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domenica 29 aprile 2012

LA CAVIA



“Prepara la cavia” ordinò l’anziano medico affacciandosi alla porta del laboratorio.
Il suo assistente chiuse il giornale. Si alzò. Controllò che il tavolo di dissezione fosse in ordine, verificò che tutti gli strumenti fossero al loro posto e poi si diresse verso le celle. Si fece accompagnare da una guardia in divisa. Il giovane la riteneva una precauzione del tutto inutile, tuttavia era quanto previsto dal protocollo e lui risolse di attenersi alle regole.
La guardia inserì una tessera magnetica in una fessura e la pesante porta si aprì. All’interno del piccolo locale c’era odore di chiuso. E di sudore stantio. Accesero la luce.
La ragazza si destò all’improvviso. Seduta sulla misera branda, sbatté più volte gli occhi, abbagliata dal violento chiarore.
“In piedi! Sbrigati!” intimò la guardia.
“Che succede?” domandò lei, con aria smarrita. Ma ubbidì. L’uomo la guardò e rinunciò ad ammanettarle i polsi.
A quel punto si fece avanti il giovane che indossava il camice bianco.
“Devi venire con noi, subito. È arrivato il tuo turno” disse, con tono impersonale. Poi si voltò.
“Perché non sono stata avvisata?” domandò la ragazza. Faticava a trattenere le lacrime.
Il ragazzo girò su se stesso e fece un passo.
“Il dottor Pain preferisce che le cavie siano rilassate e non intossicate dalle paura. Spogliati.”
Sotto gli occhi indifferenti dei due uomini, la giovane si sfilò il camicione grigio e poi si fermò.
“Tutto” ribadì l’assistente. In lui si percepiva impazienza.
“È proprio necessario? Perché volete umiliarmi?” gridò la donna.
La guardia sogghignò mentre il giovane emise un sospiro.
“Non ricordo di avere mai visto dei topi con le mutande…” disse quest’ultimo. L’altro scoppiò a ridere.
“Bastardi!” urlò la ragazza. Piangendo si tolse gli slip e li gettò a terra. Erano logori e sporchi.
La robusta guardia l’afferrò per un braccio e la trascinò attraverso un lungo corridoio. Giunsero infine al laboratorio. La giovane fu sistemata sul lettino. Le mani furono bloccate con delle robuste cinghie. E anche i piedi.
Il giovane assistente fece un cenno alla guardia.
“Posso andare?” L’altro annuì.
Rimasto solo con la ragazza, iniziò la preparazione. Nessuno dei due disse una parola. La giovane aveva lo sguardo spento, rassegnato. L’uomo procedette rapido, con grande professionalità. La vista del corpo nudo della ragazza non suscitava in lui alcuna reazione. Era abituato. Notò soltanto che il soggetto appariva alquanto debilitato. Braccia e gambe erano molto esili, e il tronco di una magrezza spaventosa. Scosse il capo.
“È da tempo che non mangiò più” disse lei con un filo di voce, intuendo i pensieri dell'uomo.
“Avevo suggerito al dottor Pain l’alimentazione forzata. Non mi ha dato ascolto.”
L’assistente sistemò con cura alcuni elettrodi, verificò un’ultima volta tutti gli strumenti poi, soddisfatto, si scostò dal tavolo operatorio.
“Perché?” disse la ragazza. Sembrava ormai rassegnata alla sua triste sorte. L’altro non rispose.
“Tu non sai che cosa ho fatto, immagino. Lascia che ti spieghi e forse avrai un po’ di pietà” aggiunse lei.
“Non mi interessa, non lo  voglio sapere” disse il giovane medico. “Se sei stata condannata alla vivisezione un motivo ci sarà. Qualcuno lo ha deciso, e non tocca certamente a me mettere in discussione tale scelta. Mi limito a fare il mio lavoro.”
“Che cosa mi farete?” domandò lei. Lui fece una smorfia, poi la osservò con attenzione.
“Che importanza ha saperlo? Tanto lo vedrai. Eseguiremo soltanto delle anestesie parziali. Non proverai dolore, non tanto, credo…”
“Dimmelo, ti prego!”
L’uomo prima sbuffò, poi rispose.
“D’accordo. Ti estrarremo i polmoni, proveremo a farli vivere in ambiente esterno. È questo il campo di specializzazione del dottor Pain, la respirazione.”
“E poi?” chiese la ragazza. Il suo volto, un tempo grazioso, si era trasformato in una maschera di terrore.
“Vuoi che sia sincero? Non credo molto negli esperimenti del mio capo. A volte ho l’impressione che pensi di essere la reincarnazione del dottor Mengele!” Il ragazzo sorrise compiaciuto per la battuta. Poi tornò serio.
“Come finirà? Non lo so come finirà. Temo che alla fine ci tocchi buttare via tutto, come è successo tante altre volte.”
“Buttare via tutto?” soffiò la ragazza. Era trasfigurata, non sembrava più un essere umano.
“Lasciamo stare.”
La giovane iniziò ad urlare. Un urlo che si trasformò presto in un gemito sommesso. Poi, di colpo, si calmò. Cercò lo sguardo del giovane assistente.
“Guardami” disse. “Davvero non vedi in me una persona ma soltanto una cavia da laboratorio? Lo voglio sapere…”
Lui la squadrò a lungo. Notò, chissà perché soltanto in quel momento, che la ragazza aveva un piccolo tatuaggio ormai sbiadito sul seno sinistro. Poi scrollò le spalle.
“Vedo un organismo vivente. Per ora.”
Si voltò di schiena e allineò alcuni strumenti chirurgici su un piano.

mercoledì 25 aprile 2012

LIBERTA'



