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venerdì 30 marzo 2012

IL FIGLIO DEL CACCIATORE



“Mio padre è stato ucciso da una lepre.”
Quelle parole le aveva pronunciate un ragazzo, alcuni minuti prima. Avevo appena iniziato a parlare con lui e, subito dopo, a causa dell’enorme confusione, lo avevo perso di vista.
Tuttavia ero stato molto colpito da quella frase, e da quello strano giovane. Quando lo avevo incontrato stava marciando alla testa del corteo, ed era accompagnato da un vecchio segugio che teneva al guinzaglio. Tra le mani il ragazzo stringeva un cartello, sul quale era scritto uno dei  vari slogan utilizzati durante quella manifestazione di protesta. Una delle tante che si svolgevano in quei giorni, tutte contro la caccia.
Lo cercai a lungo, cercando di scorgerlo tra la folla che ormai si stava disperdendo, finché lo ritrovai. La mia era una curiosità soprattutto professionale, poiché di mestiere faccio il giornalista per una piccola testata locale, ma anche umana. Non riuscivo a scacciare quelle sue parole dalla mente e volevo saperne di più. Non necessariamente per scrivere un articolo, ma anzitutto per soddisfare la mia innata curiosità.
Attirai la sua attenzione e gli feci cenno di fermarsi. Gli spiegai che era mia intenzione concludere il discorso che avevamo iniziato e non ultimato. Gli proposi di sederci un attimo in un bar, dove avremmo potuto dissetarci e parlare in tutta tranquillità. Alla fine, forse per via della mia insistenza, accettò. Raggiungemmo una piazzetta e ci accomodammo a un tavolino all’aperto. Era tardo pomeriggio ma faceva ancora molto caldo.
Il ragazzo, per prima cosa, chiese al cameriere una ciotola d’acqua per il suo cane. L’animale, come avevo notato in precedenza, era piuttosto anziano e sembrava sofferente. Bevve a lungo, lappando con ingordigia, poi si accucciò sotto il tavolo, all’ombra. Si addormentò subito.
“Come si chiama?” domandai.
“Saetta” rispose il ragazzo, guardando con affetto il vecchio segugio.
“Era uno dei cani di mio padre” aggiunse. Nel pronunciare quelle parole, la sua espressione mutò, e divenne triste.
“Lui quel giorno non c’era. Mio padre non lo aveva portato con sé. Di solito lo faceva sempre” disse ancora il giovane.
Intervenni.
“Ascolta, non sono sicuro di avere ben compreso, prima. È vero che tuo padre è stato ucciso da una lepre?”
Lui si limitò ad annuire.
“Ti andrebbe di raccontarmi tutta la storia?” chiesi.
“Tu sei un giornalista.”
“È vero, ma ti prometto che non scriverò nulla, se tu non lo desideri” lo rassicurai.
Scosse energicamente il capo.
“Perché mai? È giusto che la gente sappia. Se la mia storia può servire per sensibilizzare le coscienze delle persone non ti devi fare eccessivi scrupoli, utilizzala pure.”
Lo invitai a proseguire. Lui accarezzò a lungo Saetta che, destandosi per un attimo, mugolò di piacere, poi iniziò a raccontare. Con voce piatta, quasi impersonale.
“Allora ero un bambino, ma i miei ricordi sono tuttora molto nitidi. Mio padre era un cacciatore, aveva ereditato da mio nonno quella passione, e quasi non passava giorno senza che lui la praticasse. Nel periodo in cui la caccia era consentita, naturalmente, poiché mio padre era un uomo rispettoso delle regole. Quella mattina uscì prima dell’alba, io e mia madre stavamo ancora dormendo. Il giorno prima aveva scovato la tana di una grossa lepre e così decise di tornare in quel posto per darle la caccia. Probabilmente la considerava una preda facile, e forse fu questo il motivo per cui non portò con sé i cani.”
“I cani?”
“Sì. Oltre a Saetta mio padre possedeva un altro segugio addestrato per la caccia alla lepre, Buck.”
“E Buck è…”
“Sì, è morto già da qualche anno.”
“Continua, ti prego.”
Il ragazzo portò alle labbra il bicchiere, bevve una sorsata della sua bibita e poi proseguì.
“La mattinata era ormai trascorsa, ma mio padre non aveva ancora fatto ritorno. Mia madre cominciò a preoccuparsi, si fece inquieta. Lui tornava sempre per pranzo. Non quel giorno, perché non tornò più. Mai più.”
“Che cosa accadde?” domandai.
“Venne da noi un uomo, un vecchio. Noi non lo conoscevamo, non lo avevamo mai visto prima e non lo vedemmo più in seguito.”
“Che cosa vi disse?”
“Ci disse che aveva trovato nostro padre riverso nella brughiera, privo di vita.”
“Si era sentito male?”
Il giovane ignorò la mia domanda.
“Ci disse anche qualcos’altro.”
“Che cosa?” Faticavo a trattenere la mia impazienza.
“Ci disse che lui aveva visto tutto. Mio padre aveva affrontato la lepre ed era stato ucciso.”
“È un’assurdità! Non dirmi che gli avete creduto! Com’è possibile che una lepre possa uccidere un uomo?”
“Io non ebbi dubbi. Il vecchio aveva detto la verità.”
Ero incredulo. Quel ragazzo mi stava forse prendendo in giro?
“E in che modo lo avrebbe ucciso?” domandai, un po’ stizzito.
“Per ammazzare quelle povere bestie indifese noi esseri umani utilizziamo i fucili.”
“Cosa intendi dire?”
“Non possiamo sapere di quali risorse dispongano loro. Quindi non so dirti che cosa fece esattamente la lepre. In ogni caso il cuore di mio padre si era fermato. Lei era riuscita a ucciderlo.”
“Si trattò di sicuro di una morte per cause naturali” dissi.
“No, la lepre si difese e riuscì a prevalere. Tutto qua. Il vecchio aveva assistito alla scena.”
Sbuffai.
“Ti rendi conto che la tua storia è del tutto insensata? E tua madre? Cosa disse tua madre? Anche lei pensava che fosse stata la lepre?”
Il ragazzo annuì.
“Non me lo disse mai in modo chiaro, ma sono convinto che anche lei avesse creduto alla testimonianza del vecchio. Comunque, da allora mia madre non è più stata la stessa persona di prima. È morta l’anno scorso.”
“Mi dispiace…”
Non sapevo più che dire. Decisi che era il momento di congedarmi da quel giovane strambo.
“Sono desolato, ma non posso scrivere ciò che tu mi hai raccontato. Nessuno crederebbe alla storia di una lepre assassina.”
Il ragazzo, di scatto, si alzò. I tratti del suo viso erano alterati.
“Non fu un assassinio!” gridò. Per fortuna, oltre a noi due, non erano presenti altri avventori.
“Si trattò di legittima difesa!” aggiunse, abbassando un po’ il tono di voce. Anche Saetta si drizzò in piedi. E abbaiò contro di me.
“Calmati!” dissi. "Calmatevi tutti e due!"
Lui si lasciò ricadere di peso sulla sedia.
“Scusa tu…” sussurrò. Saetta tornò ad accucciarsi ai suoi piedi.
“Ci sono andato” aggiunse il ragazzo.
Fui colto alla sprovvista.
“Uh? Come?”
“Sono andato in quel posto, dove mio padre morì, poco tempo fa. L’ho subito riconosciuto, perché la tana della lepre c’è ancora. Ho portato con me Saetta, anche lui voleva rendere omaggio al luogo dove il suo amato padrone ha perso la vita. Il mio cane quel giorno però si è comportato in maniera strana.”
“Sarebbe a dire?” lo incitai.
“Aveva paura, tremava. Ogni tanto uggiolava, spaventato. A un certo punto si è disteso sul terreno, immobile, con la pancia a terra. Poi ho capito il motivo del suo terrore. L’aveva vista.”
“Eh?”
“Aveva scorto la lepre, dopo averne fiutato l’odore. Era proprio di fronte a noi, e ci stava guardando. Impercettibili fremiti scuotevano le sue lunghe orecchie. Si trattava di un animale enorme. Non avevo mai visto una lepre così grande.”
“Non poteva essere la stessa lepre! Era un’altra!” esclamai alzando la voce.
Il ragazzo sorrise.
“No, era proprio la stessa. Saetta, il giorno prima della morte di mio padre, l’aveva inseguita e ora l’aveva riconosciuta, anche se erano trascorsi ormai molti anni.”
“Basta!” esclamai. “Non voglio sentire altro, tu ti stai prendendo gioco di me.”
Il ragazzo non fece caso alle mie parole e continuò.
“L’ho guardata negli occhi, in quegli occhi scuri e profondi come due pozzi. Lei ha ricambiato lo sguardo. Mi ha rivolto un’occhiata mesta, carica di afflizione. Era il suo modo di scusarsi. Forse non sapeva che io l’avevo già perdonata da tanto tempo.”

