutti i modi da una cricca avida, becera e pure ridicola. Roberto Maroni, il prossimo segretario e curatore fallimentare del partito, ha detto che per i leghisti la traversata nel deserto è ormai terminata. In realtà i leghisti dal deserto - da quel loro deserto interiore soprattutto - non usciranno mai più, perché si sono irrimediabilmente smarriti. Di conseguenza, anche alcuni elettori della Lega si sono buttati tra le braccia del comico genovese. Ingenuità senza limiti, come ricordato in precedenza, o autentica stoltezza del popolo padano? Seppure a malincuore, opterei per la seconda ipotesi…  
E Casini, il bello e inconcludente Casini, come ha reagito alle proprie notevoli ammaccature? Per prima cosa ha scaricato Fini (ridotto a rigido ectoplasma e che finalmente sta pagando tutti i suoi tremendi errori politici) e ora aspetta le decisioni dell’amletico Luca di Montezemolo, per poi accodarsi e continuare così a svolgere le sue funzioni di eterno parassita della politica.
Il PD, invece, può dire di aver vinto le elezioni amministrative. Ha vinto ma di sicuro non ha trionfato, come sarebbe stato auspicabile in questa attuale condizione di vuoto politico. E mai vittoria è apparsa così triste. All’interno del partito sta finalmente maturando la consapevolezza che, senza un radicale rinnovamento di volti e idee, senza scelte concrete e immediate su programmi e alleanze, non si potrà andare lontano. Potrebbe però essere troppo tardi. E ciò vale anche per formazioni politiche abbastanza giovani come SEL e IDV, che già appaiono superate.
Per tutti si è concluso un ciclo, e nulla sarà come prima. Chi non sarà in grado di rinnovarsi in fretta sarà perduto. Non sappiamo ancora da chi sarà riempito il grande vuoto che esiste attualmente. L’auspicio è che le aspettative sul futuro siano connotate dalla speranza di un cambiamento positivo e non dalla paura di un salto nel buio.

martedì 22 maggio 2012

TIFOSI



“Per quale squadra fai il tifo?”
Ecco, questa è la domanda alla quale tutti, prima o dopo, abbiamo dovuto rispondere. Fortunato chi se la può cavare dicendo che non segue il calcio oppure, con maggiore perfidia, domandando all’interlocutore che cosa ci sia di tanto appassionante in ventidue giocatori in mutande che inseguono un pallone. Ma chi invece considera il calcio come uno sport davvero avvincente che cosa deve fare? Tacere? Svelare la propria fede?  
Ero in prima elementare quando mi trovai di fronte, per la prima volta, a tale dilemma. Neppure per un istante esaminai la possibilità di stare zitto. Semplicemente, tale eventualità non era prevista. E mi adeguai di buon grado, rivelando il nome della squadra del cuore. Una compagine milanese, della quale non faccio il nome e che, in quel periodo, mieteva allori. Per molto tempo nessuno mi chiese più nulla, ormai ero stato etichettato e ciò era più che sufficiente. Inoltre, si sa che per il vero tifoso la prima squadra è per sempre. Non si può più, per nessuna ragione, cambiare idea. Per tutta la vita. Questo vale, come detto, per l’autentico tifoso. Ma chi vero tifoso in realtà non è - pur essendo comunque un grande appassionato - può trasgredire tale rigido precetto?
Cominciai a seguire il calcio con reale passione durante Mexico ’70. Allora il torneo non si chiamava Coppa del Mondo bensì Coppa Rimet, in omaggio a Jules Rimet, un dirigente calcistico francese e presidente della federazione internazionale,  l’ideatore dei campionati mondiali di calcio (la prima edizione si è svolta nel 1930). Da allora non ho più smesso di interessarmi a questo piacevole sport, che a volte può essere addirittura entusiasmante.
In tutti questi anni (e ormai sono già tanti) tuttavia non ho mai cessato di interrogarmi sulla solita questione: si può esseri veri appassionati pur senza essere tifosi sfegatati? O, peggio ancora, esagitati?
Per prima cosa ho cercato di capire se io fossi o meno un tifoso.  Essere tifosi di qualsiasi sport e in particolare di calcio vuol dire essere affetti da una sorta di forte accesso febbrile, cioè trovarsi in una condizione patologica. Essere malati, insomma. Il tifo per di più può degenerare in tumulti, risse e atti di teppismo. In offese di ogni genere, in insulti razzisti. Per accedere allo stadio, e poter quindi tifare, è oggi necessario addirittura essere schedati. Per i veri tifosi il concetto di sportività non ha alcun significato, non esistono avversari ma soltanto rivali, è l’imperativo non è giocare bene e divertire ma vincere, ad ogni costo, impiegando qualsiasi astuzia e sotterfugio.
Alla luce di tutto ciò posso affermare, con assoluta sicurezza, di non essere un tifoso. E la mia convinzione si rinsalda ancora di più ripensando al terribile gesto compiuto tempo fa, alla mia tremenda trasgressione. Un fatto veramente grave. D’accordo, quando l’ho commesso avevo poco più di dieci anni, posso invocare a mia discolpa numerose attenuanti comunque non sufficienti ad attenuare tale misfatto. Insomma, ho cambiato squadra. No, non sono proprio un tifoso, anche se questa constatazione in fondo mi rallegra. Perché potrò continuare a seguire il calcio – come ho sempre fatto, d’altronde – in veste di semplice appassionato. Continuerò a sostenere la mia compagine preferita in maniera morbida, e di sicuro non mi negherò il piacere di ammirare le altre grandi squadre, come mi è capitato di fare ad esempio con l’Olanda di Cruyff, con alcune versioni del Brasile, con il Barcellona di questi ultimi anni. E lo farò facendo bene attenzione a stare lontano da un certo mondo, becero e violento, che non mi appartiene.
Il calcio rimane, in ogni caso, uno sport del tutto singolare, uno sport che è anche un gioco. Dove la tecnica, la tattica e le strategie di gioco convivono con l’agonismo e con le doti atletiche. Una raffinata partita a scacchi che, in qualsiasi momento, può trasformarsi in duro scontro. Il tutto, beninteso, sempre nel rispetto delle regole sportive.
Il calcio può benissimo fare a meno dei tifosi, non potrà invece mai rinunciare ai veri estimatori. 