Si incontrarono nel fienile. Avrebbero potuto farlo nell’adiacente casolare, che era disabitato da quando, alcuni mesi prima, i nazisti avevano ucciso i proprietari. Tuttavia nessuno dei due aveva trovato il coraggio di farlo. E neppure di proporlo. I campi attorno al podere apparivano incolti e trascurati, avvolti da un’atmosfera di tristezza e abbandono. Alla morte dei due contadini era seguita la fine di tutto il resto.
Il ragazzo si tolse la giubba scura, la piegò con cura e la ripose su una vecchia carriola. Dopo qualche istante anche la ragazza svestì il giaccone e lo gettò sul fieno. Entrambi senza dire nulla. I loro occhi si cercavano, sguardi amorevoli e disperati.  Ognuno osservava i movimenti dell’altro. Gesti abituali, conosciuti, compiuti tante altre volte. Quel giorno, però, tutto sembrava diverso. Nell’aria polverosa dell’antica costruzione si percepiva un’inconsueta tensione.
Alla fine fu il ragazzo a rompere per primo quel silenzio ormai pesante.
“Per ciò che stiamo facendo potrei essere fucilato” disse, in maniera nervosa. Subito dopo ridacchiò.
“Perché sei venuto, allora?” rispose lei, con tono di sfida.
Lui abbassò lo sguardo, colpito.
“Lo sai bene il perché” rispose.
“Voglio sentirtelo dire.”
Il giovane deglutì.
“Ti voglio bene” mormorò.
La ragazza annuì. Poi, all’improvviso, scalciò un secchio arrugginito e lo mandò a sbattere contro il muro.
“Tu pensi solo a te stesso. Ti rendi conto che anch’io potrei subire la stessa sorte? Cosa credi farebbero i miei compagni se sapessero che mi incontro con te? Mi sparerebbero alla schiena, senza pietà. E avrebbero tutti i motivi per farlo.” Nella voce della ragazza c’era rabbia, ma anche sconforto e rassegnazione.
“La guerra prima o poi finirà” disse lui senza troppa convinzione. Poi fece un passo avanti.
“A quale guerra ti riferisci?” ribatté la giovane. “La mia o la tua?”
“È la stessa. Entrambi lottiamo per un ideale.”
“Il mio è la libertà? E il tuo?”
“È anche il mio” rispose lui.
La ragazza scoppiò a ridere. Una risata amara.
“Non può esistere libertà in assenza di ordine e di disciplina..” cercò di spiegare il giovane.
“Quanto sei ingenuo!” lo interruppe lei. “Stai combattendo dalla parte sbagliata e non te ne rendi neppure conto.” Scosse il capo e agitò i lunghi capelli. Li aveva appena slegati.
Il ragazzo sospirò.
“Entrambi abbiamo fatto una scelta. Non possiamo dire quale sia quella giusta e quella sbagliata. A me pare dissennata la tua. Stai in montagna, insieme a dei ribelli, a dei balordi…”
“Basta!” disse con veemenza la giovane partigiana. Poi la sua voce si addolcì.
“Davvero mi vuoi bene?” domandò.
“Sì.”
“Non ti sembra tutto così assurdo? La nostra situazione, intendo dire.”
Lui si limitò a scrollare le spalle. Quel gesto esprimeva il suo fatalismo.
“Abbracciami” aggiunse la ragazza. Lui ubbidì. Era abituato a farlo, ma non tutti gli ordini che riceveva erano così piacevoli…
In un angolo del fienile c’erano le armi dei due giovani. Due fucili mitragliatori uguali, appoggiati uno sull’altro. Uniti e intrecciati come sarebbero stati di lì a qualche attimo i due ragazzi.
L’estasi il piacere furono intensi ma di breve durata. Il ritorno alla realtà, alla tragica realtà di quei giorni fu brusco. In più, tra i due amanti c’era qualcosa di non detto, che faticava a emergere.
Fu lei, come sempre, la più coraggiosa.
“Non dobbiamo incontrarci più” disse tutto di un fiato.
Lui la scrutò a lungo, come se volesse imprimere per sempre nella sua memoria i tratti del suo viso, quelle sembianze tanto amate.
“Hai paura?” rispose infine, con un filo di voce. Un tono sommesso, dal quale già traspariva una sensazione di perdita.
“No. Ho riflettuto a lungo, sai. Ho deciso che non voglio più essere toccata da te. Ti voglio bene, ma nello stesso tempo so che le tue mani sono lorde di sangue e questo pensiero mi fa inorridire, provoca in me…”
“Anche le tue lo sono!” disse lui, adesso quasi con rabbia.
“Non si tratta dello stesso sangue” rispose la ragazza. Poi si voltò, raccolse il fucile e uscì dal fienile senza più dire una parola, senza un’ultima occhiata all’amato. Che si era trasformato in pietra.

I primi partigiani fanno il loro ingresso in città all’alba. Marciano in corteo, fieri e determinati. La gente entusiasta accompagna e applaude i liberatori. Si intonano dei canti. Qualcuno spara in aria. Una gioia genuina, contagiosa. È l’inizio della fine di un incubo durato troppo a lungo.
Il ragazzo assiste a tutto ciò con un groppo in gola. Collera, rabbia, frustrazione, senso di sconfitta. Un insieme indistinto di sentimenti gli agita l’animo fin nel profondo. Nessuno di essi riesce a prevalere. È nascosto in una soffitta che si affaccia sulla piazza. La lunga canna del suo fucile sbuca da una feritoia. Inquadra nel mirino ora uno ora l’altro degli odiati avversari. Non sa decidersi, finché non vede lei. Scorge il suo sorriso radioso, la sua felicità. Prende la mira, ma non spara.
Poi si domanda se davvero lui non abbia lottato per una causa sbagliata. Quel pensiero lo tormenta da tempo, gli toglie il respiro.
Sfila il fucile dal pertugio e lo getta a terra. Poi inizia a spogliarsi, lentamente, proprio come faceva prima di fare l’amore con lei, nel vecchio fienile. Osserva la giubba nera tra la polvere della soffitta. Ha deciso che farà l’amore un’ultima volta. Stavolta la sua compagna sarà la morte.
Il ragazzo impugna la pistola e la appoggia alla tempia.

venerdì 20 aprile 2012

LO STATO DELL'ARTE



Molti osservatori ritengono che l’attuale quadro politico italiano sia piuttosto complesso. A nostro giudizio, tale interpretazione è errata. Lo scenario si presenta più semplice di quanto possa apparire. Per arrivare a una visione più lineare, quasi banale, è però necessario sfrondare. Togliere tutto quanto è superfluo e ingannevole, lasciare posare il polverone sollevato dai soggetti politici nel loro inutile affannarsi, ed osservare ciò che resta, vale a dire poco.
Il governo Monti è in carica da sei mesi. Dopo un periodo di notevole attivismo, la sua azione sembra subire una brusca frenata. Il motivo principale è dovuto al fatto che la maggior parte dei proponimenti iniziali – tutti dettati dallo stato di emergenza e in gran misura suggeriti dalle istituzioni comunitarie - sono stati portati a termine. La valutazione sulla loro efficacia e sul loro grado di equità lascia spazio a diversi atteggiamenti. Di approvazione, di dubbio o di critica feroce. In ogni caso, al di là di tale pur decisivo aspetto, sappiamo che non rimane molto da fare, se non ultimare e rifinire ciò che è già stato intrapreso. Certo, si potrebbe intervenire sul fronte della crescita, per creare condizioni che la possano favorire. In realtà, si tratta di materia artificiosa. Il governo non può fare quasi nulla. La recessione colpisce quasi tutte le nazioni del vecchio continente, e le previsioni di crescita nel breve periodo sono decisamente negative. La crisi continua a mordere e lo farà per molto tempo ancora. Le risorse a disposizione dei Paesi sono limitate e, soprattutto, non c’è lavoro. Per timore, per cinico calcolo o per impossibilità oggettiva, nessuno investe. Non si può creare lavoro dal nulla, senza mettere mano a corposi investimenti. Le banche, stringendo sempre più i cordoni del credito, certamente non aiutano. Badano soprattutto a salvaguardare loro stesse. Senza un aumento consistente degli investimenti non ci potrà essere un’espansione dei consumi, e la produzione è destinata a calare ancora. Di contro, drammatico e inevitabile sarà l’incremento del numero di disoccupati. Puntare esclusivamente su un’ipotetica crescita per rilanciare il Paese potrebbe tuttavia rivelarsi un errore. Perché potrebbe non bastare, oppure essere impossibile da attuare. Ci sarebbe forse bisogno di pensare a nuovi schemi di sviluppo, più compatibili e solidali. È inutile accanirsi nel gonfiare l’economia, meglio trasformarla, riplasmarla. Perseguire modelli legati a una maggiore sobrietà. Propositi facili a dirsi, molto difficili da realizzare. La vita di tutti subirebbe dei mutamenti ardui da accettare, legati inevitabilmente a dolorose anche se utili rinunce.
Salvo improbabili e non auspicabili fibrillazioni politiche autunnali, l’esecutivo Monti esaurirà il suo mandato nella primavera del 2013, quando saremo chiamati alle urne. La consultazione elettorale dovrà esprimere una nuova maggioranza e un nuovo governo non più tecnico ma politico.
Supponendo che ci verremo a trovare, a quel punto, di fronte a una situazione economica del Paese ancora critica ma stabilizzata nei suoi macro fattori, ci chiediamo in quale modo il nuovo governo potrà fronteggiare gli effetti della crisi, non più quelli sul bilancio dello Stato ma quelli sulle persone, cioè sulla pelle di ognuno di noi. A risorse generali pressoché immutate, l’unica politica efficace potrà essere quella redistributiva. Per procedere in tal senso, un esecutivo ha la necessità di possedere una maggioranza ampia e omogenea, di impianto progressista e riformista. Qualcosa di molto simile alla socialdemocrazia. Una maggioranza di tal genere, storicamente, in Italia non c’è mai stata, ed è probabile che non esisterà mai. D’altra parte una redistribuzione del reddito – allo scopo di perseguire una maggiore uguaglianza tra i cittadini e di disinnescare pericolosi conflitti sociali - non può di certo essere effettuata dalla destra. In più, elemento di grande preoccupazione, gli attuali partiti sono inadeguati, appaiono sfilacciati, fiacchi, privi di idee e di una visione credibile, del tutto delegittimati. Tormentati da una mai risolta questione morale. Non è semplice ricostruire in poco tempo un sistema di partiti virtuoso. È comunque doveroso e indispensabile tentare. Una democrazia sana non può fare a meno di formazioni politiche che possano aggregare e indirizzare il consenso. Chi pensa il contrario è un qualunquista, nonché un irresponsabile. 