mercoledì 28 marzo 2012

ROBA DA UFFICIO



“Allora, che ne diresti di venire a letto con me?” propone Mario alla collega Lorena.
 Il solito stanco scherzo, quello di tutti giorni. Seguito da lazzi e frizzi. Roba da ufficio, insomma.
Questa volta, però, la reazione della ragazza è assai diversa. Il suo viso dai tratti gradevoli assume un’espressione grave e corrucciata.
“D’accordo, accetto il tuo invito” dice.
Mario la guarda, strabiliato e incredulo.
“Che cosa hai detto?”
“Hai compreso benissimo. Ho detto che verrò a letto con te” ribadisce Lorena.
“Stai scherzando?”
“Affatto. Non sono mai stata così seria. Che fai? Ti tiri indietro?”
Sul volto di Mario compare un sorriso ebete.
“No…” mormora smarrito.
Il dialogo ha attirato l’attenzione del secondo collega, Vittorio. Che drizza le orecchie, interessato.
“E tu? Che hai da guardare?” lo apostrofa con severità Lorena. “Guarda che ho intenzione di andare a letto anche con te. Soddisfatto?”
“L’idea non mi dispiace…” dice Vittorio.
“Già, l’idea…” ribatte la ragazza in tono ironico. Vittorio si adombra.
“Adesso basta, lo scherzo è durato abbastanza” interviene Mario, timoroso che la situazione gli sfugga di mano. In tanti anni non ha mai visto la collega così risoluta.
Vittorio, invece, pensa ancora di trovarsi nel mezzo di una burla.
“E Ugo? Perché non anche Ugo?” dice, indicando il terzo collega, l’unico seduto alla propria scrivania e impegnato a svolgere il lavoro di quattro persone.
Il povero Ugo, chiamato in causa in quel modo, avvampa violentemente. Il suo imbarazzo è totale. Naturalmente, ha seguito con attenzione i discorsi fatti in precedenza dai colleghi.
“Certo, andrò a letto anche con Ugo” dice Lorena.
“No, io no. Non mi interessa!” Ugo si alza e tenta la fuga.
“Vigliacco! Non scappare!” lo blocca la ragazza. “Vorresti forse dire che non ti piaccio?” aggiunge.
L’altro, sempre più purpureo, si blocca e tace.
“Sono dieci anni che mi sbirci le gambe fingendo di buttare la carta nel cestino! Intendi forse negarlo?”
Ugo sempre zitto. E mortificato.
“Ascolta, Lorena…” Mario, con la sua voce suadente, cerca di porre fine al tormento. Ma viene subito interrotto.
“Ascoltatemi bene voi, invece.” Di nuovo Lorena, ancora più determinata. “Non ho nessuna intenzione di recedere dal mio proposito. E non guardatemi con quelle facce da subnormali! Ho detto che andrò a letto con voi tre e lo farò! Ovviamente alle mie condizioni, nel senso che le regole della faccenda le stabilisco io. Inizierò dal primo, poi passerò al secondo e infine al terzo, senza che voi sappiate quale sarà l’ordine, dal momento che non è conveniente sapere di essere stato magari l’ultimo del gruppo. Quindi, acqua in bocca. Per il vostro bene, per la vostra salute mentale, soprattutto. Trascorso un mese da quando avrò… assaggiato l’ultimo di voi…”
Alla parola ‘assaggiato’ tutti sbiancano, compreso il vermiglio Ugo.
“…potrò finalmente riferire a tutti le mie valutazioni” conclude la ragazza, sempre più infervorata.
“Valutazioni?” domandano in coro i tre colleghi, le cui voci hanno subito, nel frattempo, una curiosa trasformazione.
“Sì, mi riferisco all’esito del confronto.”
Mario, Vittorio e Ugo, proprio come esperti ballerini, si lasciano cadere in ginocchio di fronte a Lorena nello stesso momento.
Nessuno di loro parla, ma le loro mani sono giunte, a formulare una muta e disperata invocazione.

