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sabato 29 dicembre 2012

LA GARA




Polmoni bruciati

Umori caldi e copiosi

Rantoli disperati

Poi, il traguardo e l’apoteosi

(1986)

mercoledì 26 dicembre 2012

PRONTI? VIA!



Con lo scioglimento delle Camere, avvenuto subito dopo l’ufficialità delle dimissioni di Mario Monti, è stato compiuto l’ultimo atto formale relativo all’attuale travagliata legislatura, collocata ormai definitivamente in archivio. E che da oggi può essere considerata passato.
È partita la corsa al voto, che sarà caratterizzata da una campagna elettorale piuttosto breve e che vivremo in un periodo inconsueto. Il voto è stato fissato per la fine di febbraio. Le forze politiche in campo hanno quasi ultimato il loro riposizionamento, stanno definendo i programmi, scegliendo i candidati da proporre nelle liste. Si voterà con la vecchia legge elettorale, uno strumento inadeguato, che mortifica la rappresentanza, che lascia assoluta mano libera ai partiti riguardo le candidature. Una legge che però non sarebbe stato opportuno cambiare proprio nell’immediatezza delle elezioni. E così infatti è stato perché nessuno, tra i contendenti, aveva un reale interesse a farlo.  L’unico pregio del “Porcellum” è quello di assicurare una netta maggioranza (almeno in uno dei due rami del Parlamento) alla coalizione vincitrice del confronto elettorale.
Anche l’ultimo dubbio che aveva tenuto tutti con il fiato in sospeso nell’ultimo periodo si è finalmente sciolto: l’attuale Presidente del Consiglio non presenterà una propria lista, e non sarà direttamente in lizza. Insomma, non si sottoporrà al giudizio degli elettori. Rispetto a ciò, alla fine, è prevalso l’orientamento più volte espresso (in pubblico e nelle conversazioni private) dal Presidente della Repubblica: Mario Monti è già un parlamentare della Repubblica, essendo stato nominato senatore a vita proprio da Giorgio Napolitano, e dunque la sua candidatura sarebbe apparsa non conveniente.
Monti, tuttavia, non rinuncia del tutto a ritagliarsi un ruolo futuro a livello di impegno nelle istituzioni. Nella sua conferenza stampa di fine legislatura il professore ha detto che, nel caso in cui una o più forze politiche che si riconoscano nella sua Agenda d’intenti intendano proporre la sua candidatura a Primo Ministro, lui non si tirerebbe indietro. Da queste parole deriva la precisa intenzione di Monti di riproporsi per poter portare a termine il risanamento del Paese, avviato e condotto nell’ultimo anno con discreti risultati ma da implementare soprattutto con robuste misure rivolte allo sviluppo, la parte del programma del suo esecutivo che più di tutte è rimasta non attuata, in quanto condizionata, come pure altri importanti aspetti, dall’anomala maggioranza che sosteneva il governo. A proposito, c’è chi ha fatto notare che anche l’annunciata equità non è stata molto perseguita. Il Paese, a distanza di un anno, sta decisamente meglio, è stata ritrovata quasi del tutto la credibilità a livello europeo e internazionale che era ormai stata smarrita, tuttavia i cittadini più deboli (il loro numero continua ad aumentare) stanno soffrendo come e più di prima. Servono con urgenza politiche fiscali che consentano una migliore redistribuzione delle risorse, e occorre soprattutto agire con determinazione a favore del lavoro. Tutto questo può essere realizzato al meglio soltanto da un governo politico, sostenuto da una maggioranza omogenea e robusta. Ci si chiede se esistano le condizioni, nel quadro politico che si potrà delineare dopo il voto, affinché ciò possa essere fatto. Ci si domanda infine chi potrà in concreto metterlo in atto. In definitiva, chi vincerà le elezioni?
La coalizione di centro-sinistra è, fra tutte, la grande favorita. E quasi certamente si imporrà. Il dubbio è se si tratterà di una vittoria limpida, che possa consentire di fare a meno di ulteriori alleanze post-voto. Tale eventualità, cioè quella di dover ricorrere all'appoggio di altre forze politiche, potrebbe purtroppo verificarsi, dal momento che la legge elettorale permette una affermazione netta in uno dei due rami del Parlamento ma non necessariamente in entrambi (il punto debole è il Senato). A quel punto potrebbe rientrare in pista proprio Mario Monti, appoggiato dal raggruppamento di Centro che si sta definendo attorno a Casini, al ministro Riccardi e a Montezemolo. Ma il PD, e il suo leder Bersani, pur vincitori, sarebbero disposti a fare un passo indietro a favore del professore? Forse no, per ovvie e condivisibili ragioni. Il rischio di instabilità e di conseguente ingovernabilità è dunque elevato.
La coalizione di centro-destra è invece fuori dai giochi, destinata a sicura sconfitta nonostante lo schizofrenico impegno dell’antico leader Berlusconi, che per l’ennesima volta e con la solita sconsideratezza (e arroganza) si è ributtato nella mischia. La rinnovata o meno alleanza con la Lega Nord, da parte del PDL, appare invece come del tutto ininfluente. Il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo otterrà comunque un buon risultato (in ogni caso inferiore alle aspettative che si erano create non più di un paio di mesi fa). Si tratterà comunque di voti e di seggi non spendibili, destinati a rimanere congelati per l’intera durata della legislatura. Nel prossimo Parlamento l’opposizione sarà robusta, ma frammentata e non in grado di agire con unità d’intenti.
In conclusione, le ragioni per essere ottimisti non sono molte. L’incertezza continua a regnare, accompagnata da una certa inquietudine. La prossima legislatura sarà decisiva per dire se il nostro Paese ce la potrà fare ad allontanare definitivamente la crisi, e se si riuscirà a invertire la deriva negativa che ci assilla ormai da tempo. È doveroso però essere fiduciosi. Almeno per ora, in attesa degli eventi futuri.

