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martedì 28 febbraio 2012

TAV: ALTA TENSIONE



Cresce la protesta in Val di Susa, e aumenta a dismisura la tensione, dopo la tragica caduta da un traliccio, avvenuta ieri, di un attivista NO TAV, salito sul palo per manifestare, una volta di più, la sua opposizione e quella di un’intera valle al progetto dell’alta velocità. Una disputa che sembra non avere fine, e per la quale non si intravede una ragionevole soluzione, che si trascina ormai da diciotto lunghi anni.
Ancora una volta è necessario svolgere una riflessione, per tentare di comprendere le ragioni di una protesta condotta in maniera così caparbia e ostinata, addirittura a sprezzo della vita.
Il dichiarare che l’apertura del corridoio ferroviario Torino-Lione sia questione vitale, che la mancata realizzazione dell’opera possa comportare una condizione di isolamento per l’intera regione - se non per l’intero Paese - l’asserire che, a questo punto, gli impegni sono stati ormai assunti e devono essere d’obbligo onorati sono tutte asserzioni che, facilmente, potrebbero apparire, se non false, quantomeno ingannevoli e artificiose.
È vero, allo stato attuale sembra piuttosto difficile, se non impossibile, tornare indietro. I cantieri sono insediati, i lavori stanno superando la loro fase iniziale; dall’altro versante della montagna, su suolo francese, le operazioni procedono senza intoppi e in maniera spedita, si dice. Ne siamo veramente sicuri?
Oggi, finalmente, e con colpevole ritardo, è intervenuto il governo, per voce del ministro Corrado Passera, per ribadire che indietro non si può tornare. Non dobbiamo scordare, però, che si è giunti alla situazione attuale anche per l’ignavia, l’inadeguatezza e la superficialità dei precedenti esecutivi. Tutti, di destra e di sinistra, incapaci di prevedere con la necessaria e opportuna lungimiranza l’impatto che una grande opera di questo tipo avrebbe prodotto su una piccola valle. Un territorio già martoriato pesantemente dalla realizzazione di un’autostrada che, alla fine, si è rivelata utile per le grandi aziende di trasporti e per i pendolari delle vacanze e che non ha prodotto nessun autentico beneficio per i valligiani. Richiedere un ulteriore sacrificio a un territorio già provato è stata una scommessa che si è rivelata perdente.
D’accordo, la decisione sul compimento del grande progetto ferroviario è stata assunta seguendo le normali procedure democratiche, le quali a volte implicano il sacrificio di interessi particolari a favore della collettività. Ma fino a che punto è lecito spingere tale richiesta? É moralmente conveniente  ritenere insignificanti, o del tutto residuali, le necessità di migliaia di persone, di un intero territorio? Oppure sarebbe corretto valutare e considerare con più attenzione e, soprattutto, con maggiore partecipazione,  i bisogni e le naturali rimostranze di questi cittadini? Cittadini, tra l’altro, sottoposti a una sospensione – in ogni caso di sicuro a un’attenuazione – dei diritti e delle garanzie democratiche, poiché costretti a vivere, per molti anni, in un territorio in pratica militarizzato, obbligati a esibire dei veri e propri lasciapassare per operare alcuni spostamenti, per potersi recare nei campi da coltivare.
Infine, non è mai stato del tutto sciolto il dubbio che sta al cuore della vicenda: l’utilità dell’opera. Nessuno è in grado di scioglierlo in maniera definitiva, né chi è a favore né chi è contrario. Ognuna di queste tesi contiene ragionevoli punti a favore. Nell’una e nell’altra ipotesi, i pareri di autorevoli esperti sostengono con misura le ragioni del sì oppure del no. In questi casi, di fronte a questioni non facili da risolvere, sarebbe saggio rivolgere uno sguardo al passato.
Fino a poco tempo fa era ritenuta fondamentale anche la costruzione del Ponte sullo Stretto. Poi, benché con fatica, è prevalso il buon senso. Oppure, che dire di opere faraoniche come l’aeroporto di Malpensa, portate a termine tra grandi trionfalismi e che si sono rivelate, dopo pochi anni, del tutto fallimentari, un enorme spreco di risorse pubbliche in un Paese in difficoltà  che avrebbe bisogno di ospedali efficienti, di manutenzione dell’intera rete dei trasporti, di conservazione del territorio, minato dai continui dissesti idrogeologici dovuti all’incuria.
Occorre riflettere, dunque. Senza pregiudizi, senza ricorrere a facili schemi, che non portano a nulla. Ed è doveroso indirizzare un apprezzamento colmo di rispetto a chi combatte una battaglia forse vana – non importa se giusta o sbagliata, non siamo in condizione di dirlo -  in maniera pacifica, isolando i violenti e rivendicando fino in fondo il diritto al dissenso, elemento sostanziale di una democrazia sana e al quale non possiamo e non dobbiamo rinunciare.  