mercoledì 18 aprile 2012

E' PASSATA LA MUSICA




È un tormento armonico che a volte ferisce.

Una dolce e violenta cascata di suoni.

Mi raggiunge, mi inebria, mi rilassa.

La cerco, le rincorro, la godo.

È un flusso sonico, sovente inafferrabile.

Un enigma, spesso irrisolto, sempre soddisfacente.

Mi culla, mi sottomette, mi intorpidisce, languo.

È un'onda fisica, che colpisce, penetra, stordisce.

Mi sforzo di comprendere, di agguantare.

È una barriera, nebbiosa, calda, suadente.

Mi attira, mi assale, mi abbandono.

È un gioco, invitante, morbido, estatico.

Mi guida, mi rincuora, mi dà forza.

È un’immagine limpida, la tocco, sparisce, poi ritorna.

È passata la musica.

lunedì 16 aprile 2012

L'ULTIMO TABU'



Da quando l’ultimo tabù è stato sfatato, l’esistenza degli esseri umani è stata sottoposta a una profonda mutazione. Sto parlando della morte, ovviamente.
Fin dalla nascita abbiamo da sempre posseduto un’unica certezza: la consapevolezza di dover morire.  
Ora, tutto è cambiato. Sappiamo come sempre che la nostra esistenza avrà un termine ma, a differenza di prima, conosciamo anche quando. Credetemi, non si tratta di un particolare di scarso rilievo. Tale nuova cognizione ha stravolto le vite di tutti, le ha trasformate, le ha dirette verso percorsi che mai avremmo creduto possibili, ha attribuito al vivere quotidiano un significato nuovo, diverso e, in qualche modo, del tutto singolare. Nella nostra mente, in qualsiasi momento della giornata, è sempre presente l’immagine di quei numeri, riferiti ad anni, mesi e giorni, che scorrono rapidi all’indietro. Incontro alla data fatidica, e all’inevitabile fine.
D’altra parte, prima o dopo doveva accadere. Per anni gli scienziati si sono accaniti, in una corsa sfrenata e irragionevole, nel tentativo di decifrare tutti i segreti del DNA, il nostro codice genetico. Alcuni scopi erano senz’altro nobili, come il poter prevenire e curare le malattie, ad esempio. Altri un po’ meno, e alludo alla manipolazione delle particelle cromosomiche per inseguire fini oscuri o di natura esclusivamente commerciale. Un grande sforzo, un enorme impegno, favorito da un considerevole impiego di risorse. Alla fine quasi tutte le informazioni contenute nella doppia elica sono state decifrate. Naturalmente alcuni misteri continueranno a rimanere tali, forse sono al di là delle capacità di comprensione dell’uomo, enigmi della vita impossibili da svelare.
Tranne quello, il segreto del termine dell’esistenza, contenuto in un corpuscolo che mai era stato studiato in precedenza dagli uomini di scienza. In base a ciò è possibile stabilire con estrema precisione l’arco temporale di esistenza dell’intero organismo. Si tratta di una esatta segnalazione biologica, che possiede un margine di errore non superiore ai cinque minuti. Qualcosa di incredibile e di impensabile. Di straordinario e, nello stesso tempo, terribile.
Poco alla volta tutti gli esseri umani sono stati sottoposti al test, anche perché tale prova è di una semplicità sorprendente. Da qualche tempo, inoltre, l’assoggettarsi alla spaventosa predizione è stato reso obbligatorio. Sul mio documento di identità compaiono adesso due date, quella di nascita e quella di morte.
In conseguenza di tutto questo, l’intera organizzazione sociale si è modificata. Molte persone, condannate in vita dalla presenza di una data di morte troppo ravvicinata, trascinano in maniera stanca la loro esistenza, standone ai margini, e privati di qualsiasi significativa opportunità. A questi veri e propri nuovi reietti è precluso l’amore, l’occasione di avere dei figli e di trovare una qualsiasi occupazione lavorativa. Molti di loro ricorrono al suicidio: l’ultimo disperato tentativo di ingannare una morte annunciata.
Altri, invece, soccombono a un destino beffardo e crudele. È il caso del mio povero amico Arnold. Il test gli aveva predetto che sarebbe deceduto all’età di novantadue anni. Forte di tale clemente vaticinio, lo sventurato aveva ottenuto senza difficoltà un impiego prestigioso. Mentre si stava recando per la prima volta al lavoro è stato investito da un autobus ed è morto.
Come avrete intuito, la prova fornisce una esatta previsione di decesso affidandosi ad elementi unicamente scientifici. In nessun modo può tener conto di fattori aleatori oppure di comportamenti scriteriati dell’individuo.
È palese che si continuerà a morire in maniera violenta, per incidenti, per omicidio o altre cause imprevedibili. Non è possibile andare oltre il limite biologico stabilito e conosciuto, mentre esiste l’eventualità di anticiparlo.
Anch’io, come tutti, ho patito questa particolare condizione in cui siamo stati all’improvviso trascinati. Mi rendo conto che se non avessi conosciuto la data di dipartita la mia vita sarebbe stata diversa. Più lieve e spensierata e con minori affanni. L’angoscia non avrebbe accompagnato ogni giorno della mia esistenza. Quella data di scadenza impressa nei miei geni e portata alla luce mi ha impedito di essere veramente me stesso.
Con il trascorrere degli anni, tuttavia, è subentrata in me una specie di rassegnazione. Ripensandoci, ritengo di essere stato fortunato. Anche se spesso ho sofferto, ho comunque avuto molto tempo a mia disposizione per abituarmi all’idea di morire. Ho pensato tutti i giorni alla morte, anche quando sapevo che sarebbe stata ancora lontana. E adesso non ne ho più paura.
Domani tocca a me. Stringo tra le mani quella busta che mi è stata inviata tanto tempo fa. Quella con il responso. Rileggo per l’ennesima volta la data, anche se la conosco molto bene. È scolpita nella mia mente come sulla pietra, come lo sarà sulla lapide. E so che il risultato del test è infallibile.
Vi domandate se sia malato? No, vi assicuro che sono sanissimo. Trapasserò di colpo, qualche mio organo cederà all’improvviso. Favorito dalla sorte fino all’ultimo.
È quasi mezzanotte, e tra un po’ andrò a letto. Sono sicuro che riuscirò ad addormentarmi, ma non so se mi sveglierò. Forse sì. In tal caso si tratterà soltanto di aspettare.
Qualche ora, non di più. 