sabato 22 dicembre 2012

RAGIONE E SENTIMENTO



Appena seduti, ci scrutammo a lungo. Occhi negli occhi. A lungo.
Non è semplice sostenere per tanto tempo lo sguardo di un’altra persona. Quasi impossibile da fare se si tratta di uno sconosciuto. Oppure di una sconosciuta. Tale esercizio per riuscire richiede, da parte dei due, l’esistenza di un elevato grado di confidenza, esige intimità e complicità.
Eppure io lo stavo facendo, senza alcun timore. Assenza assoluta di smarrimento. In me, e anche in lui.
Il locale che avevamo scelto, per puro caso, era senza dubbio squallido. Nient’altro che un misero bar di periferia. Il primo che avevamo trovato dopo un prolungato girovagare. Stanchi, eravamo entrati e ci eravamo accomodati a un tavolino proprio in fondo, un po’ nascosto.
Oltre a noi due, naturalmente, non c’era nessuno. Perché era un orario particolare, un momento indefinito. Né carne né pesce. Non era mattino, quando gli avventori si precipitano al bancone ordinando brioches, caffè e cappuccini. O panini alla mortadella e un bicchiere di vino bianco, se si tratta di camionisti. Sì, quello sembrava proprio un bar per camionisti, e per  frettolosi operai. Di quelli che mentre azzannano il sandwich buttano un’occhiata distratta ai giornali sportivi, a qualche donna presente nel locale. E poi se ne vanno a lavorare compiaciuti, con lo stomaco pieno e un sorrisino sulle labbra. Un illusorio buon umore destinato a spegnersi presto, appena inizieranno a faticare.
E non era nemmeno l’ora del pranzo, con tutti quei piatti e piattini colmi di cibo di plastica malamente riscaldato che viaggiano tra un tavolo e l’altro in una immensa confusione e che vengono ingurgitati in tutta fretta.
Il bancone era vecchio, rivestito di formica di colore verde chiaro.
Era invece pomeriggio, per esattezza l’ora del tè. Ma in locali come quello nessuno beve tè. Per tale ragione eravamo soli. Il barista, al nostro ingresso, si era sforzato di essere gentile. Però si intuiva la sua fretta. Quella di chiudere, probabilmente, perché considerava la sua giornata ormai conclusa. Di sicuro il suo non era un posto da frequentare la sera. Quindi si percepiva la sua impazienza, la sua voglia di rovesciare le sedie sui tavolini, di passare uno straccio lurido sul pavimento lercio, di rimettere al loro posto bicchieri, tazze, tazzine e bottiglie, e di abbassare finalmente la pesante serranda arrugginita. E invece no, non lo poteva fare, perché noi avevamo avuta la bella pensata di entrare proprio in quel momento cruciale. Quando non ci eravamo fermati al bancone ma ci eravamo diretti risoluti, un po’ furtivi, al tavolino nell’angolo, per un istante avevo letto nei suoi occhi sbiaditi la più limpida disperazione. Un attimo, soltanto un attimo, poi l’uomo si era ripreso, aveva atteso qualche minuto e poi si era avvicinato a noi per prendere le ordinazioni.
Ci eravamo rifugiati in quel bar non per desiderio di consumare qualcosa, ma perché sfiniti, non tanto nel corpo quanto nell’anima. Ci stupimmo quasi quando l’uomo si accostò. Che cosa voleva da noi quel tipo? Poi recuperammo un lembo di lucidità, ben poca in verità, il minimo necessario per ordinare due caffè. Quando si è colti alla sprovvista si finisce sempre per ordinare un caffè.
Fuori, attraverso la vetrata, vedevamo scorrere un traffico incessante di automobili. Le lame di luce dei fari fendevano lo scuro nascente del pomeriggio invernale.
Ci guardammo. Ancora e ancora, finché un lieve sorriso deformò la linea delle nostre labbra screpolate.
Lui appoggiò la sua mano sulla mia. Mi accarezzò con finta indifferenza la punta delle dita. Poi la spostò sul dorso. I suoi gesti erano incerti e impacciati, perché io stavo immobile, non reagivo e mi limitavo a fissarlo, anche se il mio corpo era percorso da brividi. Mi sistemai meglio sulla sedia. Nel farlo, mi avvicinai di più a lui, sporgendo il busto in avanti. Lui, con l’altra mano, mi scostò una ciocca di capelli. Lo fece in maniera goffa, ma con grande tenerezza. I suoi occhi chiari brillavano febbrili.
Piegai il capo di lato, imbronciai le labbra, cercai di assumere un’espressione che apparisse allo stesso tempo seducente e divertita.
“Che cosa vorresti fare?” domandai.
Mi godetti per alcuni secondi il suo stupore, il suo grande sbalordimento. Sapevo bene che cosa avrebbe voluto rispondere. Sapevo bene che non lo avrebbe fatto. E infatti.
“Non lo so” disse.
La sua mano si era spostata sulla mia coscia.
“Tu sai che cosa voglio” aggiunsi. E lui comprese. Nello stesso momento intesi il suo sconforto, il suo profondo abbattimento. Subito mi pentii della mia affermazione. Troppo diretta, addirittura crudele, ma ormai era troppo tardi.
Colpito, cercò comunque di reagire, facendo ricorso alla sua abituale elegante eloquenza. Una dote che, quando era solo con me, spesso smarriva.
“Un saggio cinese diceva che quando stai per essere travolto dagli avvenimenti della vita ti devi fermare” disse, incerto.
“Non capisco” risposi, anche se non era vero. Lui cercò di precisare, ma era in difficoltà.
“Dobbiamo smettere di correre” disse. “Cerchiamo di congelare questo momento, che dovrebbe essere bello e non doloroso, e riflettiamo. Cerchiamo di usare la ragione, non roviniamo tutto.”
“Il sentimento prevale sempre sulla ragione” dissi.
Lui mi accarezzò la spalla, la massaggiò per alcuni istanti. Poi ritirò la mano, sconfitto. Abbattuto. Annientato. Il suo volto, una maschera di dolore e tristezza.
I caffè, nel frattempo, si erano raffreddati. Li bevemmo lo stesso. Poi lui guardò l’orologio.
“Per te è tardi” disse, con un filo di voce.
“È vero, non mi ero accorta che fosse trascorso così tanto tempo”.
Presi il giaccone e lo indossai, lui fece lo stesso. I nostri gesti erano lenti, sofferti. Andò alla cassa e pagò. Il barista non riuscì a nascondere il suo sollievo. Ci diede la buonasera con eccessivo entusiasmo, e in tal modo si tradì.
Uscimmo fuori, al freddo e al buio. Il gelo autentico era però racchiuso all’interno dei nostri corpi. Fui assalita da un tremendo senso di sconforto. Nessuno dei due parlò per alcuni minuti. Infine ci lasciammo, con un saluto timido, appena sussurrato. Lo osservai sparire nella foschia, il passo trascinato, ingobbito.
Avevo recitato la mia parte, e non avevo potuto evitare di farlo. Era essenziale per conservare la stima nei confronti di me stessa. Tuttavia per lui provavo compassione. Una pena che in breve si trasformò in rinnovato affetto, forse anche qualcosa di più ma che non osavo ammettere. In fondo aveva cercato di essere leale, non aveva tentato di incantarmi. Meritava il mio rispetto.
Avrei tentato di rimediare l’indomani, quando ci saremmo rivisti. Perché era qualcosa a cui non potevo rinunciare. Almeno per il momento…