domenica 26 febbraio 2012

UNO SU TRE



Piove. Io, Ruggero e Lucio ci stringiamo sotto l’ombrello. Tutto inutile, le gocce di pioggia colpiscono ugualmente le nostre spalle, scivolano sui nostri giubbotti impermeabili. Le gradinate del piccolo campo di calcio si stanno riempiendo. Come ogni sabato pomeriggio, ci siamo ritrovati per assistere alla partita, per sostenere la nostra squadra del cuore, una delle passioni che ci unisce, e che da tanto tempo contribuisce a cementare il grande affiatamento che c’è tra noi. Manca ancora mezz’ora all’inizio dell’incontro. Per non pensare alla pioggia, ora più intensa, e al freddo, cerco di riempire l’attesa ricorrendo alla dote che più mi contraddistingue: la parola.
“Sapete, ieri ho letto un articolo interessante. Si diceva che una persona su tre è omosessuale. Incredibile, vero?”
Ruggero scuote energicamente il capo.
“Impossibile” ribatte.
“Aspetta, dovete tenere conto di un elemento importante. Quel dato comprende anche tutte le persone - e sono tante – che non manifestano apertamente le loro tendenze sessuali, perché repressi, condizionati culturalmente oppure semplicemente per timore del giudizio dei propri familiari e amici, della società.”
Ruggero sorride.
“Quindi vorresti dire che uno di noi tre è gay?” dice.
Sbuffo.
“Stiamo parlando di una statistica! Si tratta di una media. È piuttosto probabile che nessuno di noi tre lo sia, mentre potrebbe essere possibile – in via teorica – che invece…”
“Che almeno due di quelli lo siano!” completa Ruggero indicando con gli occhi un gruppo di tre ragazzi appostati poco distante da noi.
“E invece no! Ripeto, siamo nel campo delle probabilità! Nulla può essere certo e, d’altra parte, che importanza ha sapere chi è e chi non è omosessuale?”
“Bè… a me piacerebbe saperlo.”
“Perché? Per quale motivo?” Mi sto infervorando.
“Vedete” dice Ruggero. “Io non ho nulla contro i gay, però…”
Sempre più infastidito, lo interrompo di brutto.
“Ecco! La tipica premessa di chi è omofobo!”
Lui mi guarda, sorpreso.
“Omoché?” domanda.
“Uff! Ignorante! Sono omofobe tutte quelle persone che esprimono una avversione eccessiva nei confronti di chi è omosessuale. E tu, evidentemente, lo sei.”
“Che cosa? Omosessuale?” chiede Ruggero, scuro in volto.
“Ma no! Omofobo! Anzi, sai che cosa ti dico? Chi è profondamente ostile ai gay spesso, benché a livello inconscio, potenzialmente è lui stesso omosessuale, anche se non manifesta tale condizione, o non riesce a farlo. Insomma, respinge l’attrazione che prova verso le persone del suo stesso sesso con un comportamento astioso. Teme che la sua vera natura possa prendere il sopravvento.”
“Ma vaffanculo!” Ruggero sembra essere piuttosto contrariato. Non mi stupisco, il mio amico ha un carattere piuttosto focoso, e non ama essere messo in discussione. Le sue sfuriate però durano lo spazio di un attimo. Tuttavia, la sua reazione nei miei confronti allarma Lucio.
“Dai, non litigate, tra un po’ inizia la partita” dice. È la prima volta che interviene nella discussione. D’accordo, Lucio è un tipo di poche parole, ma di solito non rinuncia mai a dire la sua. Forse non è molto interessato all’argomento, forse si sta annoiando.
“Cazzo!” sbotta Ruggiero. “Questo mi dà del finocchio e io non dovrei dire nulla?”
Colto in fallo!
“Vedi? Stai ricadendo nei soliti steorotipi! Finocchio, frocio e così via…. Guarda che anche il linguaggio è importante. Quei termini sono denigratori, offensivi. Così come lo sono le facili battute, le barzellette, le prese in giro…”
“Uff! Finito di fare la predica?” Il tono di Ruggero è già più conciliante. L’arrabbiatura è dimenticata. Come previsto.
“Stavo scherzando” aggiunge, per sancire la ritrovata armonia tra noi.
“Sono comprese anche le donne?” domanda timidamente Lucio.
“Eh?”
“Volevo dire…” poi si blocca. Arrossisce.
“Nell’uno su tre si tiene conto pure delle lesbiche?” completa al suo posto Ruggero.
“Chiaro. Il dato riguarda gli omosessuali…”
“Ma gli omosessuali non sono solo gli uomini?” domanda Ruggero.
“Ruggero! Qual è il significato del prefisso omo?”
Colto in castagna! Il mio amico è in grande ed evidente imbarazzo.
“Uomo?” azzarda.
“Vuol dire stesso! Stesso sesso! Di conseguenza il termine comprende uomini e donne.”
“Non fare il sapientone solo perché hai letto un articolo.” Ruggero assume un’espressione offesa.
“Questo non era scritto nell’articolo. Lo sapevo da prima.”
“Comunque, pensare a due donne che fanno quelle cose…”
“Quali cose?”
“E che ne so! Quelle cose che faranno le lesbiche! Volevo soltanto dire che non provo fastidio, mentre il pensiero di due uomini che… brrrr…”
“Ruggero, sei incorreggibile. Ci ricaschi sempre. Mi spieghi che differenza c’è?”
“Io preferisco le donne!” ribatte il mio amico.
“Anche le lesbiche? Guarda che loro non sono interessate a te!” Rido. Mi piace metterlo in difficoltà. Noto che Lucio scuote il capo, serio.
“Non sono interessate a me? Peggio per loro. Non sanno che cosa si perdono!”
“Ruggero, ti prego! Non scadere del tutto! La figura del macho è ormai passata di moda!”
“Sapete che vi dico, allora? Volete che sia sincero fino in fondo?”
Sono riuscito di nuovo a scatenare la sua ira.
“Anche il fatto di essere omosessuali è nient’altro una moda! È figo dirlo! É tanto snob! Una volta ci si nascondeva, ci si vergognava, mentre adesso si tratta addirittura di un vanto! Tutti gay! Tutti pedofili! Vedrete, ce ne saranno sempre di più, tra un po’ ne saremo circondati! I veri uomini rimarranno in pochi!”
Un fiume in piena.
“Ruggero, stai esagerando…”
Lucio, sempre stando in silenzio, cerca di frenare lo sfogo di Ruggero, gli appoggia una mano sulla spalla. Lui si scosta bruscamente.
“Voglio aggiungere un'ultima cosa, definitiva, e senza alcuna ipocrisia: i gay mi fanno schifo!”  
“Ruggero, sei stronzo, però…” Per una volta, rimango senza parole.
“Lucio, digli tu qualcosa…” riesco comunque ad aggiungere.
Lucio è immobile, pallido in volto. Mi guarda. Si è spostato, e la pioggia cade sui suoi sottili capelli, glieli incolla sulla fronte. Tiene la bocca semiaperta. I suoi occhi dalle lunghe ciglia sono lucidi. Mi accorgo che sta piangendo.
Uno su tre.