domenica 25 marzo 2012

PROMENADE



Percorro sereno il lungo corridoio, sulle cui pareti sono disposte le opere. Ammiro le ricche cornici di legno intagliato e dorato. I miei passi rimbombano sul lucido pavimento di marmo. Mi rendo conto di essere solo e ciò mi rallegra.
Mi avvicino al primo dipinto, lo guardo e lui guarda me. Raggelo. Non riesco a distogliere lo sguardo da quegli occhi malvagi. Quelli dello gnomo. L’omuncolo è in una foresta, ed è circondato da alti alberi che fanno risaltare ancora di più la sua misera statura. È vestito di stracci, ha una enorme testa, braccia corte e muscolose, gambe tozze e arcuate. Questi particolari li noto soltanto di sfuggita, ciò che mi attira e mi sgomenta di più sono le sue pupille scure. Mi ci perdo, e subito sono assalito da una sensazione di nausea profonda. In quell’essere colgo tutto il male dell’universo. Il mio sgomento aumenta quando mi accorgo di provare per lui, allo stesso tempo, attrazione e repulsione. Appena prima di precipitare nell’oscurità mi stacco dal quadro, ritrovo me stesso, e fuggo da quella spaventosa visione. Ho scorto l’abisso dell’anima. Sono sconvolto.
Cammino a passo svelto, gli occhi incollati a terra, turbato e affranto, la pace interiore ormai perduta.
La musica mi colpisce all’improvviso. Cerco di individuarne la provenienza. Dopo un istante comprendo che proviene dall’interno del mio corpo. Soltanto io posso udirla, ed è una melodia struggente. Mi blocco e vedo l’immagine del castello, di fronte a me, racchiusa in una pregiata cornice. Poi vedo il menestrello. È lui che sta intonando quel canto d’amore che mi sconvolge le viscere. Seduto su una piccola roccia, rivolge al cielo la sua dolente canzone. Sullo sfondo, afflitto e paziente, l’antico castello sospira. All’improvviso mi assale una gravosa tristezza. Si fa strada in me una lucida consapevolezza. Il mondo non è dominato soltanto dall’eterno dualismo tra il Bene e il Male, ma anche dall’Amore, che li compendia. Sconcertato, fuggo. Mi allontano rapido da quel paesaggio pervaso di mestizia.
Riprendo il percorso e mi trovo immerso in una brulicante scena urbana. La gente si affretta nella stretta via, uomini e donne coperti da pesanti pastrani, persi nei loro pensieri. Il freddo è intenso. Brividi acuti attraversano il mio corpo. In lontananza intravedo un grande carro che si sta avvicinando, trainato da buoi. Il terreno trema, la folla si scosta al suo passaggio. Fermo un passante e lo interrogo.
“Dimmi, vecchio. Che cos’è quel carro?”
L’uomo sputa a terra e poi mi scruta a lungo. I suoi occhi stanchi, dalle ciglia gelate, sono simili a due fessure.
“Lo stanno portando al cimitero” dice, prima di sputare di nuovo.
“Chi stanno portando al cimitero?”
“L’uomo più potente della città.”
“Perché è morto?” domando, inquieto.
“È stato soffocato dai ricordi.”
“Non c’era bisogno di un carro così grande!”
Le vibrazioni aumentano. Il rumore diventa assordante. Il vecchio, per rispondere, quasi grida.
“Invece sì. I suoi ricordi saranno sepolti con lui. Sono tanti.”
Preda della curiosità domando ancora qualcosa, ma lui non riesce a sentirmi.
“Attento!” urla subito dopo.
L’enorme ruota, più alta di me, mi sfiora. Schizzi di fango mi investono. Faccio un passo indietro, con il cuore che mi martella in gola. Il carro si sta già allontanando. Il frastuono, poco per volta, diminuisce.
Mi ritrovo seduto sul pavimento dell’esposizione, confuso e frastornato.
“Si sente bene, signore?” È il custode, che mi esamina dall’alto in basso.
Mi riscuoto.
“Certo, mi sono seduto per osservare meglio la prospettiva” spiego con scarsa convinzione.
“D’accordo, signore. Mi scusi.” E si dilegua guardando con disgusto le mie scarpe infangate.
Ripenso all’imbarazzante situazione, e sorrido tra me. Liscio come posso l’abito sgualcito e mi concentro nell’osservazione di un dipinto che mi ritrovo proprio di fronte.
Dai banchi del vasto mercato provengono suoni di voci concitate. Mi avvicino ancora di più all’opera. Robuste contadine mi circondano parlando a voce alta, stingendo tra le mani grosse sporte colme di frutta e verdura. La discussione sale di tono. Mi allontano di soppiatto e mi dirigo verso un angolo dell’ampio piazzale. Ancora grida di venditori che cercano di attirare i potenziali clienti, rumore e confusione. Noto un capannello di persone. Sono tutti uomini, e stanno bevendo e giocando all’ombra di un immenso platano. Uno di loro maneggia con grande abilità tre carte. Gli altri, a turno, puntano e giocano. Giocano e perdono, perdono e si disperano. Non vedo denaro passare da una mano all’altra e sono sorpreso. Qualcuno, dopo un po’, si rivolge a me. Si tratta di un uomo dai folti baffi scuri e con una voce dal timbro profondo.