domenica 16 dicembre 2012

ERA D'INVERNO



Era d’inverno, quando lo incontrai dal medico. La sala d’attesa, piccola e opprimente, era affollata. Vidi una sola sedia libera, sulla quale era appoggiata una borsa. Un uomo la tolse, e mi fece segno di accomodarmi. Lo ringraziai, spiando appena il suo volto. Intravidi una massa di capelli castani, uno sguardo curioso posato su di me.
“Fa molto caldo” disse dopo un po’.
“Sì” risposi.
“L’attesa purtroppo sarà lunga” aggiunse lui, timidamente.
“Già” dissi, imbarazzata.
Venne il suo turno, poi finalmente il mio. La visita fu breve. Andai fuori e lo trovai sul bordo della strada. Stava aspettando proprio me. Me lo disse quando mi vide, dopo aver gettato la sigaretta che stava fumando.
“Sei a piedi?” mi domandò.
Mi rendo conto che avrei dovuto ignorarlo e tirare dritto, come avrebbe fatto chiunque. Invece il suo tono gentile, il suo lieve sorriso, il colore caldo della voce mi indussero a rispondere.
“Sì, non abito molto lontano” spiegai a quell’uomo sconosciuto.
“Scusa, io sono Marco. Ti posso accompagnare?”
Gli porsi la mano e feci segno di sì con il capo.
“Mirella” dissi. “E sono sposata.”
“Ho una compagna” rispose lui, serio. Ci guardammo per un lungo istante, poi scoppiammo a ridere. Fu uno sfogo di allegria strano, forse inopportuno, eppure nessuno dei due riuscì a frenarlo. Una risata liberatoria. Seguì un momento di imbarazzo, quindi ci incamminammo.
Era d’inverno, anche se non faceva freddo. Soffiava una leggera brezza tiepida, come accade talvolta all’inizio della primavera. Dopo un po’, camminando a passo veloce, iniziammo a provare caldo e ci sbottonammo i cappotti. Non ricordo esattamente di che parlammo durante il tragitto verso casa mia, ma la conversazione non languì mai. Rammento soltanto che lui preferì soprattutto ascoltare, si limitò a interrompermi di tanto in tanto con qualche domanda appropriata, fece qualche precisa puntualizzazione. Riuscì comunque a raccontarmi alcune cose su di sé, tutte piuttosto interessanti.
Giunti davanti al mio portone ci fermammo, stando in silenzio. Nessuno dei due aveva pensato alla circostanza del congedo, non eravamo preparati al fatto che non ci saremmo rivisti mai più. Quell’aspetto della questione ci colse alla sprovvista, ci sorprese. Fu lui il più pronto a reagire, come mezz’ora prima era stato lui a prendere l’iniziativa.
“Se vuoi ci possiamo rivedere” sussurrò con un filo di voce, colto da improvvisa emozione.
“Eh?” esclamai, fingendo stupore. In realtà lui aveva pronunciato le parole che avevo desiderato sentire.
Si passò le dita tra i capelli, più volte, un chiaro segnale di disagio. Deglutì prima di parlare.
“Ascolta, se vuoi ti posso dare il mio numero di telefono. Così, se per caso ti andasse, mi potresti chiamare…”
Scrollai le spalle, fingendo indifferenza. Invece ero preda dell’ansia.
Lui si spostò sotto a un lampione, prese una penna e un pezzetto di carta e scrisse il numero di telefono. Quasi senza guardarmi me lo porse. Lo presi e lo misi in tasca, accennai un saluto con la mano e oltrepassai il portone.
Il giorno dopo lo chiamai. Da allora è trascorso tanto tempo.
Questa sera ho indossato il mio abito migliore. Quello che mi piace di più. E l’ho fatto per me stessa, soltanto per me stessa. È un vestito verde scuro, lungo fino al ginocchio, con le maniche attillate e una profonda scollatura. Le calze sono grigio fumo, le scarpe nere con il tacco alto e sottile. Mi sono truccata con cura, in mattinata sono stata dalla parrucchiera e dall’estetista. Ho fatto di tutto per cercare di essere bella. Mi avvicino al tavolo della cucina, che è apparecchiato con eleganza. Smorzo la luce e accendo una candela. Mi siedo e mi verso mezzo bicchiere di vino bianco. Freddo e secco. E penso.
Era d’inverno, ma nonostante ciò io e Marco riuscimmo a incontrarci parecchie volte. Non sapevamo mai dove andare ma questo, invece di scoraggiarci, contribuì a rafforzare ancora di più il nostro legame. Trascorrevamo ore sulla sua macchina, al freddo, in luoghi appartati. Parlavamo, ci scambiavamo effusioni, a volte ci spingemmo oltre. Oppure ci sedevamo in qualche bar per bere qualcosa di caldo, cauti e sempre vigili, le mani tra le mani, a scambiare sguardi.
Quando arrivò la primavera, la nostra storia prese il volo. Non poteva essere altrimenti. Marco da tempo era in crisi con la sua compagna. La lasciò e si trasferì da suo fratello. Lei non fece molto per trattenerlo. Era libero, ora toccava a me. Mio marito non sospettava nulla. Non sembrava notare i miei ritardi, il mio comportamento diventato stravagante, la mia continua svagatezza. La mia freddezza nei suoi confronti, l’indifferenza. A un certo punto non fui più in grado di vivere nella doppiezza. Confessai tutto. Soltanto in quel momento, dopo l’iniziale incredulità, lui reagì. Lo fece con cattiveria, con estrema meschinità. Fece di tutto per danneggiarmi, per rendermi la vita impossibile. Sia finché continuammo per qualche tempo a vivere ancora insieme, che dopo. Mi resi conto che anche lui non mi amava più. Il mio senso di colpa si attenuò, anche se non scomparve del tutto.
Era d’inverno quando lasciai per sempre lui e la mia casa, portando con me soltanto due valigie. E nessun bel ricordo.
Finisco di bere il vino. Mi alzo. Metto in tavola l’antipasto. Ho preparato degli avocado con spuma di formaggio. Ho diviso in due i frutti tropicali, li ho sfregati con il limone per non farli annerire. Poi ho frullato ricotta e mascarpone, ho aggiunto olio, sale e pepe in abbondanza. Infine ho travasato il composto ottenuto in una terrina e ho riempito gli avocado con questa spuma. Ho cosparso il tutto con erba cipollina fresca. Inizio a mangiare, lentamente, cercando di assaporare ogni boccone. Mentre penso.
Sono andata a vivere con Marco, prima in un incantevole monolocale poi in un appartamento più spazioso. Abbiamo trascorso insieme molti anni felici. Dopo essere diventati amanti diventammo anche amici. Alla fine eravamo soprattutto amici. Era bello condividere tutto con lui, viaggiare in sua compagnia. Era un uomo poco esigente, che mai ha interferito con la mia libertà personale, che per me è tutto. Poco alla volta però il rapporto si è esaurito, giorno dopo giorno si è consumato. Avremmo potuto lasciarci da buoni conoscenti, da amichevoli compagni di vita. Invece non andò così, per causa mia.
Era d’inverno quando iniziò la mia relazione con Fulvio. Lui era un amico di Marco. Lo frequentavamo da solo, perché  la sua compagna non si univa mai a noi quando organizzavamo qualcosa: una cena, un film, uno spettacolo a teatro oppure un concerto. Quella donna, che io conoscevo appena, non amava uscire. Forse non gradiva la mia presenza e quella di Marco.
Ricordo che una sera ero sola in casa, Marco era uscito con qualche amico. Sapevo che Fulvio e Giulia, la sua compagna, erano in vacanza. In Francia, mi pare. All’improvviso fui colta da uno strano impulso. Presi il telefono e mandai un messaggio a Fulvio. Nulla di impegnativo, s’intende, solo un semplice saluto. Lui rispose subito, con parole molto affettuose. E poi continuammo, anche quando lui ritornò. Quel tipo particolare di contatto era ormai stabilito, si trattava di una nuova contiguità che non prevedeva più la presenza di Marco. Cominciammo a vederci spesso, quasi tutti i giorni, all’insaputa del mio compagno. Ci capitava ancora di ritrovarci insieme, tutti e tre, e in quei momenti io e Fulvio dovevamo fingere, dovevamo forzare il nostro comportamento, stare bene attenti a non far trapelare nulla. Dopo un po’ Marco cominciò a sospettare qualcosa, per via del mio atteggiamento distaccato, dei miei silenzi, della mia insofferenza nei suoi confronti. A quel  punto era ormai certo che avessi un amante, anche se non dubitò mai del suo amico. Una triste sera, messa alle strette dopo una estenuante discussione, fui io a confessare tutto. Per Marco fu un vero  trauma. Urlò, pianse e imprecò, completamente annientato. Mi disse che anche lui aveva una storia, con una ragazza straniera che aveva conosciuto sul lavoro. Non credo fosse vero. In ogni caso non mi importava. Implorai Marco di concedermi un periodo di riflessione. Lui oppose resistenza, poi si arrese, benché a fatica, consapevole del fatto che la nostra unione fosse ormai sfasciata, rotta senza rimedio. Andai via da casa. Dapprima mi trasferii da un’amica, quindi in un residence fatiscente. Le telefonate tra me e Marco si diradarono sempre di più. La sua voce, attraverso il telefono, era sempre spezzata, piena di risentimento. Ne aveva tutte le ragioni. Lo avevo tradito e ingannato, forse anche umiliato, eppure non riusciva a farmi sentire del tutto colpevole. Avevo seguito l’impulso del cuore e, anche se avevo rovinato tutto, sapevo bene che la mia condotta, pur detestabile ai suoi occhi, era il frutto di una scelta consapevole: la predilezione di vivere, di assecondare una spinta interiore che non possedeva nulla di razionale, il non rinunciare a vivere una storia appagante.
Dopo un solo mese, trascorso tra angoscia e speranza, tra gioia e incertezza, Fulvio mi lasciò. Non intendeva far soffrire la sua compagna, disse. Preferì il mio dolore.
Era d’inverno quando ciò accadde.
Vado ai fornelli, a rifinire il primo piatto. Ho preparato dei maccheroni alla nizzarda. Ho pelato i pomodori e li ho tagliati a piccoli pezzi. Poi ho affettato delle zucchine a rondelle. In poco olio e burro ho fatto imbiondire schegge di cipolla, ho aggiunto pomodori e zucchine, salato e pepato. Dopo venti minuti di cottura a fuoco lento ho aggiunto delle olive nere snocciolate. Ora non mi resta che scolare la pasta e condirla con la salsa. Lo faccio, e me ne servo una porzione abbondante. Porto il piatto in tavola e riprendo a mangiare. E a pensare.
Era d’inverno quando, pochi anni fa, ho incontrato Giovanni a una festa di compleanno. È lui l’uomo con il quale attualmente divido la mia esistenza. Questa sera, tuttavia, Giovanni non c’è. È andato a giocare a calcetto con i suoi colleghi di lavoro. Poi andranno a mangiare una pizza e di sicuro rientrerà tardi. Lo fa spesso, ma a me non importa. Anzi, assaporo con piena soddisfazione questi momenti di libertà. Perché l’amore tra noi due è durato poco. Unire due solitudini non è stato sufficiente per rendere solida la nostra storia. Ci siamo messi insieme per noia, per stanchezza, per sfinimento. Era normale che finisse in questo modo. In verità non litighiamo mai, perché nessuno dei due ne ha voglia, ci sembra una incombenza troppo gravosa, estenuante. Preferiamo ignorarci e condurre ognuno la propria vita, senza condividere nulla, neppure il letto. Siamo due persone di mezza età con più rimpianti che aspettative.
La pasta era davvero buona, e mi sento sazia. Chissà se riuscirò ad assaggiare anche l’ultimo piatto che ho preparato, gli spinaci gratinati. Decido di sì, poiché di sicuro ne vale la pena. Ho lavato con cura gli spinaci e poi li ho spezzettati. In una grossa padella ho fatto fondere del burro, ho aggiunto gli spinaci e, dopo averli fatti cuocere per alcuni minuti, vi ho unito del parmigiano. Poi ho messo tutto in una pirofila. Adesso la estraggo dal forno, dopo quasi mezz’ora. La gratinatura mi pare perfetta, il profumo è invitante. Mi risiedo e mangio. Mi verso ancora del vino, mi accorgo che ho quasi finito la bottiglia. Mi sento un po’ annebbiata, per nulla euforica, tormentata da mille pensieri.
Era d’inverno quando, un anno fa, mi sono innamorata di Luca. Dopo tanti mesi la mia infatuazione per lui non si è ancora attenuata. Lo incontro tutti i giorni e, per motivi di lavoro, trascorriamo insieme parecchio tempo. Non ho mai avuto il coraggio di rivelargli il mio interesse. Luca non si è accorto di niente, credo. In ogni caso non ha mai accennato a ricambiare il mio trasporto, le mie affettuosità nei suoi confronti. Non è attratto da me, non gli piaccio. Sono disperata e avvilita, spesso scoppio a piangere, come mi accade in questo momento. Sento dentro di me un grande vuoto.
È di nuovo inverno, il mio corpo è percorso da brividi. Sono sola.   