domenica 20 maggio 2012

L'ABISSO DELL'ANIMA



Il vile attentato stragista di Brindisi non può che destare, in tutti noi, nell’intero Paese, sgomento e profondo sdegno. Nonché incredulità e sbigottimento, quasi confusione, per ciò che si è osato fare. È stata colpita una scuola, corpi di giovani studentesse sono stati martoriati dalla violenta e assassina deflagrazione; una ragazza non ce l’ha fatta, le altre vittime hanno riportato gravi ferite, tenere menti sconvolte per sempre.  Giovani donne innocenti, bersaglio di una indicibile barbarie. E un luogo simbolo, la scuola, uno spazio ritenuto intoccabile, dove si investe sul futuro, dove le nuove generazioni acquisiscono la piena consapevolezza del loro futuro ruolo nella società. Chi tocca la scuola percuote in profondità le corde di tutti,  le fa vibrare di indignazione, scatena un rigetto assoluto, una reazione impetuosa.
È difficile riuscire a comprendere le ragioni di una simile violenza. Forse impossibile.
Gli inquirenti stanno vagliando tutte le possibili piste, stanno analizzando le modalità operative dell’ignobile gesto, e nessuna ipotesi è stata a priori scartata. Ci auguriamo che l’impegno delle istituzioni sia premiato, che sia possibile attribuire una firma, una responsabilità, una precisa identità a chi si è macchiato di un delitto così ignobile. Nello stesso tempo, non ancora espresso, affiora il solito timore, quel senso di sconforto che assale quando si pensa a tutte le stragi rimaste impunite nel nostro Paese, dove non è stato possibile individuare un colpevole.
Ma ciò che più disorienta in questo momento è un’altra considerazione, che genera turbamento, che sconcerta.
La tentata strage ha dei mandanti, che intendevano perseguire uno scellerato disegno, e ha dei cinici esecutori.
Per favore, non chiamiamo questi spregevoli individui bestie, belve, animali feroci. No, purtroppo siamo di fronte ad esseri umani, che hanno agito in piena cognizione, utilizzando il loro libero arbitrio.
Qualcuno, freddamente, ha deciso. Altri hanno collocato le bombole di gas, le hanno collegate a un timer, hanno fabbricato l’innesco, consapevoli dello spaventoso effetto che avrebbero prodotto. E non si tratta neppure di fanatici, di gente dalla mente obnubilata.
Si tratta di persone che hanno smarrito il senso di umanità, del tutto indifferenti al marchio d’infamia che li ha segnati, che per sempre porteranno inciso. Del tutto indifferenti, impassibili, distaccati. Freddi, come il gelo che li accompagna.  
Interroghiamoci su questo abisso dell’anima nel quale siamo precipitati, e dal quale sembra arduo uscire.   