“Forza, signore! Dov’è l’asso? L’asso vince, le altre carte perdono!”
Sto per dire che non intendo giocare. Ma non dico nulla. Invece, il mio dito indice accenna una carta.
“Fante, signore! Ha perso!”
L’uomo con i baffi, dopo aver parlato, lancia un’occhiata al complice che manipola le carte. Sogghigna.
“Che cosa ho perso?” chiedo, interdetto.
“Qui non si giocano soldi, perché tutti i giocatori devono essere alla pari. Tra il ricco e il povero non esistono differenze. La posta in palio è la stessa per tutti. Chi vince vive, che perde muore.”
“Che cosa?” Sono sbalordito. Poco distante da me, sento che le contadine stanno litigando. Una contesa che presto degenera. La distrazione tuttavia dura un attimo, poiché alcuni uomini mi circondano.
“Signore, deve pagare” dice uno di loro. E sfodera un lungo coltello.
Lancio un urlo disperato e tento di scappare, facendomi largo attraverso quella muraglia umana. Qualcosa mi colpisce alla manica della giacca. E poi corro, corro lungo il corridoio dell’esposizione, finché mi accorgo di essere solo. Nessuno più mi minaccia. Osservo la manica del vestito, tagliata dal fendente, e le minuscole gocce di sangue che affiorano dal candido tessuto della camicia. Mi sento stordito. Lentamente riprendo fiato e, giunto al termine del corridoio, sono costretto a svoltare. Un piccolo slargo, alla cui parete principale è appeso un unico quadro. Mi fermo e lo esamino con attenzione. Indugio a lungo sulla figura che vi è rappresentata. Uno strano essere, che mi provoca un moto di ribrezzo. Studio quelle enormi estremità gialle, con le dita munite di unghie lunghe e affilate. Smisurate zampe di gallina, che sostengono una capanna di legno.
“Stai lontano da me, mostro!”
La voce mi investe all’improvviso. Una voce di donna, dalla sonorità delicata, nella quale colgo apprensione e paura. Benché sbalordito, reagisco.
“Chi sei?” domando, con voce tremante. Anch’io provo spavento.
Nella capanna si apre uno sportellino, come quello degli orologi a cucù. Appare una testa di donna dal profilo aquilino. I suoi occhi e i suoi capelli sono verdi.
“Mi fai paura. Sei un essere orribile, deforme, talmente brutto da risultare repellente. Ma non temere, vincerò il mio ribrezzo e ti permetterò di visitare il mio antro, dove potrai provare piacere e beatitudine. Vieni, vieni dentro di me.” Ora la sua voce è suadente.
La molla alla quale è attaccato quel capo grifagno si allunga a dismisura. Il naso adunco si trasforma in un becco acuminato, che scatta verso di me. Mi scosto all’ultimo istante, evito per miracolo il colpo diretto ai miei occhi. Mi sposto ancor più all’indietro, vedo la minuscola testa che si ritrae svelta. Lo sportello si richiude. Attutita, fa eco una perfida risata.
Non ne posso più, i miei nervi stanno per cedere. Risoluto mi dirigo verso l’uscita. La trovo.
Nondimeno, non riesco a sottrarmi dal lanciare un fugace sguardo all’ultimo dipinto. Non è possibile non notarlo, perché si tratta di un quadro di enormi dimensioni. Una grande porta, la porta di una città. Maestosa, con dorature splendide, e intarsi che non sembrano essere stati modellati da mano umana. Un insieme imponente, grandioso e solenne. Ne sono meravigliato. La esamino, la accarezzo. Colmo di brama, anelante.
“Desideri entrare?” Una voce, alle mie spalle. Sussulto. Mi volto ma non scorgo nessuno.
Vorrei fuggire, invece rimango immobile.
“Se questa è la porta, immagina come può essere la città”.
Ancora quella voce. Il suo tono è calmo e rassicurante, non mi suscita inquietudine.
“Non so chi tu sia” dico, con emozione. “Ma sei hai la possibilità di farmi entrare, allora fallo!”
“Conosci bene l’arcano delle porte?” mi interpella la misteriosa entità.
Una domanda strana, alla quale non so dare risposta. Ma ormai i miei pensieri sono rivolti altrove. Alla Città d’Oro, all’incanto che mi attende oltre i battenti di quella grandiosa porta. Potrò vedere ciò che nessuno ha mai visto.
“Ti prego, fammi entrare” sussurro.
“Come vuoi tu.”
I battenti lentamente si schiudono. Mi infilo nel varco e lo oltrepasso, al colmo della felicità. Di fronte a me non c’è nulla. E non c’è nulla sotto ai miei piedi. Precipito. Una caduta infinita. Eterna. La Caduta dal Paradiso.
“Dalle porte si può entrare e si può uscire. Questo volevo dire. Nella Città d’Oro, tu c’eri già.”
La voce dell’entità immateriale è avvilita, rassegnata. Ma io non la sento più.