venerdì 24 febbraio 2012

TUTTO ESAURITO



Sì, era proprio il suono del campanello. Sbuffando, andò ad aprire.
“Ehi! Perché non ti sei fatto più sentire? E non rispondi neppure al telefono!”
Impiegò un istante per mettere bene a fuoco l’uomo che stava entrando in casa sua. Poi lo riconobbe. Si trattava del suo amico Neil, l’ultimo amico che gli era rimasto. Negli ultimi tempi - un mese, due mesi, o forse più? – in effetti aveva un po’ trascurato il loro rapporto, fatto di frequenti scambi di visite, di incontri in qualche caffè o di semplici telefonate. Concentrato giorno e notte nel suo lavoro, non si era quasi reso conto del tempo trascorso senza che, fra loro, ci fossero stati dei contatti. D’altra parte ciò che lo aveva tenuto impegnato ultimamente era qualcosa che rivestiva un’importanza così fondamentale che gli aveva impedito di concedersi delle distrazioni.
“Ma guarda come ti sei ridotto! Ti sembra il modo di vivere?” disse Neil con la sua voce squillante, guardandosi attorno.
Ancora una volta Neil aveva ragione. Il piccolo appartamento era sudicio e in grande disordine. Il lavello della cucina traboccava di piatti e bicchieri sporchi. Ovunque giacevano ammucchiati vestiti sgualciti. Ed anche la cura personale lasciava un po’ a desiderare. Non si ricordava quando aveva fatto l’ultimo bagno. Di sicuro il suo corpo puzzava, anche se lui non ci badava. Aveva la barba lunga e gli occhi rossi e cisposi, i capelli arruffati. In quelle due misere stanze aleggiava un lezzo penetrante, poiché da tempo non erano state arieggiate. Un tanfo misto di sudore e di fumo, che aveva subito fatto arricciare le narici a Neil. Che, per prima cosa, andò a spalancare una finestra.
“Non dirmi che ci hai riprovato!” esclamò l’amico.
Lui non rispose, si limitò ad annuire in maniera impercettibile. Neil colse il lieve movimento.
“Sei pazzo! Sai bene che è assurdo! Perché non ti arrendi e non cerchi invece di condurre un’esistenza normale? Non stai più lavorando, finirai sul lastrico! Tra un po’ non riuscirai neppure più a sfamarti e finirai sulla strada. Per quale motivo non sei passato da me? Avevo alcuni piccoli lavori per te, nulla di importante ma che ti avrebbero fatto comodo. Invece sei sparito! E adesso scopro che continui a ostinarti nel comporre un brano nuovo. Sai bene che è impossibile! Non ci saranno mai più brani nuovi! Tutto è già stato composto! Rassegnati! Ormai lo sappiamo, ne siamo certi! Ehi, che c’è da ridere?”
Neil aveva ragione. Era proprio così. Poco più di dieci anni prima, tra la costernazione del mondo intero, era stato appurato, grazie all’impiego di un nuovo rivoluzionario software, che non era più possibile comporre un brano musicale originale. Le combinazioni realizzabili, ritenute fino a quel momento infinite, si erano infine esaurite. Tutta la musica era già stata scritta. I più grandi compositori, uno alla volta, si erano dati per vinti. A loro non era rimasta altra scelta se non quella di riciclarsi come semplici esecutori. Soltanto lui non si era voluto arrendere, e aveva continuato a comporre. E aveva sempre fallito. Aveva dedicato l’intera vita all’arte della composizione e, per ciò, era sempre stato un esecutore modesto. Negli ultimi anni era riuscito a sopravvivere grazie a qualche sporadica e poco retribuita esibizione e all’aiuto di alcuni colleghi che, vista la sua  ostinata caparbietà, poco per volta lo avevano però abbandonato. Tranne Neil.
“Ho detto, perché stai ridendo? Rispondi!” ribadì l’amico.
“Ce l’ho fatta!” disse lui.
Neil trasalì.
“Che cosa?”
“Ho composto un nuovo brano.”
“Non ci credo.”
“Lo vuoi ascoltare?”
“A che servirebbe? A illuderti? Sai bene che l’orecchio può ingannare. Piuttosto, lo hai verificato con Music Inspector 2.15?”
“Certo, tutto a posto. È veramente originale. Pensa, il primo pezzo in dieci anni! Allora, non sei contento?”
“No” disse Neil, serio. E preoccupato.
“Perché?” Chiese lui, con la voce che si stava incrinando.
“È stato sviluppato un nuovo applicativo, che naturalmente tu non conosci…”
“Eh? Come?”
“Se invece di trascorrere il tuo tempo come un eremita tu ti fossi fatto vivo lo avresti saputo e i tuoi sforzi non sarebbero stati vani.”
“E…”
“Si chiama Total Music Controller 1.0, e la sua percentuale di errore è pari a zero. Hai capito? Zero!”
Crollò su una sgangherata poltrona, il viso tra le mani.
“Questa sera te lo mando, anche se ti consiglio di non utilizzarlo. Non reggeresti alla delusione. E domani passa da me, vedrò di trovarti qualche ingaggio. Ma guarda come si è ridotto questo!” disse Neil. Poi se ne andò, ancora brontolando tra sé.
Comunque, mantenne la promessa.
La sera stessa, lui era davanti al computer. E non pensò neppure per un attimo di seguire il suggerimento dell’amico. Anzi, non vedeva l’ora di sottoporre la sua composizione al giudizio del recente e infallibile programma di controllo. E lo fece.
Dopo pochi secondi sul video apparve, invece del solito messaggio “OLD PIECE”, la dicitura “ORIGINAL PIECE! – COMPLIMENTS!”
Sentì un tuffo al cuore. Poi emise un urlo liberatorio e si mise a correre nell’appartamento, urtando i mobili, gettando a terra le suppellettili. Ce l’aveva davvero fatta! Sarebbe diventato famoso, e ricco, anche se lui non era per nulla interessato al denaro.
Dopo il primo momento di grande euforia accadde però qualcosa di strano. Si sentì, di colpo, svuotato e depresso. E geloso. Pensò che avrebbe dovuto spartire il suo pezzo, l’unica composizione originale da anni, con miliardi di persone assetate di musica nuova. No, non riusciva proprio a metabolizzare quel ragguaglio. Aveva smarrito l’abitudine della condivisione della sua arte. Più ci pensava, più provava fastidio. Quel pensiero divenne ben presto intollerabile. Si rese conto che doveva fare qualcosa, subito. Quella musica doveva rimanere soltanto sua. Mille ossessioni lo tormentarono a lungo, infine prese una decisione. Si avvicinò alla tastiera del computer e, senza alcuna esitazione, cancellò il file della sua nuova composizione. Senza alcun rimpianto. Ma restava ancora qualcosa da fare. Quell’intreccio di note che prima di allora non era mai esistito era ancora presente, scolpito in profondità, nella sua mente. Allora si spostò in cucina e aprì il rubinetto del gas.

giovedì 23 febbraio 2012

UNA TAZZINA DI CAFFE'