domenica 15 aprile 2012

L'ARMADIO



Il nostro dirigente ha appena ottenuto una promozione. Un’altra. È sempre la stessa storia: chi non merita progredisce mentre gli altri, ad esempio il sottoscritto, rimangono fermi al palo. Purtroppo è così, le ingiustizie tendono a perpetuarsi. Non c’è proprio nulla da fare.
A differenza delle altre volte, però, il comportamento del nostro responsabile è stato differente.
Dovete sapere che sto parlando di un uomo molto riservato, qualcuno dice addirittura villano, che non ama il contatto con la gente, e ancora meno con i suoi sottoposti. Che se ne sta tutto il giorno chiuso nel suo elegante ufficio a impartire direttive attraverso il telefono.
Quindi siamo rimasti tutti piuttosto sorpresi quando, di buon mattino, si è presentato nella nostra stanza. Erano trascorsi anni dall’ultima volta che l’aveva fatto.
Immediatamente abbiamo smesso di parlare, abbiamo chinato la testa e abbiamo finto di lavorare. Ma lui non ha badato a questo aspetto della nostra attività lavorativa, alludo alla eccessiva indolenza, bensì ha sorriso e annunciato che ci sarebbe stata una piccola festa. Il dirigente è un uomo di alta statura, rigido nei movimenti, con una gran testa. Mi riferisco alle dimensioni del cranio, ovviamente. I suoi pochi e sottili capelli, dall’attaccatura arretrata sulla fronte ampia, sono sempre arruffati e bisognosi di pettine.
Ha comunicato che ci sarebbe stato un rinfresco per festeggiare il suo ulteriore avanzamento di carriera. Rilassati ma non troppo, io e i miei colleghi ci siamo alzati dalle scrivanie e lo abbiamo attorniato. Io gli ho stretto la mano senza dire nulla, e mi sono sentito alquanto stupido. La mia collega Mary, più espansiva, ha pronunciato ingarbugliate parole di congratulazione e poi lo ha baciato sulle guance. Lui dapprima si è ritratto, poi si è sottomesso a quella inaspettata violenza anche se è arrossito come un peperone. Di quelli rossi, naturalmente.
Subito dopo, a sorpresa, sono entrati due camerieri. Li abbiamo riconosciuti come tali perché indossavano una giacca uguale, di un tremendo colore giallognolo. Con gesti svelti e precisi hanno steso una tovaglia di carta sul nostro inutilizzato e impolverato tavolo per riunioni.
Al loro successivo ingresso hanno portato le bevande: acqua naturale, acqua gassata e… acqua lievemente frizzante. C’è stato un generale sospiro di delusione. D’altra parte, si sa che non è consentito bere alcolici durante l’orario di lavoro. Tuttavia avremmo gradito volentieri un’eccezione alla regola, anche se era mattino. Poi è arrivato il primo vassoio, non tanto grande, per la verità. Conteneva dei pasticcini di svariati colori, troppi colori, e perciò non molto invitanti. Ne abbiamo consumato uno a testa, cercando di masticare in silenzio e facendo bene attenzione a non spandere crema su giacche, cravatte e camicette. Lui non ha mangiato. Poi i camerieri sono di nuovo usciti e hanno fatto ritorno dopo alcuni secondi con un piccolo vassoio di pizzette e salatini. Io e i miei colleghi abbiamo scambiato uno sguardo obliquo. Perché servire le paste salate dopo quelle dolci? Un vero e proprio orrore alimentare. Ci siamo domandato, stando muti, se quel deficiente l’avesse fatto apposta. Se la sua intenzione fosse la solita, cioè quella di umiliarci. Non pareva così. Il dirigente ha continuato a dispensare sorrisi. Mi ha invitato a prendere un secondo salatino, raccomandandomi di scegliere quello con le alici piccanti, un’autentica delizia, a suo dire. Vincendo la nausea e i conati di vomito, l’ho accontentato. Come prima, lui non ha consumato nulla. A un tratto ha avvicinato alle labbra il bicchiere di plastica pieno a metà di acqua naturale, ma non ha bevuto. Nessuno se n’è accorto, tranne me.
Poi, all’improvviso, ha detto che la festa era finita. Ha aggiunto che per noi ci sarebbe stata ancora un’ultima sorpresa. Aveva deciso di farci un regalo. Qualcosa di utile, ha precisato.
La porta dell’ufficio si è spalancata di colpo, e due facchini sudati hanno trascinato all’interno un grosso armadio. Badate bene, non un mobile da ufficio, di quelli in lamiera sottile e con i battenti di vetro. No, si trattava invece di un ingombrante armadio di legno, usato ma di certo non un pezzo di antiquariato. Enorme, marrone scuro, cupo e opprimente.
Il dirigente ha impartito comando ai due uomini di collocare l’armadio accanto alla mia scrivania. Loro hanno risposto con un grugnito e hanno eseguito. Il grosso mobile ha ostruito per metà la finestra, l’unica presente nel locale. Non ho osato esprimere rimostranze. Nessuno ne ha avuto il coraggio. Qualcuno, forse quel cretino di Pino, deve pure aver ringraziato. Ci siamo guardati in faccia, depressi e allibiti.
Quando ci siamo voltati, il dirigente non c’era più.

Da allora è trascorso un po’ di tempo. Da quando sono costretto a convivere con quel catafalco al mio fianco, voglio dire. La luce sul mio piano di lavoro è scarsa. Non ci vedo bene, e sono stato obbligato a procurarmi un nuovo paio di occhiali. Nessuno di noi ha mai aperto l’armadio. Non ne abbiamo mai avuto il coraggio. E non sappiamo se dentro ci sia qualcosa. Né lo abbiamo utilizzato per riporre le nostre pratiche. In verità ne abbiamo paura. Io ne sono terrorizzato. Perché di quell’uomo, del nostro dirigente, non mi sono mai fidato.

sabato 14 aprile 2012

PULIZIA!