martedì 11 dicembre 2012

LA MUMMIA



Che stupidi! Per lungo tempo abbiamo rincorso le complicate evoluzioni dello spread, le sue improvvise e preoccupanti impennate, come accaduto un anno fa, e poi la sua lenta e tranquillizzante ridiscesa. Salvo poi osservarne, con rinnovato allarme, la sua risalita avvenuta a partire dal giorno infausto in cui Silvio Berlusconi ha annunciato l’ennesima discesa in campo.
Che stolti! Certo, perché proprio oggi la Mummia (definizione di Libération) ha proclamato, nel suo miglior tono garrulo la frase che ha caratterizzato l’odierna giornata politica: “Che c’importa dello spread?”
D’accordo, con lo spread non si mangia. E la gente che ha fatto ormai grandi sacrifici, le persone che hanno perso il lavoro, chi non lo trova, tutti quelli che si trovano in una condizione di estrema difficoltà hanno ben altre cose a cui pensare che occuparsi degli ondeggiamenti del valore differenziale tra titoli di Stato italiani e bund tedeschi.
In ogni caso la frase pronunciata dal “buffone d’Europa” (Economist) è emblematica in quanto esprime tutta l’irresponsabilità, il livello di demenza nonché il bieco populismo di Berlusconi, appunto.
Le sue parole, naturalmente, hanno provocato inquietudine in tutta Europa. Perché, tra l’altro, il vecchio Silvio non si è limitato a un solo slogan, ma lo ha rinforzato e condito con parole aspre nei confronti della Germania e del Primo Ministro Mario Monti, al quale ha rivolto accuse del tutto inconsistenti. Chi conserva buona memoria sa bene a chi, eventualmente, debbano essere attribuite determinate colpe. A lui, tutte a lui, all’uomo che ha condotto il suo Paese sull’orlo della bancarotta e che adesso, con gran faccia di bronzo osa riproporsi in veste di salvatore.
I tedeschi, da parte loro, hanno reagito prontamente. Non ci stanno ad essere il bersaglio di una campagna elettorale avvelenata e demagogica. La replica è stata dura e immediata: è stato manifestato l’auspicio che gli elettori italiani sappiano scegliere in maniera saggia i loro futuri governati, anche se non sempre in passato ciò è avvenuto, ci permettiamo di aggiungere. Così come è stato espresso sconforto da parte di (quasi) tutte le altre forze politiche, e anche dalla Confindustria.
Con affermazioni roboanti e ottuse non si aiuta l’Italia, ma si contribuisce al suo definitivo declino.
Un valore di spread alto significa semplicemente (insieme ad altri indicatori) che i nostri titoli pubblici, per essere appetibili ed essere venduti, devono essere retribuiti con un maggiore tasso di interesse, e ciò per tutta la durata dell’emissione. Insomma, ciò rappresenta un ulteriore aggravio per il debito pubblico, che già è stratosferico. Un carico pesante che, ancora una volta, sarà ribaltato sulle prossime generazioni.
Questo piccolo particolare, tutt’altro che insignificante, sembra tuttavia non rivestire alcuna importanza per chi, come sempre, pensa soltanto ai propri sporchi e immediati interessi personali.
Alla Mummia, insomma. 