“Sei un tipo romantico?” mi chiede.
Non c’è che dire: è bella. Ed è seduta proprio di fronte a me, al tavolino del bar. A separarci, ci sono due tazzine di caffè. Osservo con attenzione i suoi lunghi capelli, neri e crespi. I suoi occhi luminosi, il trucco perfetto. Le sue labbra piene. Infine, mi riscuoto e rispondo alla domanda, alla sua banale domanda. Formulata in maniera così ordinaria, irritante.
“Vedi, se tu per romanticismo intendi quell’atteggiamento comune, sdolcinato e svenevole, tutto fiori e bigliettini, tanto per intenderci, allora ti posso dire che sentimentale non lo sono per nulla.”
Lei rimane attonita. La meraviglia le ha fatto socchiudere la bocca. Intravedo i suoi denti candidi e lucidi.
“Ah no?” dice, superato l’attimo di sbalordimento.
“No” confermo. “A mio parere è dotato di autentico spirito romantico l’individuo nel quale l’emotività e le suggestioni prevalgono sulla razionalità. Tutto il resto, cioè i comportamenti melensi e stucchevoli, le apparenze spacciate per sostanza, è stomachevole e mi provoca disgusto.”
Alla mia perentoria affermazione, lei rimane di nuovo senza parole. E si inquieta. Lo si comprende dai suoi gesti. Tormenta tra le mani la bustina dello zucchero ma non la apre. Gira e rigira all’infinito il caffè, anche se non ce ne sarebbe bisogno. Probabilmente riteneva di conoscermi, e invece si è resa conto che non è così. Questo le provoca tormento interiore. Forse si è addirittura pentita di aver accettato l’invito. Porta la tazzina alle labbra, ma non beve. Mi osserva. Sospira.
Ci conosciamo da tanti anni. Lavoriamo nella stessa azienda, anche se non nello stesso ufficio. Tante volte, in tutto questo tempo, l’ho invitata a bere un caffè con me. E lei ha sempre rifiutato. La medesima cosa non è avvenuta con altri colleghi. Con loro si è sempre dimostrata molto disponibile, non c’è mai stato nessun diniego. Oggi, quasi per scherzo, per una ormai vecchia consuetudine, ho rinnovato la solita richiesta e lei, con mia enorme sorpresa, ha finalmente accettato. In un primo momento sono rimasto un po’ spiazzato, perché proprio non me l’aspettavo. Che cosa le ha fatto cambiare idea? La mia freddezza, nei suoi confronti, degli ultimi tempi? Tale comportamento ha destato in lei una curiosità che in precedenza non aveva mai provato? Non lo so, confesso che non lo so, e non ho alcuna intenzione di domandare spiegazioni.
Mi limito a stare in silenzio, e ciò accentua la sua ansia.
“Devi essere una persona molto intelligente” dice infine, rompendo quella imbarazzante condizione di quiete.
“Non ho mai fatto il test” rispondo.
“Come?” Poi comprende, tuttavia si sforza di non mostrarsi contrariata per la mia espressione derisoria. Posa la tazzina. Noto che la sua bella mano sta tremando. Ha le unghie dipinte di blu.
“Intendevo dire che tu sei piuttosto colto, conosci tante cose” aggiunge.
Quasi non la lascio terminare.
“A che serve?” chiedo.
Mi guarda, stupita.
“Tutta la mia cultura - sempre se ciò corrisponde al vero, cioè se tu davvero hai ragione, se la tua valutazione è corretta – e tutto quello che ho appreso, a che cosa mi servono?” domando.
Sgrana gli occhi, i suoi occhi luminosi, bellissimi, con le ciglia di una lunghezza infinita.
“Non lo so” dice, con un filo di voce. Già, quella voce così bella, chiara e squillante, nella quale ora però si scorge una strana inflessione dovuta al panico, alla totale confusione.
“Te lo dico io. Tutto ciò non è utile a nessuno. O forse è utile soltanto a me stesso. Forse. Non ne sono del tutto sicuro.”
Allora lei si sforza di sorridere, ma non ci riesce. Dopo un istante le sue splendide labbra si deformano, assumono una piega triste e sconsolata che lei non riesce a correggere.
Porto la tazzina alle labbra e bevo rapidamente il caffè. Tutto di un fiato, tanto ormai è quasi freddo. Lei, il suo, non lo ha bevuto.
“Andiamo?” dico.
Lei annuisce, con un atteggiamento di immensa infelicità.
Ci alziamo. Io mi dirigo risoluto verso l’uscita del bar. Lei rimane in piedi, immobile e affranta. Mi cerca con gli occhi. Quanto sono belli i suoi occhi! Non mi stancherei mai di guardarli.
“Avevi già pagato?” domanda, timorosa. Tutta la sua sicurezza, quella che ha sempre sfoggiato, è svanita. Che cosa le ho fatto per ridurla così?
“Mi dispiace, ma ho lasciato il portafoglio in ufficio” dico, con indifferenza.
“Ah! Allora pago io” dice, affranta.
“Grazie per il caffè” rispondo mentre esco dal locale.