È diventata la Terrona, la Puttana.
Prima è stata processata in piazza, di fronte a una folla di militanti assetati di giustizia sommaria. Attivisti della Lega che urlavano insulti e brandivano ridicole scope, insulso simbolo di un falso lindore.
L’hanno definita la Nera, la Fattucchiera. È stata gentilmente invitata ad andarsene fuori dai coglioni.
Dopo è stata giudicata dal Consiglio Federale del proprio partito, riunito nel casermone di via Bellerio. La sentenza era già scritta: colpevole. E così è stato, Rosi Mauro è stata espulsa. La sua colpa più grave non è da ricondursi ai loschi maneggi con i fondi del movimento, e neppure al suo ambiguo ruolo di responsabile del Sindacato Padano, un’organizzazione che non esiste, bensì alla disobbedienza. La Mauro si è rifiutata di dimettersi dall’incarico di vicepresidente del Senato. Un ordine impartito direttamente dal Capo, l’adorato Umberto Bossi, che invece il passo delle dimissioni lo aveva affrontato.
Rimarrà per tutti la Badante, il Capro Espiatorio, e non avrà più alcun futuro politico.
Intendiamoci, Rosi Mauro è un personaggio equivoco. Di minimo spessore culturale, incompetente e del tutto inadeguata all’importante incarico che ricopre. Le sue dimissioni, più che un atto di obbedienza nei confronti del partito, dovrebbero essere un atto di decenza rivolto a tutti i cittadini.
Analoga sorte, la messa al bando, è toccata all’altro protagonista delle malversazioni, il fosco tesoriere Belsito, guarda caso pure lui di origini meridionali. Pulizia etnica, innanzitutto.
E pulizia continua a invocare il sornione e doppio Maroni, buon ministro e pessimo dirigente politico, intendendo in realtà epurazioni e regolamenti di conti. Alla fine trionferà lui, e si prenderà ciò che rimane della Lega. A quel punto tutta la polvere sarà stata nascosta sotto al tappeto.
Il vecchio Bossi è finito. Ha fallito, ha perso. Il suo partito-famiglia, nonostante l’alleanza con il partito-azienda di Berlusconi, in tanti anni di governo non è riuscito a realizzare nessuno dei suoi progetti. Il federalismo non c’è, le tasse per i cittadini dell’immaginaria Padania sono aumentate sempre di più. E il suo è stato anche un fallimento personale. Si è dovuto dimettere, ha invocato assurdi complotti; ha dovuto ammettere, a sua discolpa, di essere stato raggirato da alcuni fedelissimi che lui stesso aveva selezionato. É apparso sfinito nel fisico e confuso nelle idee. Un’icona stanca e patetica, fatalmente  imbalsamata nel passato. Tenuto in vita soltanto dai ricordi dei vecchi militanti, quelli più ostinati e più fanatici. Quelli più ottusi e ignoranti. Al vecchio Bossi è stata fatta solo una concessione: quella di salvare il figlio, lo stolto giovane detto Trota, dalla vergogna della radiazione.  
E infine i dirigenti, quelli dentro e quelli fuori dal famigerato Cerchio Magico. Possibile che nessuno di loro sapesse? È credibile che i Calderoli, i Castelli, i Reguzzoni e i Bricolo non conoscessero davvero nulla?  Che non avessero nemmeno intuito qualcosa? Gli intrighi erano talmente tanti e vistosi da rendere inverosimile tale ipotesi. Se invece così fosse, ci troveremmo di fronte non a esponenti politici di primo piano (alcuni di loro addirittura ex-ministri) ma a stupidi patentati.
E il famoso Popolo del Nord? Ingannato, preso a schiaffi, ridicolizzato da una banda di delinquenti con il culto degli agi e del denaro, e non del dio Po. 

martedì 10 aprile 2012

CAMPAGNA ACQUISTI



Tempi duri per il magnate di Arcore!
Silvio Berlusconi, finalmente non più gravato dai fastidiosi impegni di governo, ha deciso di dedicarsi a tempo pieno alle sue grandi passioni. Riguardo alla principale, che tutti gli italiani hanno imparato a conoscere molto bene, è preferibile non aggiungere nulla. Un immenso velo pietoso sia steso su feste, festini e veline, su viagra e cocaina, su escort e minorenni, su false fidanzate e presunte nipoti di decaduti leader stranieri. Su corruzione e concussione.
Concentriamoci invece su quei trastulli, per così dire residuali, del Cavaliere con la macchia. E cioè (in rigoroso ordine di importanza) il calcio e la politica.
La squadra del Diavolo, presieduta di nuovo come un tempo dal Nostro ma affidata, per la gestione amministrativa e per le polemiche extra-calcistiche, all’ineffabile Adriano Galliani alias Zio Fester, non sta andando per niente bene. Dopo un buon avvio di stagione, i rossoneri sono entrati in crisi proprio sul più bello. In rapida quanto desolante (per i tifosi di parte) successione sono stati prima eliminati dalla più prestigiosa competizione calcistica continentale e poi hanno perso, a vantaggio dei bianconeri torinesi, il primato in classifica nel campionato nazionale. Davvero un gran brutto momento, insomma, che ha fatto innervosire il satiro e fatto infuriare il pelato Amministratore Delegato, il quale ha immediatamente gridato al complotto arbitrale (omologo del complotto delle Procure di recente memoria). La colpa delle sventure calcistiche milaniste non è dunque da addebitare all’allenatore (il bell’Allegri – cfr. Berlusconi) né ai numerosi e ripetuti infortuni che hanno colpito i giocatori durante l’anno e ancora meno alla sbiadita campagna-acquisti estiva. No, il vero problema è che gli arbitri non ci vedono bene (arbitro occhiali! – cfr. campetti di periferia). Ciò non avviene sempre, badate bene, ma solamente quando si tratta di ignorare i palloni calciati dai pedatori rossoneri e finiti ben oltre la linea di porta. D’altra parte, trattandosi di congiura, è conseguente che l’atteggiamento dei direttori di gara sia tale…
Anche sul fronte politico per il povero Berlusconi non ci sono buone nuove. Il suo delfino (delfino, e non Trota) Alfano si agita e strepita ma non decolla. In pratica, all’interno del Popolo della Libertà nessuno gli dà retta neppure di striscio. Certo, il gelido Mario Monti è riuscito addirittura nell’impresa di oscurare e far cadere nell’oblio una grande figura di statista quale è stato appunto l’arcoriano (cfr. Star Trek?). E poi, in quale modo potrebbe mai riuscire a dare maggiore visibilità a se stesso e alla sua forza politica un personaggio palliduccio come Angelino? Il ragazzo, tra l’altro, possiede un grave difetto: non frequenta escort (purtroppo non ne ha il tempo).  Niente da fare neanche sul fronte del gossip! Meschino!
Come cercare di porre rimedio, quindi, a una tale sciagurata contingenza generale? È piuttosto difficile che Berlusconi sia disposto ad accettare consigli (preferisce dispensarli); in ogni caso proviamo ugualmente a fornire qualche suggerimento.
Riguardo al Milan, per la stagione in corso purtroppo non c’è più nulla da fare. Tutto è ormai compromesso. Sicuro, parola di juventino. In vista del prossimo anno sarà indispensabile l’acquisto di almeno un calciatore giovane e di talento, meglio se un attaccante, da affiancare allo svogliato Ibra e a Robinho, il sambista inutile. Mario Balotelli? E perché no? Stiamo parlando di un autentico genio del pallone, nonché di un ragazzo serio e affidabile, senza tanti grilli per la testa.
Sul partito, invece, si può intervenire anche subito. Sempre facendo ricorso al mercato, naturalmente. Si vocifera che un atleta (pardon, politico) di spicco sia in vendita. D’accordo, tutti gli esponenti politici sono di continuo in vendita, ma in questo caso particolare si tratta di un vero e proprio affare. Questo giocatore (pardon, politico) negli ultimi tempi non ha trovato spazio nella compagine di appartenenza, mentre è stato titolare fisso in nazionale per oltre tre anni e mezzo. Il suo ruolo è quello di… Interno di centro-destra, e il suo nome è Roberto Maroni, Bobo per i suoi tifosi…