(*) “Quadri di un’esposizione” è l’opera più famosa del compositore russo Modest Musorgskij (1839 – 1881)

giovedì 22 marzo 2012

LO STRAPPO



La buona notizia: la disciplina dell’art. 18 è stata estesa a tutti i lavoratori.
Quella cattiva: l’art. 18, in concreto, non esiste più. È stato ridotto a un guscio vuoto.
Come si temeva, il succo della riforma del mercato del lavoro è tutto contenuto in questo provvedimento. Una decisione, caduta dall’alto, che ha provocato divisioni e che appare destinata a produrre ulteriori lacerazioni. Nel sindacato, all’interno delle forze politiche e tra gli stessi partiti, nella società. I lunghi mesi di consultazioni tra il governo e le forze sociali non sono serviti a nulla. Alla fine è stato applicato, senza ulteriori indugi, il protocollo-Monti: si ascoltano le parti, non si concerta, l’esecutivo decide. E la patata bollente passa al Parlamento, unico organo al quale il governo ritiene di dover rispondere. Da un punto di vista rigidamente formale, tale processo democratico pare ineccepibile, anche se trasuda freddezza. E calcolo. Eccessivo tecnicismo, si potrebbe dire.
La Confindustria, dopo qualche svogliata rimostranza di pura facciata, si ritiene soddisfatta. Gli imprenditori, infatti, avranno mano più libera riguardo alla risoluzione dei rapporti di lavoro. Il sindacato, invece, si è spaccato. Un fatto non nuovo, al quale negli ultimi anni abbiamo assistito di continuo, ma non per questo meno lacerante e che, come sempre, rende più deboli i lavoratori. La CGIL non ci sta. Le altre organizzazioni, dopo aver dato via libera all’accordo, sono in preda a tardivi ripensamenti. La posizione di contrarietà del maggiore sindacato italiano rischia di scatenare un’aspra contesa all’interno del Partito Democratico, dove convivono posizioni contrastanti. Una situazione oggettivamente difficile e complessa, che rischia di avere ripercussioni sulla tenuta della strana ed eterogenea maggioranza che sostiene il governo.
Il Presidente del Consiglio, tuttavia, sembra non temere particolari conseguenze in merito. In caso contrario, il suo potrebbe apparire come un pericoloso azzardo.
La condizione di difficoltà del nostro Paese è tutt’altro che superata. In virtù dell’azione del governo (senza dubbio efficace ma, al di là dei buoni propositi, decisamente iniqua) l’andamento dell’economia è migliorato. Beneficiamo, attualmente, di rinnovato credito, e di ritrovata considerazione a livello continentale e internazionale. Sarebbe opportuno che tale processo virtuoso non subisse brusche interruzioni.
Torniamo alla riforma del mercato del lavoro che, come ha ricordato il presidente Napolitano (seppure con scarsa convinzione), non è di certo tutta racchiusa nelle modifiche all’art. 18.
Sono state infatti corrette le tipologie contrattuali. Riguardo a ciò è però difficoltoso riuscire a non nascondere una certa delusione. Ci si aspettava qualcosa di più drastico e lineare. L’esorbitante numero di forme di contratto a tempo determinato ha causato, negli ultimi anni, una giungla lavorativa che ha prodotto legioni di precari privi di tutela, un risultato esattamente contrario ai propositi contenuti nella famigerata Legge 30, rimasta tra l’altro incompleta. I tipi di contratto rimangono comunque troppi, mentre sarebbe stata auspicabile l’istituzione di una forma prevalente di contratto a termine che ne comprendesse tutte le forme, da trasformare attraverso precisi criteri in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Anche sul fronte degli ammortizzatori sociali l’insoddisfazione è palpabile. Gli strumenti di protezione sembrerebbero destinati a una platea più vasta di lavoratori, nondimeno saranno attuati soltanto a partire dal 2017, e i periodi di copertura appaiono più brevi e, in alcuni casi, non ben delineati. D’altra parte le risorse sono e saranno anche in futuro minime…
Il governo, dunque, procede come un rullo compressore. Il Parlamento si trova quasi costretto ad assecondare. Come ricordato, l’efficacia dell’azione di governo è indiscutibile, ed è possibile che Mario Monti riesca nella sua impresa, quella di salvare l’Italia. Alla politica, però, prima o dopo toccherà il compito di salvare gli italiani. E ci sarà davvero bisogno di una buona politica, che attualmente non si intravede affatto.  