domenica 19 febbraio 2012

ONCE UPON A TIME... SANREMO



Mi tocca. Anche quest’anno non riesco a sottrarmi dall’occorrenza di esprimere alcune osservazioni sull’appena defunto Festival di Sanremo.
Sarà perché in epoca giovanile mi sono occupato con passione di critica musicale (ma si trattava di tutt’altra musica…) oppure per puro masochismo, o semplicemente perché la rassegna canora è, in ogni caso, un evento di costume riguardo al quale nessuno rinuncia a pronunciare un’opinione.
E il giudizio, come di consueto, non può che essere negativo.
Certo, è gioco facile sparare sul niente, direte, tuttavia è un esercizio che risulta essere divertente.
Preciso che non ho trascorso molto tempo davanti al televisore. Non possiedo la pazienza necessaria. Tutto è troppo lungo, dilatato oltre misura, interminabile. Sono eccessive le interruzioni pubblicitarie, che detesto. Comunque ho ascoltato con attenzione i brani in gara (per fortuna esistono alternative al maledetto video) e ho letto i commenti degli addetti ai lavori. Insomma, so di che cosa parlo. Le mie non sono considerazioni da bar. O da ufficio.
Vorrei iniziare dalle esibizioni di Celentano, che tante polemiche - del tutto prevedibili – hanno suscitato. Alla fine ne è stato travolto il solo direttore artistico della manifestazione, che ha rinunciato all’incarico per il futuro. Con troppi anni di ritardo, ritengo.
Bisogna dire che alcune persone – in particolare nel mondo artistico – non possiedono la virtù di saper invecchiare bene. Bene, Celentano rientra tra questi. Livido, acido, rancoroso, il Predicatore del Nulla è passato, rapido, dal patetico al ridicolo. A tale proposito rimane poco altro da aggiungere. Mi permetto soltanto di offrire un minimo suggerimento: se lui proprio non ama Famiglia Cristiana e l’Avvenire (che ossessione!)  si limiti a non leggerli. Io l’ho fatto, da sempre, e mi trovo bene.
Poco da dire anche su Morandi. Impacciato, inadeguato, – fin dalla scorsa edizione – è sembrato di continuo a disagio, del tutto fuori posto. Imbarazzato e imbarazzante.
E Rocco Papaleo? Ecco, adesso ne ho parlato. Tale spazio mi pare più che sufficiente.
Inoltre: vallette mute, vallette ridanciane, vallette di ripiego. Tutta spazzatura. Così come gli ospiti, presunti comici e intrattenitori, o attorucoli in cerca di promozione imposti dalla produzione (Rai).
Nel contorno, salverei soltanto le pregevoli, originali e fantasiose coreografie di Daniel Ezlarow, certamente gradevoli. E porrei l’accento, soprattutto, sulle esibizioni di autentiche artiste quali Patti Smith e Noa, alle quali è riuscita l’impresa di nobilitare, ancorché per qualche minuto, lo sgangherato carrozzone e, allo stesso tempo, è toccato il merito di rivelarne le miserie.
E le canzoni? Vale a dire ciò che dovrebbe rappresentare l’elemento principale, essenziale, imprescindibile del Festival? Su tale fronte, desolazione assoluta. Un livello qualitativo ancora più basso rispetto a quello già non eccelso dell’anno passato.
Naturalmente hanno vinto le peggiori, come da tradizione quasi sempre rispettata. Non poteva essere altrimenti, dal momento  che la valutazione era affidata, in misura preponderante, al televoto. Al televoto? Allora vuol dire che quelli che hanno contribuito al successo finale della strillante Emma (brava ragazza, per il resto…) oltre che del ragazzino che non sa cantare sono gli stessi che per ben tre volte hanno condotto alla vittoria – in Festival molto più importanti – quel tipo ricco, basso e pelato, sempre circondato da giovani “ammiratrici”? Sì, temo proprio si tratti della stessa maggioranza, rimpolpata nell’occasione da qualche adolescente rimbambito dalla televisione o dalle troppe ore passate in rete sui social networks.
Permettetemi un’analogia artistica. Ieri hanno trionfato al Festival del Cinema di Berlino i fratelli Taviani con il loro film “Cesare deve morire”. Chi è stato a decretare questo importante e ambito riconoscimento? Una giuria ristretta e selezionata composta da persone competenti oppure il televoto? A voi la risposta.
Chiudo la digressione e torno alle canzoni del Festival. Alla nostra pochezza.
C’è qualcosa da salvare in ambito musicale? Come sempre, sì, pur con scarso entusiasmo.
Innanzitutto, i Marlene Kuntz, i veri alieni della gara canora. Anche se non al loro meglio hanno comunque dimostrato che si può fare musica con passione, onestà e spessore. Sostanza, e non solo plastica. Discreti Irene Fornaciari con il grazioso brano di Davide Van De Sfroos (anche lui non al suo meglio) ed Eugenio Finardi il cui pezzo, ben interpretato e in apparenza valido, si è un po' sfarinato ai ripetuti ascolti diventando tedioso. Originale e fuori dal coro, come al solito, Samuele Bersani. 
E tra le giovani proposte? Interessante Marco Guazzone, una sorta di miscuglio tra Muse e Coldplay in salsa nostrana e, soprattutto, la brava e delicata Erica Mou, con il suo brano intenso e vagamente stralunato.
Tutto qui. A questo punto vorrei fare, a me stesso, una solenne promessa. Quella di non ricascarci più, e di non occuparmi mai più di Sanremo. Sono sicuro che per quasi un intero anno riuscirò a mantenere tale proponimento. Poi, chissà…
Gli esseri umani, per loro natura, sono deboli e adorano farsi del male.