lunedì 9 aprile 2012

GIORNO DI MARZO



Esco da scuola abbastanza soddisfatto, in un luminoso giorno di marzo.
E tre! La mia prestazione è stata buona. Anzi, ottima. Tre volte, come non mi riusciva da tanto tempo. Perché spesso mi capita di tornare a casa sconfitto e frustrato, con un nulla di fatto al mio attivo.
Invece, oggi sono riuscito a rivolgere la parola a Giuseppina per ben tre volte!
Alla prima ora era in programma l’interrogazione di latino. Appena entrato in aula ho respirato profondamente e mi sono fatto coraggio, ho cercato di sfruttare quel momento di attenuata consapevolezza che deriva dai sensi ancora appannati e intorpiditi dal sonno. Mi sono avvicinato a lei, a quella ragazza che mi piace tanto, e le ho parlato.
“Sei preparata? Hai studiato tutto?” ho detto con voce tremante.
Si tratta sempre della stessa domanda, ben collaudata, che mi permette di realizzare con facilità il primo punto. La risposta di Giuseppina di solito è ovvia, scontata. Senza guardarmi dice di sì, poi rituffa gli occhi tra le pagine del libro, per un ultimo inutile ripasso.
Questa mattina, al contrario, non ha distolto lo sguardo.
“Ieri non ho potuto studiare” ha detto.
“Perché?” chiedo. Trattengo a stento un gesto di esultanza. Ho già messo a segno il secondo punto e non sono ancora le otto.
“Ero indisposta, ecco perché” ha risposto lei.
Il mio imbarazzo è stato notevole. Conosco perfettamente il significato di quella parola. A  quel punto avrei potuto insistere, fare un’altra domanda, rimpinguare il punteggio, ma non ho osato. E se Giuseppina avesse dettagliato le cause di quel suo incomodo? Se avesse iniziato a parlare di dolori mestruali o roba del genere? Sarei sprofondato dalla vergogna. Sicuro. Allora sono andato a sedermi al mio posto, e proprio in quell’attimo ho udito il suono della campanella.
Il professore di latino doveva aver trascorso una pessima nottata. Si è presentato con i capelli arruffati, grigio in volto. Non ha salutato, si è seduto alla cattedra e subito ha aperto il registro. Ha scorso più volte i nostri nomi. Neanche per un istante ho pensato che avrei potuto essere interrogato. Ero sereno, e infatti non sono stato chiamato. Avevo però un brutto presentimento, che alcuni secondi dopo si è puntualmente avverato. Il professore, con la sua voce bassa, catarrosa, ha chiamato lei.
Giuseppina non ha battuto ciglio, né ha addotto alcuna giustificazione. Si è alzata e si è diretta, stoica, verso la cattedra, incontro al suo carnefice. Soltanto io, credo, ho notato il pallore diffuso sul suo bel viso.
L’interrogazione è andata come doveva andare, cioè male. Giuseppina non ha risposta a nessuna delle domande. Ha preso un brutto voto e ha trattenuto a stento le lacrime. Non sono stato capace di aiutarla, anche se io sto seduto al primo banco. Lei ha sempre tenuto gli occhi bassi, non ha mai guardato nella mia direzione, non sono mai riuscito a incrociare il suo sguardo. Altrimenti avrei potuto suggerirle qualche risposta. Forse, dal momento che anch’io non avevo studiato, anche se per me è una cosa insolita. E poi, avrei avuto il coraggio di farlo? L’audacia mi difetta un po’ e il professore di latino è davvero una brutta bestia.
Ero depresso e spiaciuto per Giuseppina quando il bidello ha fatto irruzione in aula, senza bussare. In un primo momento, nessuno di noi ha compreso ciò che stava accadendo. Abbiamo soltanto percepito una grande tensione nell’aria. Il bidello ha sussurrato qualche parola al professore che prima si è irrigidito e poi ha annuito con enfasi. Poi si è rivolto a noi, che eravamo tutti in attesa di sapere qualcosa.
“Un commando di terroristi ha rapito Aldo Moro. Uscite dalla classe e andate nell’atrio. Ci sarà un’assemblea con il preside.”
Il professore raccoglie la borsa ed esce. Rispetto a un’ora prima sembra invecchiato di dieci anni.
Dopo un primo attimo di puro sbigottimento, ci alziamo e usciamo dall’aula. Con gli occhi cerco Giuseppina ma, nella gran confusione, non riesco a scorgerla. Mi trovo accanto a Rina e Adriana. Stanno parlando tra loro, come fanno sempre, e sembrano contente. Ridono ed esultano. Insomma, quella notizia le ha rese contente. Con Rina e Adriana non ho problemi. Non c’è bisogno di ricorrere a conteggi e punteggi, non devo stare a meditare per mezz’ora prima di rivolgere loro la parola. Entrambe le ragazze sono politicamente molto impegnate e militano in organizzazioni di estrema sinistra. Extraparlamentari, come amano definirle loro. Portano sempre in classe giornali come Lotta Continua e Il Quotidiano dei lavoratori, oppure fogli ciclostilati di dubbia provenienza.
Rina ha un ovale del viso perfetto, la carnagione olivastra, i capelli neri, lunghi e lisci. Sembra una squaw indiana. Ai miei compagni non piace perché ha il corpo un po’ troppo robusto, e soprattutto perché la sua lingua è molto tagliente, da convinta femminista. Adriana va a rimorchio dell’amica del cuore. Lei è piccolina di statura, con la pelle bianca, i capelli castani dal taglio corto. Non è bella, perché i tratti del suo volto sono un po’ grossolani, non ben rifiniti. Però è vivace e simpatica. Sia lei che Rina vestono sempre con pesanti maglioni senza forma e jeans che mai hanno conosciuto la lavatrice.
Una volta le due simpaticone mi hanno giocato un brutto tiro. Mi hanno costretto a intervenire durante un consiglio di classe per dire che i professori sono degli incapaci, che i programmi adottati sono vecchi e inutili. In breve, che l’organizzazione scolastica fa schifo. Gli insegnanti, increduli, mi hanno considerato un traditore. Da me una cosa del genere proprio non se l’aspettavano. Credo ne abbiamo parlato anche con i miei genitori. Ho trascorso tempi difficili. Però, in fondo, mi sono anche divertito. Grazie alle mie due strambe compagne ho acquisito una maggiore sicurezza in me stesso, perché sono riuscito a mettere in discussione il sistema, ho contribuito a sostenere il loro perpetuo obiettivo.
Arriviamo nell’atrio, dove regna un disordine indescrivibile. Il preside parla, ma nessuno lo ascolta.
“Aldo Moro è un ladro e un corrotto!” esclama Adriana con rabbia. Bella scoperta! Si sa che tutti i politici democristiani lo sono.
“Quel porco è ricco e potente. La sua famiglia possiede mezza Puglia! Sono sporchi latifondisti!” rinforza Rina. Poi si dirige al centro dell’assemblea. Strappa il megafono e ribadisci di fronte a tutti, compreso l’attonito preside, i suoi concetti.
“I terroristi hanno fatto bene a rapirlo. Avrà la giusta punizione!” grida, ormai invasata.
Il preside, rosso in volto, la blocca. Minaccia di chiamare i carabinieri e di denunciarla. Parla di apologia di reato. Non so bene che cosa significhi, ma deve essere qualcosa di grave. Rina, stizzita, si allontana imprecando, seguita da Adriana. Ho l’impressione che passerà dei guai, e mi dispiace.
Finalmente vedo Giuseppina, proprio di fronte a me.
“Che cosa sta succedendo?” domanda, forse rivolta a me, forse solo a se stessa.
“Non lo so” le rispondo e, mentalmente, annoto il terzo punto della giornata.
Baccano, urla, caos. Non ne posso più, ho un forte mal di testa.
Esco dall’istituto e decido di tornare a casa. A piedi, per smaltire la tensione. Sono confuso.
Cammino e cammino, perso nei miei pensieri. Penso a Giuseppina, ai tre punti ottenuti, buon risultato, alla incosciente temerarietà di Rina. Penso ad Aldo Moro nelle mani dei terroristi. Una cosa incredibile, inaudita. Non riesco a capire quanto davvero mi dispiaccia. E ciò mi turba.
Arrivo finalmente a casa. Vedo mia madre incollata al televisore acceso. Apprendo che i cinque uomini della scorta di Moro sono stati barbaramente trucidati. Non lo sapevo. Impietrisco. Perché il preside non ce l’ha detto? Oppure, perché non abbiamo ascoltato ciò che voleva dire?
Tutto cambia. 