venerdì 18 maggio 2012

TUTTI LO SANNO



“Ormai lo sanno tutti!” dice lei, tutto di un fiato.
Quelle parole mi colpiscono come una stilettata in pieno petto. Freddo, gelo immediato. Per un interminabile attimo boccheggio, nell’inutile tentativo di introdurre aria nei polmoni. Tutto il mio corpo è assalito da un tremore che non riesco a controllare. Il cuore martella impazzito, sento l’eco di quei colpi sordi fino in gola. Morirò. La fine, ma anche la salvezza. Scaccio in fretta quell’idea malsana, vile. Poco alla volta riprendo il controllo della mia mente sconvolta, della mia carne sformata.
“Perché non dici nulla?” Ancora quella voce di donna che mi trapassa i timpani, che li perfora con le sue acute vibrazioni.
“Sto pensando” rispondo. La mia voce è ridotta a un flebile pigolio. Ho bisogno di tempo. Devo riflettere, ho assoluta necessità di riordinare le idee. Ma i suoi occhi mi fissano, implacabili. Tento di sostenere quello sguardo di fuoco, cerco di scorgere in quelle pupille chiare un lampo di incertezza, un’esitazione, l’umana paura. Non è così. Il terrore attanaglia soltanto le mie viscere, le rende liquide e impalpabili, le scioglie.
“Che c’è da pensare? Dimmi qualcosa, piuttosto…” Ecco, finalmente colgo in lei un tentennamento. Il mio atteggiamento remissivo la disorienta. I miei indugi, la mia reticenza producono in lei una insicurezza insolita. Si apre un varco, nel quale dovrò cercare di infilarmi. Devo approfittarne subito, ma non ci riesco. Mi sente debole e scosso, non possiedo alcuna lucidità.
“Come l’hai saputo?” chiedo. Una domanda interlocutoria, sussurrata senza nerbo, per prendere tempo.  Mi maledico.
Lei non risponde. Mi squadra a lungo. Poi sospira e finalmente distoglie lo sguardo. Si accende una sigaretta. Le sue mani tremano, e quella visione mi sgomenta. Respiro a lungo, più volte. Perché continuo a essere affamato d’aria?
Infine scrolla le spalle, e subito dopo si affloscia, tutto il suo corpo si sgonfia all’improvviso. Un sacco vuoto, con i riccioli biondi.
“Tutti lo sanno” dice. La sua voce ha mutato inflessione. Rassegnazione? Oppure semplice disgusto? Non lo so, faccio fatica a decifrare questa nuova intonazione. È come se di fronte a me ci fosse una sconosciuta, e non quella donna che ho a lungo desiderato. Non importa se non l’ho mai avuta. Non ancora. E non l’avrò più. Mi mancherà, sono sicuro che mi mancherà. Ma questo non lo posso dire, perché sarei perso. Non posso perdermi, proprio non me lo posso permettere. Perché? La domanda che rivolgo a me stesso è retorica, ne conosco bene la risposta. La mia mente dissestata per un istante, per un solo drammatico istante, richiama l’immagine sbiadita di mia moglie, dei miei figli. Di fronte a quell’opacità di sentimenti inorridisco, provo ripugnanza. Nutro pena. Non trascorrerò più ore interminabili a parlare con lei, a ridere e scherzare, a confidarmi. Non inalerò più il suo profumo, scorderò la sua allegria, il suo sorriso. Non mi perderò più nei suoi occhi luminosi. No, nulla di tutto questo. Il senso di perdita mi annienta, mi annichilisce.
“È meglio se non ci vediamo più” dice lei. Tristezza, ora percepisco tanta tristezza, ma anche risoluta dignità. Quella che io non possiedo. Lei ha pronunciato quelle parole, quelle che si aspettava da me. Coraggio, tanto coraggio, quello che io non ho.
Raddrizzo la schiena, mi schiarisco la voce ma non parlo. Non parlo e neppure piango. Invece annuisco, compunto.

giovedì 17 maggio 2012

SUICIDI DI STATO?