giovedì 16 febbraio 2012

L'AMORE AI TEMPI DELLA CRISI



È buio. Anna è ferma all’incrocio, nel solito posto, quello di tutte le sue notti.
Le sue gambe, lunghe e sottili, sono nude. Rabbrividisce. Lo striminzito giubbotto di pelle, rosso vivo, non riesce a riparare il suo corpo dal freddo. La ragazza prova un po’ di invidia per la sua collega Silvia, appostata a un centinaio di metri, per la sua lunga e calda pelliccia, che copre il niente. È uno stato d’animo che dura un attimo. No, lei non indosserebbe mai una pelliccia, perché è una convinta animalista. E, nel pensare ciò, si accorge di nutrire per la condizione di Silvia non più gelosia ma una lieve rabbia. Scuote il capo, tra sé, quasi incredula di quanto possa essere volubile la natura umana.
Si avvicina un’auto di grossa cilindrata. Rallenta fin quasi a fermarsi. Molte ombre dietro ai vetri appannati. Agitazione. Un flebile ronzio e un finestrino si abbassa. No, di sicuro non si tratta di clienti.
“Puttana!” grida il ragazzo che è alla guida. Risate e schiamazzi. Anche lei sorride. Una violenta sgommata e l’auto si allontana nella notte.
Puttana. Ad Anna piace quella parola, dal suono spesso e rotondo. Da poco ha scoperto che significa fanciulla. Il resto non lo ricorda, le basta sapere quello. In fondo, che cos’è lei, se non una giovane fanciulla? Perché quel termine è ritenuto offensivo? Poveri ragazzi, considera, così vuoti e così stolti.
Adesso la ragazza ha veramente freddo. I suoi piedi, infilati in scarpe leggere dal tacco smisurato, sono congelati. Così come tutto il corpo, che inizia a tremare percorso da brividi difficili da controllare.
Anna sogna un abitacolo caldo e confortevole, una dolce musica di sottofondo. Il resto, che importa…
Il suo desiderio alla fine si avvera. Una scalcinata utilitaria si ferma accanto a lei. L’uomo si sporge, armeggia sulla manovella del vetro, che si abbassa a fatica, di sbieco. Sblocca la portiera. Anna sale, e come sempre va incontro all’ignoto. Il cliente, un anonimo individuo di mezz’età, riparte senza pronunciare una sola parola. La ragazza non si stupisce, è abituata a quel genere di atteggiamento. Timidezza, imbarazzo, senso di colpa o chissà cos’altro. Quel comportamento, benché strano, è comunque comprensibile. Lei ci è avvezza. Fa parte del suo mestiere.
“Fa freddo” rompe il silenzio Anna. “Non potresti accendere il riscaldamento, per favore?”
Alla musica, invece, ha ormai rinunciato. Ha visto che l’autoradio non c’è.
Un grugnito, poi l’uomo si volta. Osserva la ragazza con attenzione per la prima volta.
“Mi dispiace ma non funziona” dice, con voce roca, da accanito fumatore.
“Ah!”
“Non funziona più nulla” aggiunge il cliente.
“Come?”
“Anche i tergicristalli sono rotti. Per fortuna non piove.”
Nella ragazza subentra un po’ d’inquietudine. Quel tipo è di sicuro un po’ bizzarro, ma non sembra pericoloso. Lo spera. Guida con gli occhi incollati al parabrezza, le sue mani sono aggrappate al volante. Ad Anna ricorda un grosso pappagallo appollaiato sul trespolo. Quasi le scappa da ridere, poi si trattiene. Chissà, forse è una persona permalosa, meglio non rischiare.
Il tragitto dura poco. Una svolta improvvisa in una via buia, poi l’uomo spegne il motore.
“Qui?” domanda la ragazza. Lui annuisce. Poi infila la mano nella tasca dei pantaloni, estrae una banconota dal logoro portafoglio e la porge ad Anna.
Lei sbatte gli occhi, cerchiati, dal trucco pesante.
“Dieci?” dice, stupita. “Mi spiace, ma con dieci non si può fare…”
L’uomo la interrompe con un cenno. Lei tace. Adesso ha un po’ paura.
“Sono sufficienti per parlare con te dieci minuti?”
Meglio assecondare, riflette la ragazza.
“Sì, certo…”
“È tutto quello che ho” dice l’uomo. Il suo atteggiamento di colpo diventa mesto, contrito. Forse prova vergogna. Di se stesso, della situazione in cui si è cacciato, della sua misera condizione.
“Tra un mese non avrò più la cassa integrazione. Non mi potrò più permettere questi piccoli lussi” dice l’uomo, che tenta di condire quelle parole con uno stentato sorriso.
“Mi spiace”. Anna non sa cos’altro aggiungere. Adesso l’uomo le fa un po’ pena.
Lui appoggia il capo al volante.
“Se vuoi, potremmo lo stesso fare…” inizia a dire Anna. Subito si pente della sua avventatezza.
“No! Non voglio la pietà di una…”
“…puttana?” conclude Anna, serafica.
“Scusami, non volevo offenderti…”
“Non preoccuparti, non me la prendo per così poco.”
“Sto perdendo tutto, non voglio perdere anche la mia dignità, capisci?”
“Credo di sì. Perché sei venuto a cercarmi, allora?”
“Perché non so più con chi parlare. Tutti mi trattano come un appestato. Anche la mia famiglia. Nessuno lo dice, ma tutti mi considerano un fallito. Lo capisco da come mi guardano. Il mio unico intento era quello di sfogarmi.”
“Lo hai fatto? Adesso ti senti meglio?” domanda Anna.
L’uomo scrolla le spalle. I suoi occhi sono lucidi.
“Non lo so. Adesso ti riporto indietro.” Un uomo sconsolato. Un uomo finito.
“Grazie” dice Anna. In mano ha ancora la banconota. La piega in due e la introduce nella borsetta.
L’uomo segue il suo gesto. Lo approva.
Anna, in cambio, gli regala un sorriso.
“La tua dignità è salva” dice.
L’uomo accende il motore.