domenica 9 dicembre 2012

L'INVESTIGATORE



Sono le nove del mattino. Un ascensore traballante mi conduce al terzo piano. Esco sul pianerottolo e individuo subito la targa sulla una porta: Tom Pozzi Investigazioni. Suono il campanello e l’uscio si apre con uno scatto. Oltrepasso la soglia. Nel piccolo ingresso c’è una scrivania, dietro alla quale siede una donna bionda. Con un cenno mi invita ad accomodarmi sull’unica sedia presente, proprio di fronte a lei. Questa femmina non più tanto giovane ha le braccia allungate in avanti e le sue mani, con i palmi allargati, quasi arrivano a sfiorarmi il naso. In bocca, tra le labbra carnose e rosso fuoco, ha una sigaretta che si sta lentamente consumando.
“Si stanno asciugando” bofonchia, e nello stesso istante la cicca cade sul tavolo, senza che lei vi badi.
“Che cosa?”
“Le unghie. Non vede? Ho appena passato lo smalto” aggiunge la donna.
“Ah! Certo, lo smalto…”
Metto a fuoco le sue unghie, che si trovano a pochi centimetri dai miei occhi. Oltre che allarmanti, per la loro forma uncinata, sono tutte nere e opache, come se fossero state pizzicate nella portiera dell’automobile.
“Belle” dico.
“Grazie. Lei è un vero gentiluomo.” Poi la donna sorride, e subito dopo si passa la lingua sulle labbra. Arrossisco e mi incollo allo schienale della sedia. Mi salva il suono del telefono. Lei risponde.
“Il signor Pozzi la può ricevere, anche se non ha ancora terminato. Preferisce non farla aspettare oltre. Prego.”
Affrancato dalla presenza dell’inquietante segretaria, mi alzo ed entro nell’ufficio dell’investigatore. Lui è sistemato dietro a un enorme tavolo. Ha un tovagliolo di carta infilato nel colletto della camicia, e tra le grosse mani pelose regge un gigantesco panino alla mortadella. Mi saluta con un grugnito, perché sta masticando a fauci spalancate. Di nuovo mi accomodo, ma questa volta su una vecchia poltrona sfondata, tanto che mi sembra di essere seduto direttamente sul pavimento. La figura di quell’uomo grasso incombe su di me.
“Sto facendo colazione” dice, a bocca piena.
“Non c’è problema…”
“Annaffio e poi potremo iniziare a parlare” aggiunge.
“Uh?”  
Da terra Tom Pozzi afferra una bottiglia di vino dalla quale beve a canna un paio di robuste gollate. Poi soffoca un rutto, si passa il tovagliolo sulle labbra umide, quindi getta ciò che rimane del panino in un cassetto della scrivania. Mi strizza l’occhio.
“Lo finiamo dopo…” dice con sguardo complice. Io annuisco, inebetito.
“Desidera un caffè?” mi domanda il detective.
“Va bene.”
Mi aspetto che sollevi il ricevitore del telefono, per contattare la segretaria, invece il suo metodo è un altro. Un tremendo urlo mi ferisce i timpani.
“Magda! Due caffè! Uno normale e uno corretto anice! Sbrigati!”
La risposta della donna, sempre urlata, non tarda.
“Fottiti!”
Tom Pozzi sorride a trentadue denti, o forse qualcuno di meno.
“Ha detto che arrivano” spiega.
“Grazie, ho sentito.”
“Bene, signor… Accidenti! Dove ho messo il foglietto? Magda!”
“Gardi. Mario Gardi” dico, un po’ intimidito dal nuovo strillo belluino che mi ha appena trafitto le orecchie.
“Cardi? Come quelli che si mangiano?” domanda il detective, incuriosito.
“No, Gardi.”
“Ah! Allora, occupiamoci subito del suo problema, anche se ho già intuito di che cosa si tratta.”
“Sul serio?”
“Certo. La sua è una questione di corna” ribatte lui, con convinzione.
“Ho la faccia da cornuto?” domando, piccato.
“Eh? No, la faccia no. Però il suo atteggiamento mi fa pensare che…”
“Che cosa?”
“Be’… è il tipico atteggiamento di chi ha appena scoperto che la moglie si sollazza al di fuori delle mura domestiche. Indovinato?”
“Per nulla” ribatto. “Non sono sposato. Non ho una moglie, insomma…”
La mia precisazione non scalfisce affatto la sicurezza di Tom Pozzi.
“Allora lei si è rivolto a me per qualcosa che riguarda il suo lavoro! Ci sono! Si è accorto che il suo socio d’affari si comporta in maniera poco onesta ed è alla ricerca delle prove per incastrarlo! Giusto?”
“No, non ci siamo. Lavoro da solo, non ho mai avuto soci.”
L’investigatore, con flemma, lecca a lungo un grosso sigaro e poi lo accende, aspira, sbuffa.
“Disturbo se fumo?” mi domanda dopo che una grossa nube scura e pestilenziale ha ormai avvolto l’intero ambiente.
“No, faccia pure” dico, soffocando la tosse.
Lui mi scruta.
“Certo che lei è proprio un bel tipo! Lo sa che il novantanove per cento dei miei clienti richiedono i miei servizi per faccende di tradimento o legate alla professione?”
“Non ne dubito, ma le assicuro che non è il mio caso” dico.
“Che cosa posso fare per lei, dunque?” chiede Pozzi, finalmente rassegnato.
“In realtà c’è di mezzo una donna…”
“Ah! Ah! Lo sapevo! Lo sapevo! Le donne c’entrano sempre!”
“Posso proseguire?”
“Certo, mi scusi.”
“Vede, mi sono innamorato di una donna…”
“Uh?”
“Aspetti, mi lasci finire. Vorrei sapere se questo mio sentimento è ricambiato. Se così fosse potrei espormi un po’ di più nei suoi confronti, assumere maggiori iniziative…”
Pozzi mi blocca con ampi gesti delle mani.
“Ho capito, signor Pardi….”
“Gardi…” lo correggo timidamente. I nomi non sono il suo forte, concludo.
“Lei si è rivolto proprio alla persona giusta. Nessuno tra i miei colleghi è specializzato in questo difficile campo. Ma io sì, naturalmente. Le posso garantire un risultato in pochissimo tempo. Sarà un vero e proprio gioco da ragazzi!”
Il detective gongola, mentre io sono un po’ perplesso di fronte a tale suo granitico convincimento.
“In quale modo pensa di agire?” domando.
Tom Pozzi riflette un attimo prima di rispondere. O finge di farlo.
“Prima di esporre i miei piani le posso rivolgere una domanda che pure contrasta con i miei interessi?”
“Certo.”
“Perché questo dubbio non lo chiarisce domandando semplicemente alla donna se…”
“No! Non sarei in grado di reggere una eventuale risposta negativa. Preferisco che tale accertamento sia condotto da qualcun altro. Sono una persona troppo emotiva… ”
“Capisco. In casi come questo il mio protocollo investigativo prevede, per prima cosa, il rilevamento della temperatura corporea del soggetto sotto osservazione.”
“Che cosa?” sbotto.
“Non si inquieti. In caso di innamoramento la temperatura interna del corpo tende a salire oppure subisce degli sbalzi perché l’intero organismo si viene a trovare in una condizione di estrema eccitabilità, un vero e proprio stato febbrile.”
“E come pensa di riuscire a effettuare questa… misurazione?” chiedo, esitante.
“Semplice! Con un termometro, e magari con il suo aiuto…”
“Impossibile! Non ho con quella signora una confidenza tale da convincerla a introdurre un… Uff! Ma che sto dicendo?”
“Stia calmo, signor Bardi…”
“Gardi…”
“Se lei non si sente di farlo non posso certamente farlo io, anche se…”
“Anche se?” ruggisco, comprendendo dove vuole andare a parare il grassone!
“Niente… niente…”
“E allora? Che si fa?” lo incalzo.
“Si passa direttamente alla fase due, quella classica, la quale fornisce sempre ottimi risultati.”
“Sarebbe?”
“L’osservazione del soggetto, ventiquattr’ore su ventiquattro!”
“Ventiquattro? Anche la notte?”
Tom Pozzi mi guarda, stupito.
“È un modo di dire, per attribuire maggiore enfasi alla procedura.”
“Ah! E che cosa si può ricavare da questa… osservazione?”
“Tutto!”
“Vale a dire?”
“Come lei dovrebbe ben sapere, il comportamento di una persona innamorata è del tutto particolare. Si è distratti, smemorati, un po’ confusi. Ci sono frequenti sbalzi d’umore, scombussolamenti ormonali, si ride per niente e subito dopo si precipita nella più cupa disperazione. Si commettono stranezze, ci si prende più cura del proprio aspetto, si prova inappetenza, la pupilla appare più dilatata e così via… In conseguenza di tutto ciò, una continua e attenta indagine, corredata da prove fotografiche, video e sonore, il ricorrere eventualmente a intercettazioni telefoniche, può permettere di accertare, senza ombra di dubbio, la condizione o meno di innamoramento di un individuo. Che ne dice?”
“Detto così, sembra ottimo, anche se le chiedo di evitare di ascoltare le conversazioni al telefono.”
“Come desidera lei, signor Dardi.”
“Gardi…”
“Certo… certo…”
“Mi può assicurare la certezza del risultato?” domando.
“In un certo senso, sì.”
“Come sarebbe a dire, in un certo senso?”
Tom Pozzi sospira, poi tira una lunga boccata dal sigaro che si rianima all’improvviso.
“Alla conclusione dell’indagine le potrò dire se questa donna è veramente innamorata oppure no. Nulla di più.”
“Ma è proprio quello che voglio!”
“Non credo…”
“Invece sì!”
“Vede, signor Lardi…” Basta, non lo correggo più! Pozzi attende un attimo e poi prosegue.
“Nel caso in cui la risposta fosse affermativa…”
“Allora?”
“… non è detto che questa donna sia innamorata di lei. Potrebbe esserlo di qualcun altro.”
“No!”
L’investigatore solleva le spalle, quindi apre il cassetto della scrivania e si porta alla bocca famelica i resti del panino.