martedì 20 marzo 2012

LO SCRITTORE



Il telefono. Lo lascio suonare a lungo. Poi, irritato, smetto di scrivere, mi alzo e vado a rispondere.
Si tratta di Stefano, un mio caro amico. Non poteva che essere lui, dal momento che nessun altro mi chiama.
“Ehi! Finalmente ti degni di rispondere!”
“Ciao Stefano, tutto bene?”
“Sì, grazie. Che ne dici di venire con me all’inaugurazione della mostra di Desideri?”
Mi coglie di sorpresa.
“Chi è Desideri?” domando, esitante.
“Ma come! È quel giovane pittore che ti piaceva tanto. Quello delle barche, non ti ricordi?”
“Sì, certo. E quando sarebbe?”
“Questa sera.”
“No.”
“Eh?”
“Scusami, ma non me la sento. In questo periodo sono molto impegnato, credo di essere un po’ stanco.”
“Sarebbe un piacevole diversivo. La pittura non ti interessa più?”
“La pittura mi piaceva molto.”
“Ti piaceva? E adesso?”
“Non lo so…”
“Ehi! Ma stai bene?” Nella voce di Stefano c’è apprensione. Caro, buon vecchio Stefano. Unico amico.
Rido, nel tentativo di rassicurarlo.
“Non preoccuparti, sto benissimo” dico.
“Sicuro?”
“Te lo garantisco.”
“Ascolta, e se passassi a trovarti?” chiede Stefano dopo un attimo di esitazione. Non mi crede.
“Perché no? Ti aspetto, vieni anche subito.”
“Arrivo.”
Riattacco con un sospiro. Ormai ho smarrito del tutto la concentrazione. Mi siedo comunque davanti al computer, rileggo distrattamente ciò che ho scritto oggi. Non ne sono molto soddisfatto. Spengo tutto e mi siedo sul divano. So che Stefano mi raggiungerà presto, lui mantiene sempre le sue promesse. In fondo, considero, non mi farà male scambiare due parole. Da troppo tempo non parlo con nessuno. Il contatto umano un po’ mi manca. Ma non troppo.
E dopo meno di un’ora Stefano è seduto di fronte a me. Da come è abbigliato comprendo che neppure lui andrà alla mostra. Ha deciso di sacrificarsi a mio beneficio. Forse non merito tanto.
“Ehi! Ma non apri mai le finestre?”
“Soltanto quando mi ricordo di farlo.”
Noto che il mio amico è un po’ infastidito dall’ambiente buio in cui ci troviamo, il mio studio. La luce centrale è spenta, e soltanto una piccola lampada illumina in parte la stanza, creando lunghe e inquietanti ombre. Tuttavia, non manifesta la sua contrarietà. Non osa.
“Sei pallido” dice.  
“Può essere, negli ultimi tempi non ho fatto molti bagni di sole.”
Scuote il capo. Disapprova il mio comportamento, ma non osa esprimere rimproveri. Nonostante la nostra sia una solida e antica amicizia, lui ha sempre avuto un po’ soggezione di me.
“A che punto è il libro?” domanda infine.
“Procede.” Stefano annuisce, senza domandare altro.
Come sempre, la mia eccessiva laconicità gli provoca imbarazzo. Si schiarisce la voce. Una, due volte.
“Perché ti sei recluso qui dentro? Per quale motivo non esci mai?” domanda. “È come se tu non vivessi più!” aggiunge, con una schiettezza per lui insolita.
“Ti sbagli, Stefano. La mia vita è piena. Io vivo per raccontare. Tutto il resto, tutto ciò che ho fatto in passato, non mi interessa più. O meglio, quelle esperienze mi sono utili perché le rielaboro di continuo, le trasformo in scrittura. Senza di esse sarei di sicuro più povero, tuttavia le considero sufficienti, e non ne desidero altre.”
“Non ti offendere, però lascia che ti dica che tu non sei mai stato un grande affabulatore. Nel corso della tua esistenza non hai mai raccontato neppure una barzelletta!”
“Hai ragione, ma le parole scritte sono un’altra cosa. Quelle soltanto pronunciate sono leggere e finiscono per risultare vuote, sono come neve al sole.”
Stefano appare nervoso, cambia più volte posizione sulla poltrona. Questi discorsi lo turbano, lo capisco. Ma lui è l’unica persona con il quale possa farli.
“Quindi tu scrivi solo per te stesso? Per raggiungere un appagamento personale?” chiede.
Sorrido.
“Con te non posso mentire, devo dire per forza la verità. No, non scrivo per me stesso, non avrebbe senso. Molti scrittori preferiscono nascondersi dietro a tale affermazione. In realtà, non sono sinceri. Vedi, io conosco perfettamente quali siano i miei pensieri. Potrei limitarmi a elaborarli, ad attingervi, come fanno tutte le persone che non scrivono, poiché non esiste una ineludibile necessità di trasformarli in parole scritte. No, il fatto è che io, come tutti, sento il bisogno di condividerli, di spartirli con altri esseri umani. E cerco di farlo nel migliore dei modi, dando loro una formulazione definitiva…”
“Immutabile…” mi interrompe Stefano.
“Esatto, vedo che hai capito.”
“Sì, ma allo stesso modo non comprendo questa tua occorrenza di isolamento…”
“Già, comunque devi sapere che il processo di distillazione dei pensieri richiede quiete e tranquillità. Soprattutto, obbliga a un’assenza temporanea dal mondo. L’immersione nella creatività deve essere totale e sfibrante. Non sempre si riesce a raggiungere lo scopo finale.”
“Sono sbalordito. E preoccupato. Non pensavo che…”
Sorrido di nuovo. La sincera angustia di Stefano mi intenerisce.
“Sai che ti dico? Parlare con te mi ha fatto bene. È servito a ricaricarmi. Mi sento riposato.”
Stefano mi osserva, guardingo.
“E quindi…”
“Non vedo l’ora di riprendere a scrivere!”
Il mio amico si porta le mani al volto.

domenica 18 marzo 2012

SEMPRE SOLO (FOREVER ALONE)



Stendersi nel grande letto, occupandone l’intera diagonale, senza incontrare alcun ostacolo. E svegliarsi all’alba, nel silenzio di una casa priva di presenze, dove soltanto la tua voce crea rassicuranti echi. La colazione, abbondante e solitaria, consumata tra profondi sospiri di intima e non celata soddisfazione. Tutto intorno domina il silenzio, trionfa la pace.
Lo specchio, un sorriso. Un riflesso muto e familiare. L’unico, quello di sempre.
Chiudere e sbarrare la tana, quell’antro che è solo tuo. E nel quale regni incontrastato, dove disponi senza intralcio, il rifugio sicuro da ogni intrusione del mondo.
Né mediazioni né compromessi. L’unica parola: la tua.
Infine il tuffo nell’altro universo, quello estraneo, invaso da esseri debordanti. Quello dei rumori e della confusione. Del disordine e della promiscuità.
L’impagabile compiacimento nell’andare a occupare quel posto singolo sul bus, dopo la sofferenza dell’attesa alla fermata, dopo la concitazione e le voci dissonanti che hanno turbato il tuo equilibrio.
E poi una giornata intera, solo con i tuoi pensieri, felicemente immerso nel vuoto, nell’assenza di scambi e di rapporti di qualsiasi tipo. Spoglio di conoscenze, di affetti e di amicizie. Nell’attesa spasmodica della sospirata quiete. Tutto passa.
Ritornare finalmente alla base e provare qualcosa di simile alla felicità.
Non c’è bisogno della televisione, perché quell’orribile apparecchio tiene compagnia. Non ne hai bisogno. Ti basti. Tu e te stesso, una forza.
Il tempo trascorre lento, così la tua vita si prolunga a dismisura, leggera e diluita.
Non ti manca nulla. Né una voce amica, neppure una compagna e tantomeno una presenza non umana. Nessuno telefona, nessuno bussa alla tua porta. Tale pensiero ti rallegra.
Sonnecchiare sdraiato sul divano, al buio, volteggiando tra il presente e l’incoscienza. In attesa dell’oblio.
Gli ultimi pensieri. L’ora dei ricordi e della nostalgia. Ma non della malinconia.
E allora niente rimpianti, tranne uno, ogni volta lo stesso. Quella volta di tanti anni fa, quando hai assistito a quella partita di calcio, circondato da quella massa di gente urlante. È stato un caso, non è dipeso dalla tua volontà, ma purtroppo è accaduto. Quando la tua squadra, la squadra di tutti, ha vinto e si è scatenato il delirio, non sei riuscito ad esultare. Sei rimasto fermo, impassibile, di pietra. Perché in quel momento avresti desiderato essere solo. Soltanto così avresti potuto partecipare intensamente a quella immensa gioia.
Comunque hai fatto in modo che un evento così infelice non si ripetesse più, sei corso ai ripari e ti sei ripromesso di farlo. Ci sei riuscito. Da allora sei rimasto sempre solo. 