Negli ultimi tempi piccoli imprenditori in difficoltà, artigiani e disoccupati senza alcuna prospettiva si sono tolti la vita. In tanti. Eventi luttuosi e tragici, che addolorano, che fanno riflettere.
Fatti simili sono sempre avvenuti, in passato. Certo, in minore quantità, ma soltanto di poco. In questo particolare momento tuttavia c’è stata, rispetto a tali accadimenti, una rumorosa amplificazione, condotta dai giornali e dalla televisione, dalla politica. Sono stati definiti suicidi di Stato ravvisando, in tal modo, una diretta responsabilità da parte delle istituzioni. Che non solo non sono state in grado di tutelare i cittadini, ma ne hanno provocano addirittura la morte.
Forse si tratta di esagerazioni, di vergognose strumentalizzazioni; in ogni caso è necessaria una valutazione più ponderata, per riportare tali drammatiche vicende alla loro reale accezione, per sgombrare il campo da pericolosi fraintendimenti.
La crisi economica sta stringendo sempre più le società occidentali in una morsa crudele. Le prospettive future sono nebulose, non si riescono ad ipotizzare tempi certi rispetto a una possibile ripresa, manca la speranza. I cittadini, ormai del tutto consapevoli della gravità della situazione, giorno dopo giorno si impoveriscono sempre più. Qualcuno tra loro si ritrova sempre più ai margini, spesso sulla soglia di uno stato di indigenza che fa paura, che atterrisce e può spingere a gesti sconsiderati. Come il suicidio.
Nessuna scelta è così personale come la decisione di togliersi la vita. Implica l’assunzione di una responsabilità elevata al massimo grado, assoluta. Un’opzione tra esistere e non esistere. Anche il tormento e la sofferenza che sempre precedono tale scelta sono elementi del tutto individuali, mai condivisi, neppure con i più stretti congiunti. Nulla traspare prima del folle gesto, e tale aspetto annienta i familiari, che niente hanno percepito, che non hanno avuto la minima possibilità di aiutare il loro caro.
Perché, allora, insistere nel definire tali tragedie suicidi di Stato o, ancor peggio, omicidi imputabili allo Stato?
Alcune asettiche considerazioni: l’attuale governo ha fatto il possibile (sebbene a volte in maniera criticabile e discutibile) per fronteggiare una situazione economica quasi disperata. Sono stati assunti provvedimenti molto duri, a volte anche iniqui, ma non esistevano altre alternative Poi occorre dire che le tasse, da sempre, sono state incassate dallo Stato. Attraverso strutture di esazione che adesso si chiamano Equitalia e concessionari locali, che un tempo avevano un’altra denominazione ma sempre la medesima funzione. Così come ci sono sempre stati imprenditori in difficoltà e lavoratori disperati.
Perché adesso tutto ciò ha assunto una maggiore risonanza? Perché si arriva a criminalizzare Equitalia, cioè lo Stato?
Certo, la crisi. Il progressivo impoverimento di quasi tutte le classi sociali. Il cinismo delle banche che, invece di elargire credito, preferiscono operare sul mercato finanziario. La stanchezza. Le maggiori rinunce. L’assenza di prospettive. Le preoccupazioni per il futuro dei figli. Il fallimento. Tutte motivazioni importanti ma, ci si domanda, tali da spingere una persona a rinunciare alla vita?
In ogni caso, se proprio vogliamo addossare responsabilità, perché non chiamare in causa il precedente, indegno governo? Che ha sottovalutato la crisi economica, l’ha sminuita, e ha contribuito in tale maniera a rendere i suoi effetti più devastanti. Purtroppo è onesto affermare che, tra i tanti che hanno sostenuto sia quell’esecutivo che quelli - allo stesso modo irresponsabili - che lo hanno preceduto, forse ci sono tanti imprenditori che adesso si trovano in difficoltà, vittime oltre che della congiuntura economica anche di un’illusione pagata a caro prezzo.
Colpa di tanti, dunque, sebbene non di tutti.
Le tragiche morti di questi tristi giorni da attribuire quindi a una responsabilità non soltanto individuale, ma collettiva. Ma è bene non cullarsi in tali ingannevoli tesi, colme di perversi effetti distorsivi.
È meglio limitarsi a un unico stato d’animo, al solo sentimento che dovrebbe essere consentito di esprimere di fronte a tali dolenti episodi, quello dell’umana pietà.