martedì 14 febbraio 2012

LA DELUSIONE



Lui non usciva mai. La sera prima, però, aveva fatto un’eccezione. Una delle poche. Pregato, implorato dai suoi amici aveva acconsentito a trascorrere la serata in un locale. Dapprima, come sempre gli accadeva in quelle occasioni, si era annoiato. Quasi subito si era pentito. Lui non beveva. In più, la musica era molto fastidiosa. Il volume, alto in maniera esagerata, impediva di parlare. E poi, tutta quella confusione era davvero insopportabile. Provocava un fastidioso senso di stordimento. E di smarrimento. Perché la gente si ostinava ad accalcarsi in quei posti? Non riusciva proprio a comprenderlo. Non ne  intuiva lo scopo. Eppure sembrava che tutti, tranne lui, si stessero divertendo. Un divertimento forzato, del tutto innaturale, ma quella era solo una sua sensazione.
A un certo punto della serata avevano incontrato alcuni amici. Non suoi, ma degli altri. Con loro c’era una ragazza. Aveva superato l’imbarazzo ed era riuscito, sebbene con grande fatica, a scambiare alcune parole con lei. E aveva scoperto di avere di fronte una persona piuttosto riservata ma simpatica. Si erano scambiati alcune informazioni. Le solite: i nomi, gli studi, i principali interessi. Il numero di telefono no, quello non aveva osato domandarlo. La ragazza, a differenza di tutte le altre presenti, non era molto appariscente. Infatti non attirava l’attenzione di nessuno. Era tutta per lui, e ciò lo aveva reso contento. Odiava la competizione, soprattutto quando si trattava di ragazze. Preferiva non partecipare a quelle sfide, in tal modo la sconfitta risultava meno bruciante. Perché usciva sempre battuto, per manifesta inferiorità, come gli piaceva pensare con morbosa soddisfazione. Monica, quello era il suo nome, colto nel frastuono della sala, era vestita in modo semplice. Mentre le altre erano abbigliate secondo il consueto e banale stile finto-trasandato lei, pur nella sua essenzialità, appariva elegante. Aveva classe. Alla fine il tempo era trascorso in fretta e quasi non si era reso conto che si era fatto tardi, che era ormai ora di rientrare. I due gruppi di amici si erano riuniti all’uscita, e si erano accordati per rivedersi il giorno dopo, alla stessa ora, nel solito locale. E tutti erano rimasti molto sorpresi quando anche lui aveva acconsentito. Per mesi si era rifiutato di uscire, e ora quella decisione suscitava stupore. Ma nessuno aveva sottolineato più di tanto quella sua scelta. Erano stati scambiati dei fuggevoli sguardi, degli ammiccamenti, ma nulla di più.
Quella notte non era riuscito a prendere sonno. Non era stato capace di scacciare dalla mente l’immagine della ragazza. Che, di momento in momento, diventava sempre più bella, sempre più affascinante. Al mattino era rimasto a lungo a contemplarsi davanti allo specchio. Che cosa ci trovava una ragazza come quella in uno come lui, insignificante e tutt’altro che attraente? Forse aveva colto in lui quelle qualità che sapeva di possedere ma che non riusciva mai ad esprimere in pieno? Sì, forse era così, perché quella ragazza, Monica, era molto intelligente e perspicace. In ogni caso, era certo di essersi innamorato di lei. Era stato sufficiente lo spazio di una serata. Inoltre, era convinto di essere ricambiato nel suo sentimento. Poteva sembrare incredibile. Ma era così. L’incredibile era accaduto. Chissà, forse aveva incontrato la donna della sua vita.
La giornata a scuola era stata un vero tormento. Distante, svagato, non era riuscito a concentrarsi su nulla. Per fortuna non era stato interrogato. Sarebbe stato un disastro. Per tutto il tempo aveva pensato a ciò che avrebbe potuto dire a Monica quella sera. A evocare argomenti di conversazione e a formulare pensieri profondi, argute considerazioni. Si era anche chiesto, provando un po’ di disagio, fino a che punto avrebbe potuto spingersi con lei. Non era un gran esperto di corteggiamento, tanto valeva ammetterlo, quindi sarebbe stato facile compiere passi falsi. In ultimo aveva deciso che, a un certo punto, ancora da stabilire, le avrebbe preso la mano e, tenendola tra le sue, l’avrebbe accarezzata a lungo. In seguito alla sua reazione avrebbe stabilito come procedere. Tuttavia era consapevole che l’improvvisazione non era la sua dote più spiccata. Pensando a tutto ciò, sudava.
Il pomeriggio, invece, era trascorso in fretta. Naturalmente non era riuscito a studiare. Si era limitato a stare seduto sul divano, a pensare. Forse aveva anche dormito un po’. Era stanco, nel corpo ma soprattutto nella mente. Non era riuscito a cenare e i suoi genitori si erano meravigliati. Di solito il suo appetito era molto robusto. Ultimati i preparativi, tra i quali un’accurata rasatura e un’attenta vestizione, era finalmente uscito. Era impossibile frenare i battiti del cuore. Le mani erano gelate. Quasi in trance, aveva raggiunto gli amici nel luogo di ritrovo stabilito poi, tutti insieme, si erano diretti al locale, dove avevano appuntamento con l’altro gruppo. E con Monica.
Durante il tragitto, compiuto camminando in modo rigido e senza pronunciare una sola parola, aveva notato i suoi amici osservarlo con preoccupata attenzione. Allora aveva cercato di sorridere per rassicurarli ma non ci era riuscito. I suoi muscoli facciali avevano smesso di funzionare.
Infine erano arrivati, gli altri li stavano già aspettando.
Lei non c’era. 

lunedì 13 febbraio 2012

TRAGEDIA GRECA



Il parlamento di Atene, dopo un’interminabile e sofferta discussione, si è espresso a favore delle misure richieste (imposte?) da Unione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale, da accogliere in cambio di ulteriori aiuti da utilizzare per tentare di scongiurare una bancarotta che in verità sembra ormai difficile evitare. Per l’intera giornata di ieri, fino al voto finale avvenuto in tarda serata, una folla di manifestanti ha stretto d’assedio la sede dell’organo legislativo. Ci sono stati incidenti, scontri con le forze dell’ordine, palazzi date alle fiamme e numerosi feriti. Tra i contestatori hanno fatto la loro apparizione gruppi di black-bloc, incoraggiati nella loro azione dai comuni cittadini, esasperati e disperati. La decisione dei parlamentari ha avuto pesanti ripercussioni anche sulle forze politiche. Alcuni deputati appartenenti ai partiti che sostengono il governo Papademos si sono rifiutati di dare l’assenso all’ennesima dura manovra economica e sono stati espulsi dai rispettivi gruppi. Sono state indette in gran fretta le elezioni politiche anticipate, che si terranno già ad aprile. Insomma, la Grecia sta precipitando nel caos. La sua tenuta sociale è sempre più in bilico, i disordini sono purtroppo destinati ad aumentare.
I provvedimenti adottati riguardano, tra l’altro, l’abbassamento del salario minimo garantito, interventi sulle pensioni, ulteriori licenziamenti di dipendenti pubblici. La solita ricetta che colpisce ancora e sempre di più i ceti medi e, soprattutto, gli strati più deboli della società ellenica.  
È in corso, dunque, l’ultimo estremo tentativo di sfuggire al fallimento dello stato nonché, in particolare, di salvaguardare gli interessi degli istituti di credito francesi e tedeschi, possessori di sostanziose quote dell’ingente debito greco.
I cittadini greci, da parte loro, ormai hanno già perso. È evidente come non siano in grado di reggere il peso della nuova manovra rigorista. Sono ormai allo stremo. Allo stesso modo anche l’eventuale default – sebbene controllato – non farebbe che peggiorare la loro già angosciosa condizione. Il ritorno a una moneta nazionale porrebbe l’economia del Paese in uno stato di estrema debolezza nei confronti dell’area dell’euro. Sarebbe necessaria e inevitabile una immediata e corposa svalutazione monetaria che, se da una parte potrebbe favorire settori quali il turismo, dall’altra comporterebbe il sostenimento di costi molto alti sul fronte delle importazioni di materie prime e prodotti finiti. In ogni caso il popolo greco è destinato a sopportare per molti anni considerevoli sacrifici e, a questo proposito, è giusto chiedersi ancora una volta se la gente, ormai provata da un lungo periodo di crisi, sia davvero in grado di sostenerli. Oltretutto, in assenza di garanzie e senza la certezza che tali rinunce possano produrre risultati.
Abbiamo avuto, proprio vicino a casa, la prima vittima della speculazione finanziaria globalizzata. Naturalmente le vere vittime sono le persone, in particolar modo i giovani, ai quali è sottratto il futuro. In ultimo, sempre parlando della Grecia, è giusto anche ricordare le enormi responsabilità della classe politica ellenica nel disastro. Corruzione, clientelismo, spesa pubblica incontrollata, bilancio dello stato volutamente alterato sono soltanto alcune delle anomalie non corrette bensì favorite da partiti che hanno tradito i propri elettori, il proprio popolo. Difformità sofferte anche dal nostro Paese e parecchio temute dagli altri stati dell’Unione Europea, impegnati certamente a proteggere in modo talvolta cieco e ottuso rendite di parte ma anche a fronteggiare un possibile tracollo in grado di travolgere tutti, virtuosi e non.
Un intero continente si sta muovendo – incerto - su un equilibrio precario. Non lo dobbiamo scordare.  