venerdì 7 dicembre 2012

INCUBO FINALE



I peggiori incubi si possono avverare, e così infatti è stato. Si pensava di essersi sbarazzati di lui per sempre, proprio un anno fa, e invece scopriamo che non è così. Perché lui è tornato, per davvero. Ed è ricomparso nella sua versione peggiore, quella incattivita e rancorosa, colma d’astio represso, la traduzione che meglio esprime quale sia veramente la natura di quell’essere immondo, che di umano non ha mai posseduto nulla. E subito i servi, gli schiavi e i leccaculo si sono precipitati ad adularlo, dopo che soltanto alcuni tra loro, pochi e beceri, ne avevano invocato il ritorno. Gli altri, i più, pur senza affermarlo in maniera esplicita, ne auspicavano la definitiva dipartita politica, lo speravano e lo desideravano. Appena il padrone è tornato a mugghiare tutti hanno però chinato il capo, hanno ripreso a strisciare come osceni serpenti. Alcuni tra loro, i più sconci, hanno addirittura già osato rialzare le pallide creste. Rinnovamento, facce nuove, primarie, democrazia interna, tutto è stato seppellito nel volgere di un battere di ciglia. Parole vuote, che ora appaiono ridicole, che suscitano grasse risate.
È tornato e in un amen ha spazzato via tutto, ed è così ripreso l’accanimento del mostro nei confronti del suo disgraziato Paese, dei suoi sciagurati e stolti cittadini.
Tutto è stato di nuovo rimesso in discussione: la credibilità dell’Italia, che pareva ormai del tutto smarrita e invece era stata in parte ritrovata, gli enormi sacrifici compiuti dalla gente comune per impedire il dissesto della nazione, immolazione che rischia di rivelarsi vana. Una cornice (non quanto stava al suo interno) che era stata ricomposta poco per volta e che adesso è stata spezzata all’improvviso.
E riprenderanno, nei nostri confronti, gli sberleffi degli altri Paesi, dell’intera comunità internazionale. Perché nessuno come noi italiani sa essere così ridicolo, così ottuso e sprovveduto. Così stupido.
E, come sempre, lui non si è ripresentato per fare il bene della sua nazione, bensì per perseguire i suoi soliti sporchi interessi. In realtà, non poteva non farlo. Le sue aziende sono in crisi (proprio come vent’anni fa), la morsa della giustizia lo sta stringendo sempre di più (una condanna alla fine è arrivata, alla quale presto ne potrebbe seguire una seconda), il terrore di non contare più nulla lo stava assalendo ogni giorno di più.
È tornato e si è divorato in un solo boccone il suo pavido segretario, che di nuovo ha ripreso l’antico ruolo di servo sciocco, di marionetta. Le sue prese di posizione, il suo tentativo di affrancarsi dall’ingombrante padre-padrone, sono durate lo spazio di un mattino. Ora Angelino è tornato a cuccia, pronto a essere ancora una volta, o sempre di più, obbediente e fedele. Orecchie basse e coda in rapido movimento.
Quelli che avevano un po’ rialzato la schiena sono adesso rincantucciati, timorosi e tremanti di paura. Gli idolatri hanno invece ripreso a sbavare senza alcun ritegno.
Il Presidente della Repubblica sembra sconcertato da tale impudicizia, da questa totale mancanza di responsabilità. E dire che quell’uomo anziano ne ha già viste tante. Così come è sbigottito Mario Monti, persona raffinata ed elegante, non assuefatto a tale elevato livello di rusticità, non abituato ai calci in faccia e alle coltellate alla schiena. Non avvezzo alla incredibile sguaiataggine.
È inutile, ci dobbiamo rassegnare a fronteggiare il mostro. Di nuovo, ma forse è meglio così. Se resa dei conti deve essere, è bene che questa avvenga una volta per tutte. In fondo la possibilità di abbattere in maniera risolutiva l’agghiacciante creatura esiste. Il momento propizio per poter ributtare quell’obbrobrio per sempre nell’inferno dal quale proviene è prossimo, si tratta soltanto di sfruttarlo, di non lasciarlo scappare. Ed è l’istante in cui saremo chiamati a esprimere un voto. Un piccolo, miserabile e, in apparenza, insignificante voto. Un meraviglioso voto, utile per evitare di sprofondare, tutti insieme, nell’abisso. 