mercoledì 16 maggio 2012

TOGLIERE



Togliere, a un certo punto della sua vita ritenne che fosse arrivato il momento di togliere.
Così come lo scultore asporta con pazienza piccole parti di marmo o di legno per fare emergere una figura, così come il pittore elimina, poco alla volta, gli spazi bianchi dalla tela e li riempie di colori, anche lui pensò di dover rinunciare a minute porzioni di se stesso, per fare affiorare la sua vera e intima essenza di uomo.
Il processo di privazione fu molto lento e infinitamente lungo. Decise di iniziare dalle cose più insignificanti, in apparenza prive di valore. Minuscoli oggetti, dei quali imparò ben presto a fare a meno.
Da tanti anni portava, appesa al collo, una catenina d’oro. L’aveva indossata la prima volta quando era ancora un bambino. La sfilò, e non la mise mai più. Poi fu la volta degli anelli. Le dita non hanno bisogno di ornamenti, possono esprimere la loro nobiltà anche stando nude. Per una ragione che, sul momento, non seppe spiegare, tenne soltanto un impalpabile braccialetto di corda, umile e unico addobbo a circondare il suo polso sottile.
Chiuse in un cassetto il suo prezioso orologio, e subito si sentì più leggero. Non per il sollievo dovuto al minore peso, ma perché provò conforto nell’anima. Non avrebbe più lottato contro il tempo, entità crudele, temibile avversario in una interminabile battaglia che da sempre aveva saputo essere persa.
Si concentrò sui suoi gesti, sui suoi movimenti. Imparò a muoversi in assoluta economia, quasi scivolando, senza dissipare le energie, distribuendo al meglio le forze. Eliminò quasi tutto. Non si spostava, semplicemente si materializzava da un luogo all’altro. Almeno, questa era la sua impressione. E quella degli altri, che dopo un po’ non si meravigliarono più per tale inusuale capacità.
Alla fine si dedicò alle parole. Da sempre aveva considerato quanto le parole fossero importanti ma, nello stesso tempo, pensava anche che fossero troppe. Un impiego eccessivo, un consumo immotivato, che aveva svuotato le parole del loro contenuto, del loro vero significato. Erano diventate leggere, senza spessore. Imparò con fatica ad utilizzarne poche, tutte pesanti. Parlava soltanto quando aveva qualcosa da dire di davvero importante, di significativo. Si rese conto che poteva stare anche per interi giorni senza aprire bocca. Piuttosto che pronunciare parole vuote preferiva ascoltare. In tal modo apprese molto. Scartò il superfluo, ciò che non era necessario, e si accorse che rimaneva molto.
Togliere, aveva deciso di togliere. E l’aveva fatto.
Che cosa era rimasto di lui? In verità non lo sapeva, però era certo, a quel punto, di essere pronto.
Era ormai pronto per qualsiasi cosa.

martedì 15 maggio 2012

UN ANNO DIVERSO

E' possibile acquistare direttamente dal blog l'e-book "Un anno diverso" presentato al Salone del Libro di Torino.