venerdì 10 febbraio 2012

VENDETTA



“Sei tu la testimone?” domanda il giovane con la cicatrice in fronte.
La ragazza è seduta su una scomoda sedia. I suoi capelli, biondastri e sporchi, sono legati in malo modo a coda di cavallo. Indossa una felpa e un paio di jeans stinti. Il suo atteggiamento è dimesso. È intimidita da quei due giovani che stanno in piedi accanto a lei. Che incombono.
“Sì, sono io”.
“Che cosa hai visto esattamente?” chiede l’altro. Il suo nome è Fabio e la sua voce è profonda.
“Aspetta” interviene Giulio. “Che lavoro fai?”
“La postina…”
“Lasciala rispondere alla mia domanda.”
“Come vuoi…”
“È accaduto una settimana fa. Mi stavo avvicinando alla casa quando ho visto che lo stava picchiando con un bastone. Tanti colpi. Mi sono fermata e ho continuato a guardare. Dopo un po’ ho notato che lui non si muoveva più. L’aveva ucciso, quel bastardo!”
“Perché non sei intervenuta?”
“Non lo so, non ne ho avuto il coraggio. E poi… avevo paura. L’atteggiamento di quell’uomo era molto violento. Ero incredula, non avrei mai pensato di dover assistere a una scena del genere. Ne sono rimasta sconvolta.”
“Come fai a essere sicura che l’abbia proprio ucciso?”
“Non si muoveva più. E poi, nei giorni successivi non l’ho più visto. Prima, era sempre lui ad accogliermi.”
“Lo dovevi denunciare” dice Giulio.
“Lo so, ho sbagliato” risponde la ragazza, affranta.
“Per quale ragione ti sei rivolta a noi?” la incalza Fabio. La sua espressione è truce.
“Mi è stato consigliato da una mia amica.”
“Sai di cosa ci occupiamo?” Ancora Giulio.
“Certo. Vi occupate di maltrattamenti, prestate assistenza a…”
“Che cosa ti aspetti da noi?” la interrompe Fabio. La giovane nota che lo sfregio sul volto del ragazzo si è improvvisamente arrossato e sembra pulsare.
“Dovete denunciarlo voi”.
Giulio scoppia a ridere. Una risata amara.
“In tal caso, sai che cosa potrebbe accadere a quell’uomo? A quell’assassino?” chiede Fabio.
La ragazza scuote il capo.
Non lo so…” sussurra.
“Bene, te lo dico io. Il suo comportamento potrebbe essere sanzionato con una multa. Sempre che si riesca a dimostrare che lui ha veramente compiuto quel crimine.”
“Certo che l’ha commesso! L’ho visto con i miei occhi!”
Fabio sbuffa.
“È passato troppo tempo. Quel bieco individuo avrà di sicuro occultato il cadavere. Negherà tutto. Probabilmente non gli succederà nulla e rimarrà impunito. E lo rifarà.”
“Allora non potete proprio fare nulla?” domanda la ragazza. I suoi occhi sono lucidi.
I due giovani scambiano un fuggevole sguardo. Giulio annuisce.
“Forse possiamo fare qualcosa” dice.
La ragazza, di colpo, si rianima.
“Dite sul serio? E che cosa?” domanda, piena di speranza.
Fabio si abbassa, avvicina il suo viso a quello della giovane.
“Fare giustizia” sibila.
Lei sembra non capire.
“Se ne potrebbe occupare Fabio” dice Giulio, sibillino.
La ragazza rivolte a entrambi uno sguardo interrogativo.
“Ascolta” dice Fabio. “Sarà necessario procedere a ulteriori indagini, dovremo assumere ulteriori informazioni. Se ciò che hai detto sarà confermato…”
“Ho detto la verità! Quell’uomo merita una giusta punizione!”
“Ti prego, non interrompermi. Come stavo dicendo, appena avremo l’assoluta certezza della colpevolezza di quel bastardo, potremo emettere la sentenza.”
“Eh?” La ragazza sgrana gli occhi.
Interviene Giulio, mentre l’amico scuote il capo, sconsolato.
“In questi casi, la sentenza può essere una soltanto. Faremo provare a quell’uomo le stesse pene e le stesse sofferenze che lui ha inflitto a quella creatura innocente. E l’esito finale sarà fatalmente lo stesso”.
La ragazza impallidisce. Finalmente ha capito.
“Vuoi dire che lo ucciderete?”
“Certo, è il castigo che merita. Lo ammazzerò a bastonate, personalmente” dice Fabio. Il tono della sua voce è fermo, determinato.
“Ma…”
“Sempre che tu sia d’accordo” aggiunge il ragazzo.
“Si tratta di omicidio…” La ragazza è sconvolta, quasi non riesce a parlare.
Fabio scrolla le spalle.
La ragazza, confusa, proprio in quel momento rivede nella sua mente la scena alla quale ha assistito alcuni giorni prima. Arricchita da particolari che aveva rimosso. Il bastone che cala più volte su quel piccolo cranio, il sangue che sgorga copioso e si sparge sul pelo, i guaiti dapprima stupiti e poi disperati. Il silenzio che segue. Il gelo che la pervade. L’ignobile fuga.
“Ma voi chi siete veramente?” riesce a domandare infine con un filo di voce.
“Molti ci definiscono angeli…” dice Giulio.
“Tuttavia agli angeli a volte tocca fare anche il lavoro sporco” aggiunge Fabio.
“Chi si occupò di Sodoma e Gomorra?” completa Giulio, quasi divertito.
“Fatelo” dice la ragazza.
“Tu non ci hai mai visto” dice Fabio.
“Io non vi ho mai visto.”