venerdì 16 marzo 2012

ATTRAZIONE



“Perché mi guardi e non favelli?”
Si è rivolta a me, proprio a me. Ho impiegato più di un istante a rendermene conto. Non avrei mai immaginato che potesse farlo. Eppure è così, lei mi sta fissando con i suoi penetranti occhi neri, ed io non so che cosa rispondere. Arrossisco, intimidito.
Siamo in piedi, nell’atrio della scuola, attorniati dai nostri compagni, e stiamo aspettando che l’assemblea abbia inizio.
È stato un caso che mi sia trovato accanto a lei, un puro caso. Lei è Antonella, e ci conosciamo da quattro anni, un tempo ormai lungo durante il quale, in pratica, non abbiamo mai scambiato una sola parola. Qualche saluto, e nulla più.
All’inizio non l’avevo quasi notata, perché la mia compagna non è una ragazza molto vistosa. È bassa di statura, con capelli e occhi scuri, un corpo minuto ma ben modellato. Ha una piccola gobba sul naso, davvero piccola, e forse per tale difetto pochi la considerano bella. Al contrario questa sua lieve imperfezione la rende ai miei occhi molto attraente. Io odio la perfezione, la sfuggo, ritengo piuttosto che soltanto l’esistenza di una sottile pecca possa rendere veramente interessante una persona, la faccia risultare unica nel suo incanto. Un fascino del tutto particolare, quello di cui è fornita Antonella, che mi ha rapito tardi, ma al quale non riesco più a sfuggire. Detesto la mia stoltezza, e la mia evidente inadeguatezza, che mi ha portato a chiudermi ancora di più in me stesso, a corazzarmi nel tentativo, vano, di sottrarmi a quel senso di vuoto che mi assale ogni volta che la vedo. Tutti i giorni, per lunghe e tormentate ore. Antonella: se in precedenza l’ho ignorata, adesso invece soffro, catapultato all’improvviso in un vortice che non riesco a controllare, il cui centro è costituito dalla sua forza di attrazione. Volteggio in uno spazio sconosciuto, annientato e privo di volontà, timoroso del possibile schianto.
E non parlo, non rispondo. Osservo quegli occhi neri, dentro ai quali ho paura di perdermi, dentro ai quali mi sono già smarrito, e forse sorrido.
“Vieni” dice lei, che ha intuito tutta la mia confusione. Mi trascina in un angolo tranquillo, e si siede a terra, accovacciata come una squaw. Per quanto sia in grande imbarazzo, faccio la stessa cosa, combatto il disagio che mi avvolge e mi opprime, e dunque mi siedo.
Sei carina, mi piaci, provo interesse per te. Sei simpatica, e il tuo vestito è molto grazioso. Che importa se lei non indossa un vestito ma dei jeans e una maglietta?
Potrei dire tante cose, potrei non dire nulla e rivolgere invece uno sguardo eloquente, manifesto, che racchiuda tutto ciò che provo, tutto ciò che accelera i colpi del mio cuore.
Invece continuo a non dire nulla. Non ci riesco. Lei non è molto sorpresa dal mio atteggiamento. Non lo ritiene insolito, lo considera connaturato alla mia persona, e questo pensiero mi ferisce. Non mi sono mai rivolto a lei, mai abbiamo incrociato verbo . Per quale motivo dovrei farlo proprio adesso? Questo è ciò che leggo nei suoi occhi, un misto di pena e di compatimento e di sarcasmo. Io sono il tipo strano, interessante proprio perché singolare.
Patisco, eppure non posso perdere questa occasione. Non ne capiterà un’altra, lo sento. Devo dire qualcosa, devo costringerla a conoscermi, obbligarla a considerare la mia attrazione per lei, a prenderla sul serio, a rispettarla.
Lei si distrae, si guarda intorno, la sua espressione si colma di noia. Comprendo che non posso attendere oltre, devo agire. Subito, senza indugio. Privo di favella, mi affido all’azione.
Appoggio una mano sulla sua spalla. Antonella mi scruta, sorpresa da quel gesto audace. Un’occhiata torva, severa. Si scosta. Non parla.
Ritraggo la mano, piagata, toccata dal fuoco.
“Da tanto tempo desideravo toccarti”. La voce non è la mia, non la riconosco. Anche se ho parlato.
Lei si alza, seccata. Ma sempre bella.
No, non andare via. Io voglio te. Non fuggire.
“Ti prego, dimmi qualcosa.” Ancora quella voce roca, irriconoscibile. La mia.
Le sue labbra si schiudono.
“Sciò!”