domenica 13 maggio 2012

SALONE DEL LIBRO (3): MAURO CORONA



Eccolo, è lui. È impossibile non riconoscerlo. Incede nella sala gremita con il suo passo, allo stesso tempo, pesante e leggero. Il passo di un montanaro, di un uomo che è vissuto sempre in luoghi ripidi, erti.
Oggi fa molto caldo, un anticipo d’estate, e allora ha abbandonato la giacca (l’unica che possiede) indossata nelle ultime apparizioni pubbliche ed è tornato all’abituale abbigliamento. Maglietta nera sbracciata, pantaloni legati a vita da una grossa cintura di cuoio, scarponcini da alpinista. Una tenuta che fa risaltare il suo fisico, in apparenza minuto ma in realtà ancora possente, da vecchio e coriaceo stambecco.
Si può ritenere che Mauro Corona sia un personaggio in parte costruito oppure, al contrario, che sia invece l’uomo più genuino del mondo.
In ogni caso, si tratta di una persona particolare. A suo modo, unica.
È venuto al Salone del Libro per parlare del suo ultimo libro, “Come sasso nella corrente”. E lo fa ma, come al solito, finisce per abbandonarsi a numerose e varie digressioni.
La principale novità è che non beve più. Ha voluto dimostrare a se stesso di essere in grado di smettere, e ci è riuscito. Naturalmente non esclude di riprendere a farlo, magari la sera stessa. Dice che il vino (compagno fedele di tutta la vita ma, a volte, anche spietato traditore) ormai gli impediva di essere pienamente se stesso, lo conduceva a comportamenti eccessivi e fonte di dolore per chi più gli era vicino. Inoltre, aggiunge di non volere rappresentare, soprattutto per i giovani, un modello negativo da seguire. Giovani che, a suo parere, eccedono con l’alcol, e lo fanno comunque in maniera “sbagliata”, privi come sono di una educazione al bere.
Il suo ultimo libro è diverso dai precedenti, ed è una sorta di testamento, che rispecchia la necessità di sgombrare il campo da tutto ciò che non è stato detto in precedenza. Un bisogno, una vera e propria esigenza da soddisfare, per evitare di morire senza essersi fatto conoscere fin nell’intimo. Una professione di verità e di onestà. In gran parte si tratta quindi di un testo autobiografico. Soltanto nel finale, ambientato in un vicino futuro, lo scrittore-scultore friulano ricorre all’invenzione. Corona nel libro parla a lungo della sua infanzia difficile e dolorosa: un padre-padrone violento, del tutto incapace di dare affetto, una madre oggetto di tali rabbiose prevaricazioni che dapprima tenta il suicidio portando con sé i tre figli ancora piccoli. Non riesce a portare a compimento il suo tremendo intento e subito dopo scapperà di casa per seguire un altro uomo, per lasciare dietro di sé quell’inferno domestico. Abbandonerà così i figli. Molti anni dopo farà ritorno, ma i legami familiari saranno a quel punto ormai irrimediabilmente compromessi, andati perduti. Impossibili da ricostruire. Inizierà, per tutta la famiglia, un tempo fatto di silenzi e di rancori non espressi, che non avrà fine e segnerà tutti in maniera profonda.
Corona parla, parla e cita di continuo. Cita Brodskij, l’amato Borges (“nessuno di noi è necessario”) e riporta anche Pasolini (“la famiglia è un’associazione a  delinquere”). Corona parla della vanità, sua e di tutti gli scrittori, di tutte le persone, parla dei suoi limiti, delle sue umane debolezze, delle sue manchevolezze, si svela e si mette a nudo senza omissioni e ipocrisie (“i panni sporchi non devono essere lavati in famiglia ma fuori, sotto gli occhi di tutti…”).
Corona, infine, parla della felicità, anche se lui la preferisce definire contentezza. La felicità di un individuo, a suo avviso, comporta sempre l’infelicità di un’altra persona. Come se la quantità di tale stato d’animo, nel mondo, fosse limitata. Se così fosse, se lui avesse ragione, questa sarebbe per tutti un’amara e triste verità.  

Mauro Corona (1950) – Bibliografia:
§  Gocce di resina, Edizioni Biblioteca dell'Immagine, 2001
§  Nel legno e nella pietra, Mondadori, 2003
§  Storie del bosco antico, Mondadori, 2005
§  I fantasmi di pietra, Mondadori, 2006
§  Cani, camosci, cuculi (e un corvo), Mondadori, 2007
§  Torneranno le quattro stagioni, Mondadori, 2010
§  La ballata della donna ertana, Mondadori, 2011
§  Come sasso nella corrente, Mondadori, 2011