martedì 4 dicembre 2012

AGLI SGOCCIOLI



Le primarie del centrosinistra (caratterizzate da grande partecipazione popolare) hanno individuato in Pierluigi Bersani, senza ombra di dubbio, il candidato premier della coalizione alle imminenti elezioni politiche. Onore delle armi, comunque, allo sconfitto Matteo Renzi che, proprio nel momento dolente dell’insuccesso, ha dimostrato doti quasi inaspettate di matura consapevolezza, assumendo su di sé l’intera responsabilità della mancata affermazione, manifestando piena lealtà al partito in cui milita ed esprimendo l’intenzione di dare una mano, sebbene come semplice attivista (non tutti i militanti sono uguali però…) nella prossima campagna elettorale. Un comportamento non certamente da “ragazzotto” (come era stato definito dai suoi critici più spietati) ma da autentico e compiuto uomo politico. Una risorsa in più, insomma, tutt’altro che trascurabile, che sarà opportuno utilizzare nel modo migliore.
Toccherà a Bersani, dunque, il compito di non disperdere le energie positive che il sindaco di Firenze è riuscito a mobilitare. Un’incombenza difficile, ma non impossibile, in considerazione del fatto che nell’elettorato di centrosinistra si è risvegliato un entusiasmo che appariva ormai sopito.
Sul fronte di centrodestra invece tutto è rimasto come prima. Tutti sono ancora in attesa di un pronunciamento del padrone, di Silvio Berlusconi, il quale sembra incerto e confuso come non mai, ormai rassegnato alla sicura disfatta ma ancora intento nella ricerca della scappatoia che possa permettere di limitare i danni. E di contare ancora, benché in misura minima. La voragine da riempire, su quel lato, è enorme. Si tratta di milioni di elettori indecisi, che rischiano di non sentirsi rappresentati, una sorta di vulnus per l’equilibrio del sistema democratico.
La legislatura, in ogni caso, è agli sgoccioli. Al momento attuale non si sa con esattezza quando gli italiani saranno chiamati alle urne. La scadenza naturale è sempre più improbabile ma, allo stesso modo, è improponibile (oltre che tecnicamente impossibile) un anticipo del voto a febbraio, come suggerito proprio dallo schieramento che fa capo al PDL. Prima di chiudere i battenti questo disgraziato Parlamento deve ancora provvedere all’approvazione definitiva della legge di stabilità. Andare a votare in esercizio provvisorio sarebbe un atto altamente irresponsabile nonché deleterio per il nostro Paese, per niente al riparo da nuovi attacchi speculativi che, in una evenienza del genere, troverebbero grande alimento.
L’altra questione ancora sul tavolo è la riforma della legge elettorale, per la quale anche in questi giorni il Presidente della Repubblica si sta spendendo, abbastanza inascoltato per la verità. Napolitano, comunque, sbaglia. Non è possibile, infatti, cambiare il sistema di voto a pochi mesi (due o tre) dalla consultazione. È un atto irragionevole, non degno di una moderna democrazia. Un’azione che sarebbe stigmatizzata anche dai vertici europei, che già si sono pronunciati in merito. Ancora una volta si dovrà utilizzare il vituperato “Porcellum”, e ci si augura che sia davvero l’ultima. Per superare il più grave limite di tale legge elettorale, le liste bloccate e le conseguenti “nomine” dei candidati (e quindi degli eletti) fatte direttamente dai partiti, sarà sufficiente istituire a livello territoriale delle consultazioni primarie per la scelta degli eleggibili, strumento che si è rivelato essere assai gradito dai cittadini-elettori. Le forze politiche che riterranno di non attuarlo ne dovranno subire le conseguenze in termini di impopolarità e contribuiranno una volta di più a fomentare l’antipolitica (nei loro confronti).
È scontato che, nel corso del primo anno della futura legislatura, si dovrà a tutti i costi rimettere mano alla legge elettorale, approvando finalmente una norma che consenta ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti, senza tuttavia perdere di vista l’elemento fondamentale della governabilità. Il sistema migliore e più collaudato, naturalmente, è quello totalmente maggioritario con i collegi e il doppio turno. Ed è pure il più limpido e semplice. Forse troppo, per la nostra politica contorta…    