venerdì 6 aprile 2012

GIU' AL NORD



Il tonfo è stato udito in tutta la ricca pianura. E tra le montagne. È crollato l’idolo, il totem, il feticcio. Il capo, il fiero condottiero, il comandante, la guida. Il velo verde si è squarciato. La sempre proclamata diversità si è trasformata in misera conformità. Tutti uguali, nel peggio, nella drammatica mancanza di ogni etica. Nella rincorsa al denaro, al facile arricchimento. Un conformismo triste, che non lascia speranza.
E i delfini, dietro ai sorrisi artificiali, ai falsi cordogli, riprendono a tessere le loro trame di potere. Triumviri da operetta. Le trote ottuse sono diventate famelici squali. Maturi nullafacenti, generati dai virili lombi del generale, avidi dissipatori. Amici ipocriti, collaboratori fraudolenti. Il sole delle Alpi con i suoi raggi ingannatori. E i commedianti, raccolti in cerchio e ingrassati nei pascoli romani. Tutti sapevano e nessuno sapeva. Il tesoriere ladro. E il duce padano geme, borbotta, sbava, crolla e si ribella. I complotti delle procure, evocazione del nulla, infelice raffigurazione di una malinconica deriva.   La malattia, la sofferenza. Di colpo tutto è realtà virtuale, finta, un immenso spettacolo in onore del leader. Dove trionfano la menzogna, la truffa e il raggiro. L’infelice capopopolo è manipolato, piegato agli interessi personali, buggerato. Ridotto a ridicola macchietta a sua insaputa. E sono sempre loro, i compagni, le consorti, gli amati e sfrontati pargoli, le astute e spietate badanti nero crinite. Sono loro gli artefici della caduta, i barbari cupidi e smaniosi, tutt’altro che sognanti.  E poi i simboli, gli emblemi, le sciocche allegorie. Spadoni di cartapesta, elmi cornuti, scudi e ampolle. Acque magiche. Cerimonie da farsa. E il linguaggio duro, sprezzante, tracotante, pervaso da razzismo talmente esibito da apparire falso, costruito. Come tutto il resto. Come gli insulti, le ingiurie, gli oltraggi e le offese. Il ripetuto e impunito vilipendio. Le sbruffonate, le guasconate, le spacconate. E smargiassate e vanterie, fucili, baionette e uomini pronti al sacrificio. Il sindacato padano che non c’é. Le automobili, gli immobili. Ma anche le spese del dentista, del chirurgo plastico, del muratore e dell’idraulico. I diplomi comprati, le scuole private. Simbologia e magia, tutto insieme, con le corse ciclistiche e i tornei di calcio, le gite sul battello. E i sospetti ed oscuri legami con gente criminale, il patto di ferro con il satiro di Arcore. I danni, la devastazione di un intero Paese. Mafiosi e camorristi in salvo, sprofondati beati sui rossi scranni del Parlamento. La supina complicità nell’attestare, senza vergogna, senza alcun pudore, di giovani e procaci nipoti di sovrani egizi. La reincarnazione di Alberto da Giussano brontola e bofonchia, agita il dito medio e il sigaro spento. Il sigaro e il dito, sbiadita rievocazione fallica di un celodurismo ormai scomparso, di una vigorosa e ostentata fisicità che è ormai lontano ricordo. Ma lui non si rassegna, anche se ormai è un vinto. Sconfitto dalla vita, dalle azioni svolte ma ancora di più da quelle non compiute, la gran parte. Promesse e illusioni tante, tutte vane.  Ormai il vecchio e patetico guerriero è storia, è cronaca recente e passata, non presente e mai più futura, è miserabile narrazione di un tempo che è stato.
È rimasto un popolo tradito, un popolo orfano e incredulo e sbigottito ora come sempre in passato è stato convinto e fiducioso. Nelle virtù del Capo, nelle sue idee e nei suoi sconsiderati ideali, nei sogni che invece non si realizzeranno mai.
Tutto è franato, tutto si è dissolto o si dissolverà. Nulla sarà come prima.
L’edificio sarà ricostruito, ma sarà diverso. Un’altra casa. Un’altra cosa.