martedì 13 marzo 2012

PECCATORE E PECCATO



Colto da un impulso improvviso arresto l’automobile. Scendo, e mi dirigo verso la piccola chiesa. È la prima volta che la vedo, non sono mai stato in questo paese. Sono soltanto di passaggio.
Scosto il pesante portale. L’interno è buio, rischiarato soltanto da una infinità di candele accese. Ambiente suggestivo. Ci sarà un prete? Non credo, penso. Eppure mi auguro di trovarlo, perché il desiderio di confessarmi cresce sempre di più. Per quale motivo ho preso questa decisione? Che cosa mi ha spinto? Non lo so. E perché proprio oggi? In fondo, sono trascorsi quasi vent’anni da quando l’ho fatto l’ultima volta, avrei ancora potuto aspettare. No, lo voglio fare adesso, stabilisco risoluto.
Vicino all’altare scorgo un ometto che impugna scopa e paletta. Deve essere il sacrestano e sta pulendo. Mi avvicino. Lui posa gli attrezzi e mi guarda.
“Dove posso trovare il parroco?” domando.
Con un cenno del capo mi mostra un confessionale di legno scolpito, alla sua destra.
“Lì dentro?”
Annuisce. Sono fortunato. Quasi non ci credo! Ringrazio il sacrestano, che è uguale sputato a Bernardo, il servo muto di Zorro. Infatti anche questo non parla, comunque seguo la sua indicazione. All’improvviso una sensazione di panico mi paralizza. Che cosa devo dire? Devo elencare tutti i peccati che ho commesso negli ultimi vent’anni? E chi se li ricorda? D’accordo, qualche volta ho mentito, ma mai quanto Pinocchio. E non ho nulla da spartire con Arsenio Lupin e tantomeno con Caino. Il mio problema in realtà è un altro. La mia vera intenzione è quella di confessare un’unica colpa, la sola che da sempre mi tormenta. Mi inginocchio. Ahi che dolore! Che cosa devo fare? Bussare? Sono in grande imbarazzo. Poi la tendina viola si sposta. Attraverso la fitta grata intravedo un volto in ombra. Non riesco a distinguere i suoi tratti. Mi schiarisco la voce.  
“Buongiorno, Padre. Senta, avrei il proponimento di confessarmi.” Ma in che modo mi esprimo? Deve essere l’emozione.
“Ma no!” Una voce squillante. Cinguettante, direi. Sono forse incappato in Padre Tweet?
“Diamoci del tu” aggiunge. Mi rendo conto che il prete è giovane. In una vecchia chiesa di un minuscolo paese non dovrebbe esserci un anziano pastore d’anime? Che cosa ci fa in questo posto sperduto questo sacerdote che è poco più di un ragazzo? L’animatore dell’oratorio?
“Va bene, come vuole lei. Cioè, come vuoi tu.”
“Dimmi.”
“Ho un dubbio atroce che mi tormenta” dico, e poi mi blocco.
“Coraggio.”
“È vero che la Chiesa opera una distinzione tra peccato e peccatore?”
Silenzio.
“Padre?”
“Un attimo, sto riflettendo. Sai, mi hai fatto una bella domanda!”
Trascorre un altro interminabile minuto, poi finalmente risponde.
“Ci sono! Sì, è vero. La Chiesa afferma che il peccato è sempre da condannare, mentre il peccatore può ottenere il perdono. Meglio ancora se il peccatore potenziale il peccato non lo ha commesso affatto, dico io.”
Non ho compreso granché.
“Io non l’ho mai commesso, il peccato” provo a dire.
Dalla grata mi giunge uno sbuffo di impazienza.
“Ascolta, non vorrei metterti fretta, tuttavia sarebbe opportuno che tu mi dicessi qual è quel peccato che non hai mai commesso ma che, eventualmente, potresti commettere. Intesi?”
“Mi vergogno” dico.
“Ehi! Sono un prete! Ne ho sentite tante!”
“Tante? Sei giovane…”
“Bè… qualcosa…”
“D’accordo, come vuoi. Mi piacciono le ragazzine.”
Silenzio.
“Hai sentito?” domando.
“Certo, non sono mica sordo! Ragazzine hai detto?” Mi accorgo che la sua voce è tremolante.
“Sì, ho detto ragazzine” confermo. Ormai non ho più nulla da perdere.
“Quelle giovani?”
“Non ci sono ragazzine vecchie…”
“Già. Quindici, sedici anni?” chiede.
“No, molto più piccole…”
“Bambine!” esclama.
“Sì, purtroppo sì. Proprio quelle.”
“Sei un pedofilo!”
“Padre…”
“Scusami, mi sono lasciato trascinare. Ascolta, la faccenda è piuttosto grave. Sai, la pedofilia, oltre che peccato gravissimo, è pure un reato e…”
Lo interrompo.
“Non ho mai praticato.”
“No? Bene. Anzi, ottimo.”
La mia voce si incrina.
“Mi immagino di continuo nell’atto di sedurre bambine, non con la violenza, sempre con dolce persuasione. E sogno di essere da loro ricambiato. Mi rendo conto che… Comunque, le mie sono e rimarranno sempre fantasie. Fantasie malate e perverse, non degne di un essere umane. Perché sono fatto così?”
“Eh? Sei fatto in quel modo perché così ha voluto Dio. Lui ti ha fatto così!”
Sono senza parole. Lui prosegue, imperterrito.
“D’accordo, sei un pedofilo, ma che cosa hai fatto per diventarlo? Hai studiato? Hai frequentato un corso? No! Dio ti ha messo alla prova in questo modo, ha stravolto la tua natura. Una prova difficile, che però devi riuscire a superare.”
“Finora ce l’ho sempre fatta. E ce la farò anche in futuro. Non rovinerò mai l’esistenza di qualche giovane innocente! Lo giuro! Però, che vita sarà la mia?”
“Sarà simile alla mia…” dice il prete a bassa voce.
“Eh?”
“Niente. Accidenti!”
Mi allarmo.
“Che cosa ho fatto? Che cosa ho detto?”
“Nulla, non preoccuparti. Sta per iniziare il Gran Premio. Allora, dal momento che tu non hai mai peccato, posso assolvere senza alcun dubbio il peccatore che è te. Che ne dici? Ti va? Ti sembra un accordo ragionevole?”
“Sì, ma…”
“Vivi sereno e, soprattutto, continua a non praticare, mi raccomando.”
“Devo fare qualche penitenza?” chiedo, ormai sollevato.
“No, soltanto andartene perché mi hai già fatto perdere la partenza della corsa.”
“Va bene. Arrivederci…”
“Ah! Un’ultima cosa. Sappi che comprendo la tua sofferenza.”
“Grazie Padre, tuttavia non capisco…”
“Tu non immagini quanto mi piacciano i ragazzini…”