domenica 2 dicembre 2012

IL TERZO LATO



Nello spogliatoio c’è ancora odore di sudore, di calzini sporchi e di bagnoschiuma. Luca e Alessandro, sono rimasti soltanto loro due. Per le ultime considerazioni, gli ulteriori commenti, per analizzare nei dettagli la partita che hanno appena disputato e scambiare alcune parole in assoluta libertà, come spesso accade tra due persone legate da un profondo senso di amicizia.
Il primo è in piedi di fronte a un piccolo specchio appannato, e cerca senza successo di sistemare la sua folta capigliatura. Alcuni ciuffi ribelli si rifiutano con ostinazione di stare al loro posto.
L’altro è seduto su una panca e ha appena finito di rivestirsi. Sembra piuttosto affaticato, neppure la lunga doccia calda è riuscito a rilassarlo, a lavare via del tutto la stanchezza fisica che lo affligge. E il tonificante getto d’acqua bollente ancor meno ha contribuito ad alleviare l’evidente tormento, la viva inquietudine che traspare dal suo volto. I pensieri molesti persistono, in qualche modo lo straziano proprio, e gli impediscono di assaporare in pieno quel momento di intimità e confidenza con l’amico di sempre.
“Datti una mossa, Ale. Vuoi che ci chiudano dentro?” dice Luca, che continua a passarsi e ripassarsi la spazzola tra i capelli.
“Eh? Tranquillo, il custode mi ha lasciato le chiavi. Possiamo fare con comodo.”
L’amico si volta e lo osserva.
“D’accordo, facciamo pure con calma, però non ho intenzione di trascorrere tutta la serata qui dentro.”
Alessandro, per tutta risposta, sorride. Il suo tuttavia è un sorriso distratto, di pura circostanza, fatto nel tentativo di compiacere l’amico. In realtà sta pensando a tutt’altro. La sua mente è un turbine, una autentica burrasca di pensieri che si rincorrono, cozzano tra loro e si accatastano in maniera disordinata e confusa.
“Certo che quel sette era davvero rognoso” riprende Luca. “Comunque dalla tua parte non si passava, come sempre. Lo hai completamente annullato, gli hai impedito di fare qualsiasi cosa, alla fine era davvero frustrato quel poveraccio!”
“L’ho pure pestato…” dice Alessandro, a bassa voce.
“È vero! Di solito non ricorri alle maniere forti. Alla fine ti sei pure beccato quell’ammonizione, hai rischiato addirittura di farti buttare fuori. Non è da te…”
“Chi se ne frega…”
“Uh? Che dici?”
“Niente… niente…”  
“Comunque l’importante era vincere e ce l’abbiamo fatta.”
“Già…”
Luca afferra il giubbotto, sembra impaziente di andare via. Vede che l’amico è sempre seduto sulla panca di legno, con lo sguardo smarrito. Cerca di scuoterlo dallo stato di torpore in cui sembra essere precipitato.
“Ehi! Ti vuoi sbrigare o no?”
“Luca…” Una specie di implorazione, una disperata richiesta di attenzione.
“Che c’è?” La voce di Luca ha una sfumatura preoccupata.
“Sai, ho una ragazza…” sussurra Alessandro, senza guardarlo negli occhi.
I tratti del volto dell’amico di distendono di nuovo.
“Cazzo! E per questo motivo sei così mogio? D’accordo che le donne creano sempre problemi, però dovresti essere in ogni caso contento! Accidenti, è la tua prima ragazza! Su con la vita!”
Alessandro finalmente lo guarda, un po’ risentito.
“Non è vero che è la mia prima ragazza!” dice.
L’altro scoppia a ridere.
“E quali sarebbero state le altre?” chiede Luca.
Alessandro si alza in piedi e inizia a camminare nello spogliatoio. Scalcia le scarpe, poi le raccoglie e le sistema sotto la panca, infine si china e fruga nel borsone ma non estrae nulla. Si siede di nuovo.
“C’è ne stata una sola, per la verità. Te la ricordi quella del bar?”
“La biondina? Ma quella era una ragazzina!”
“Aveva diciassette anni…”
“Ma ne dimostrava quindici! E poi non ti filava per nulla, se ben ricordo…”
“Non è vero, una volta siamo persino usciti insieme!”
“Una volta! E dove siete andati?” Il tono di Luca è un po’ irridente.
“Al cinema.”
“Ah! E che cosa avete visto? Biancaneve?”
“Luca, vaffanculo!”
“E dài! Sto scherzando. Ricordo che eri pazzo di gelosia per quella! E lei come ci godeva a farti incazzare…”
“Era il suo lavoro…” inizia dire Alessandro, con scarsa convinzione.
“Guarda che il suo lavoro era quello di fare i caffè, non quello di fare la smorfiosa con tutti i ragazzi che frequentavano il bar.”
Alessandro annuisce.
“In parte hai ragione. Che vuoi, era troppo giovane…”
“Diciamo che era pure un po’… Va be’, lasciamo stare…”
“Adesso è tutta un’altra storia” dice Alessandro.
“Mi fa piacere per te. Si può sapere dove l’hai conosciuta, questa ragazza? Tu non esci mai, ti rifiuti di venire in discoteca, se ti invito ad andare in birreria fai un sacco di storie.”
“Che importanza ha dove ci siamo incontrati?” risponde Alessandro, stizzito.
“Ehi! Calma! Non te la prendere, era una semplice curiosità. Non voglio certo apprendere a tutti i costi i vostri segreti. Almeno me la farai conoscere? Potremmo organizzare una serata a quattro. Liliana ne sarebbe ben felice.”
Alessandro non risponde, scrolla le spalle.
“Allora? Lo incalza Luca.
“A quattro? Non credo sia possibile. E poi questa ragazza tu la conosci già, non c’è bisogno di particolari presentazioni.”
Luca guarda l’amico, aggrotta un sopracciglio.
“Ah sì? E chi sarebbe? Una nostra compagna di università? Un’amica di Liliana?”
“Non mi va di parlarne, era meglio se non ti dicevo nulla.”
“Ufff! Ma quanto sei pesante! Che male c’è a parlarne? Sono il tuo miglior amico sì o no?” sbotta Luca.
“Certo, il fatto è che ci sono alcuni problemi. Anzi, uno solo ma grosso…”
Luca assume un’espressione furba, poi appoggia una mano sulla spalla dell’amico.
“Ho capito! La ragazza è impegnata e non sa decidersi tra il vecchio e il nuovo, giusto?”
Alessandro si morde le labbra, poi fa cenno di no.
“No, non è così. A lei piaccio molto, me l’ha detto e ripetuto, ma non vuole lasciare il suo ragazzo. Dice che è innamorata di lui, allo stesso modo in cui è innamorata di me. Insomma, preferisce non scegliere perché vuole molto bene a entrambi. Non vuole rinunciare a nessuno dei due, dice che sarebbe un’immensa ingiustizia.”
“Un bel tipo! E tu? Non venirmi a dire che ti sta bene una situazione del genere! Che cosa farai?”
“Ho già deciso, e ho accettato questa situazione. Pensavo che ciò mi avrebbe causato sofferenza, invece sono sereno…
“Non si direbbe!” Luca è davvero sorpreso e non sa quasi che dire.
“No, ti sbagli. Le mie preoccupazioni sono dovute ad altro…”
“Vale a dire?”
“Il suo ragazzo lo conosco…”
“Che cosa?”
“È così, si tratta di una persona che stimo molto…”
“Per questo riesci a sopportare una storia come questa? Soltanto perché hai una buona considerazione del suo fidanzato?”
“Sì.”
“Pazzesco! In ogni caso il vero problema è lei! È lei che si sta comportando in maniera strana. Sta prendendo in giro tutti e due!”
Alessandro fa cenno a Luca di calmarsi.
“Anch’io all’inizio lo pensavo, ma poi ho capito che lei era sincera. Dice che è in grado di dare amore a entrambi, ed è vero.”
Luca sospira.
“Non dirmi che vi frequentate in tre…”
“No, finora non è mai accaduto. Ma a me e Liliana farebbe molto piacere poterlo fare.”
“Liliana? Si chiama Liliana proprio come la mia Liliana?”
Alessandro annuisce, respira a lungo e poi risponde.
“Luca, guarda che si tratta proprio della tua Liliana. Della nostra Liliana...”