giovedì 5 aprile 2012

L'ASSALTO



Sostavano di fronte al grande palazzo fin dal mattino presto. Ed erano in tanti. I dimostranti per lunghi momenti stavano quieti. Poi, all’improvviso, cominciavano a urlare slogan. Voci rabbiose, cariche di rancore e di collera repressa. Dopo, di nuovo il silenzio.
I due vigili urbani, in piedi fuori dal portone, scambiarono tra loro uno sguardo preoccupato.
“Chi sono?” domandò il primo.
“Disoccupati” rispose l’altro.
“Di nuovo? Che vogliono?”
“Sempre la stessa cosa: lavoro.”
Di colpo la folla si animò. Un segnale impercettibile, e quella disperata moltitudine si gettò in avanti. Compatta, temibile.
Gli uomini di guardia se ne resero conto con un attimo di ritardo.
“Indietro!” urlò il primo.
“Chiudiamo il portone, presto!” riuscì a dire l’altro. Fu il caos. Grida, urti, spintoni.
A fatica, i vigili riuscirono a serrare il pesante portale. Alcuni contestatori, tuttavia, poterono penetrare all’interno del cortile. Erano tre, e cercarono di dirigersi verso l’ingresso degli uffici. In mano tenevano bastoni e spranghe di ferro. I tratti dei loro volti erano alterati. Facevano davvero paura.
Con gran sangue freddo, consapevoli della situazione di grave pericolo, i due vigili estrassero le  pistole. Svuotarono i caricatori sui malcapitati che, abbattuti in corsa, stramazzarono pesantemente a terra senza solo un lamento.
“Che cosa sta succedendo?” chiese il comandante, accorrendo, allarmato dal rumore degli spari. Vide i tre uomini bocconi sul lastricato, le armi ancora fumanti dei suoi sottoposti, e non ebbe bisogno di chiedere ulteriori spiegazioni.
“Siamo stati attaccati…” sussurrò il primo vigile.
Il comandante gli fece cenno di tacere.
“Radunate tutti gli altri, presto!” ordinò.
Ben presto accorsero tutti gli uomini in servizio. Una decina. Il comandante si rivolse a due di loro.
“Voi due, venite con me!”
Li portò nel suo ufficio. Da un cassetto della scrivania prese una chiave, con la quale aprì un armadietto di metallo. Estrasse due fucili di precisione e li diede ai due sbigottiti vigili.
“Andate sulla balconata. E sparate” disse.
“Non li abbiamo mai usati…”
“Non preoccupatevi, è sufficiente prendere la mira e premere il grilletto.”
I due giovani vigili annuirono e si allontanarono di corsa, in direzione dello scalone monumentale che conduceva alla balconata che si affacciava sulla piazza.
Il comandante ritornò in cortile, dove lo aspettavano tutti gli altri uomini.
“Tu! Vai dal sindaco e non perderlo mai di vista. Da questo momento è sotto la tua protezione, intesi?”
“Sì, comandante.”
Si udivano forti colpi provenire dal portone. E strepiti incomprensibili, belluini.
“Stanno cercando di sfondarlo” disse un anziano vigile.
“Non ci riusciranno mai” lo tranquillizzò il comandante.
“E i dipendenti?” domandò un altro.
“Dite loro di non uscire dagli uffici. Quanti sono?”
“Ormai sono rimasti in pochi. Sono stati quasi tutti licenziati e alcuni di quelli destituiti sono tra la folla.”
“Già, sono rimasti in pochi. Meglio così” disse il comandante. “Almeno non dovremo preoccuparci di loro più di tanto.”
Trafelata piombò in mezzo al gruppo una corpulenta vigilessa.
“Comandante! Non è possibile ricevere rinforzi! Sono sotto attacco molte altre sedi istituzionali, commissariati e…”
Il comandante si incupì.
“Grazie, Eleonora” disse.
“Che facciamo?” domandarono quasi in coro due vigili. Erano pallidi in volto, quasi cerei.
“Tenteremo di resistere.”
Colpi di fucile, in rapida successione. Provenienti dalla balconata.
“I nostri, di sopra, si stanno dando da fare” disse un’altra vigilessa, compiaciuta.
“È tutto inutile!” gridò un uomo che stava osservando la piazza attraverso uno spioncino. “Stanno sparando a vuoto! Gli assalitori si sono rifugiati tutti sotto il porticato. Sono al riparo.”
Sul viso del comandante prese forma una smorfia di disappunto.
Proprio in quell’istante, in fondo al cortile, si materializzò una figura. Alta, magra, dinoccolata. L’uomo impugnava una pistola e avanzava lentamente. Accanto a lui zampettava un giovane vigile urbano, che appariva sconsolato.
“Signor sindaco!” esclamò il comandante, stupito da quell’apparizione.
Il sindaco si fermò vicino a uno dei cadaveri. Con il piede lo rivoltò sulla schiena e lo osservò con disgusto.
“Mi spiace, signor sindaco, ma non abbiamo potuto fare a meno di…” tentò di giustificarsi il comandante.
Il sindaco sollevò il capo e lo guardò. Poi riprese a camminare.
“Ben fatto, comandante. Ben fatto” mormorò.
“Signor sindaco, lei non può stare qui. È pericoloso. Deve tornare subito nel suo ufficio!”
Il giovane vigile, che seguiva come un’ombra il primo cittadino, scrollò le spalle in segno di impotenza. La sua fondina era slacciata e vuota.
“Comandante! I manifestanti stanno lanciando delle bottiglie incendiarie!” disse la vigilessa grassa.
“Cristo!” strepitò l’ufficiale. Poi tornò a rivolgersi al sindaco.
“La prego! Torni in ufficio, così potremo proteggerla meglio!”
Il sindaco si accostò al comandante del corpo di guardia. Lo superava in statura di almeno venti centimetri, anche se il suo corpo era molto più esile.
“Non ho nessuna intenzione di fare la fine del topo in trappola. Dobbiamo uscire dal palazzo al più presto e rifugiarci in Prefettura” spiegò il sindaco.
“Ma…”
“Da questo momento assumo personalmente il comando delle operazioni” aggiunse il primo cittadino, che appariva estremamente determinato.
“E i dipendenti?” osò domandare un vigile.
“I dipendenti? Se la caveranno…” rispose il sindaco. “In quanto a noi, appena radunati tutti gli uomini apriremo il portone e ci faremo strada tra i disoccupati sparando. Non mi risulta che loro siano armati” aggiunse.
“Be’… dispongono di corpi contundenti…” disse un vigile, intimorito.
“E lei ha un’arma da fuoco!” lo zittì il sindaco. Anche il comandante indirizzò un’occhiata di rimprovero al suo pavido sottoposto.
Quando tutti furono pronti, fu aperto il grande portone.
Fuori, la folla si era ormai trasformata in una moltitudine. Una vera e propria muraglia umana. I primi tre vigili furono infilzati da rudimentali baionette. Il comandante fu aggredito a morsi. Sul sindaco, che sparava all’impazzata, fu gettata una rete. Si dibatté a lungo, ma pareva un grosso ragno imprigionato nella sua stessa ragnatela.
Dopo pochi minuti calò il silenzio.
I dimostranti entrarono nel palazzo e subito si sparpagliarono nei diversi piani. L’ordine era quello di trucidare tutti i dipendenti. Gli unici che avevano ancora un lavoro.
Anche se per poco tempo ancora.