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venerdì 30 dicembre 2011

CAPODANNO CON BOTTO?



Diciamo che le due specie non erano mai andate molto d’accordo.
Aggiungiamo però che, in particolari circostanze, tra loro alla fine era sempre stata raggiunta un’intesa. Ciò avveniva soprattutto quando quelle grandi popolazioni animali si sentivano minacciate da qualcosa che avrebbe potuto compromettere la sicurezza di entrambe.   
Anzi, più che da qualcosa, da qualcuno: l’essere umano.
Gli accordi erano sempre stati raggiunti grazie all’azione delle rispettive diplomazie. Gli incontri tra gli ambasciatori delle specie erano pertanto piuttosto frequenti, dal momento che i pericoli erano ricorrenti. Si sa, con gli esseri umani non si scherza. É necessaria una costante sorveglianza, una attenta vigilanza. La loro sconsideratezza e la loro crudeltà sono tristemente proverbiali.
E così, dunque, avvenne anche quella volta. I due delegati si incontrano pochi giorni prima della fine dell’anno.
Uno era un soriano dall’aria scaltra, l’altro un anziano e saggio labrador.
È utile sapere che tali delicati incarichi diplomatici erano ricoperti, tra i gatti, in special modo da quello specifico gruppo felino che in realtà vera razza non è. Questo perché tali soggetti erano senza dubbio i più scaltri tra i loro simili. Tra i cani, invece, popolazione notoriamente più classista, quel ruolo era sempre stato svolto dai labrador, ritenuti, a torto o a ragione, di stirpe sapiente e giudiziosa, vale a dire proprio le doti ideali per condurre un negoziato.
“Grosse novità!” esordì il soriano senza troppi convenevoli. L’altro lo guardò con espressione interrogativa.
“Non mi pare…” disse titubante.
“E invece ti sbagli! Grosse novità sul fronte dei botti!”
“Ti riferisci forse al fatto che alcune autorità umane ne hanno proibito l’utilizzo a Capodanno?”
Il gatto scoppiò a ridere. Il labrador, in realtà, si offese, ma cercò di non darlo a vedere.
“Smettila di sghignazzare e riferisci” disse il cane, serio.
“Sai bene che quei provvedimenti non serviranno a nulla! Come se non conoscessimo gli umani!”
“Guarda che il mio padrone…”
“Ah! Mi ero scordato che tu avessi un padrone!” E il soriano riprese a ridere.
“Perché? Tu non ce l’hai?” domandò il cane, sempre più stizzito.
“Io? Io avrei un padrone?”
“Ma…”
“Ti riferisci per caso all’essere umano con il quale convivo?”
“Senti, di questo passo non concluderemo nulla. Le nostre idee riguardo ai rapporti con l’uomo sono ben differenti, e del tutto inconciliabili. Parliamo piuttosto di cose concrete. Come tutti gli anni in questo periodo noi abbiamo provveduto a impartire le consuete disposizioni: la notte di Capodanno tutti i cani dovranno cercare un riparo sicuro. Sotto i letti, dietro ai divani, nei ripostigli e così via. E, soprattutto, zampe sulle orecchie! Sappiamo bene che l’incolumità di tutti noi è in pericolo, e anche il nostro equilibrio mentale. Quei botti! Brrrr… non farmici pensare!”
“E i randagi?” lo incalzò il gatto. Che cosa faranno i randagi?”
“Ammetto che per loro il problema esiste in maggior misura…”
“Miaoooff! Lo sapevo! Per loro non siete ancora riusciti a trovare una soluzione!”
Punto sul vivo, il labrador reagì.
“E i vostri? Che cosa faranno i vostri?”
“I nostri? Noi non abbiamo randagi” rispose serafico il soriano.
“Non è vero!” sbottò l’altro. “Ci sono eccome! Ne vedo ovunque!”
“Stai parlando dei gatti che vivono in libertà? Oh! Loro se la caveranno, come sempre. Non sentono di certo la necessità di andarsi a rifugiare tra le gambe degli umani come…”
“Non ti permetto di insultare la mia nobile specie!”
“Uff! Ma quanto sei noioso! Ho l’impressione che pure su questo tema abbiamo idee ben diverse. Quindi, è inutile discutere.”
“I vostri propositi di autonomia e di emancipazione dal genere umano non vi condurranno da nessuna parte!” disse il labrador.
“E voi siete sempre i soliti conservatori. Voi amate vivere in simbiosi con quegli esseri! Noi vogliamo confrontarci con loro su un piano di assoluta parità! Certo, li rispettiamo e, in alcuni casi, li apprezziamo pure, tuttavia…”
“Basta! Vieni al sodo. Quali sarebbero queste novità?”
Il soriano assunse un atteggiamento furbo. Abbassò il tono di voce. Si avvicinò al cane.
“Mai sentito parlare di un certo Mao Chao-Miao?” domandò.
“Il siamese!”
“Proprio lui.”
“Si tratta di un tipo poco raccomandabile, vero? Senza offesa per la specie, naturalmente.”
“Miuuufff! Che importa? Ciò che conta è che può esserci molto utile.”
“Spiegati” disse il labrador, diffidente.
“Non so come, ma quel siamese è riuscito a infiltrarsi nell’industria dei botti. Lui ha la possibilità di immettere in commercio un tipo particolare di… petardo?...mortaretto?...bomba? Come li vogliamo chiamare?”
“Bomba?” Il cane era spaventato.
“Facevo per dire. In ogni caso questi piccoli ordigni hanno una particolarità: esplodono.”
“Mi stai prendendo in giro? Tutti i botti esplodono!”
“Già, ma questi esplodono sempre tra le mani di chi li accende. E, ti assicuro, non si tratta di uno scoppio innocuo…”
Adesso il cane appariva disorientato. E sbigottito.
“Vuoi dire che…”
“Esatto. A ogni botto un umano in meno. Nella più favorevole delle ipotesi…”
“No!”
“Mieofff! Come diceva quel vecchio gatto: “Il fine giustifica il graffio” o qualcosa del genere. Farne esplodere uno per educarne cento, aggiungo io!”
“Terrorista! Assassino! Non daremo mai la nostra approvazione!” ululò il labrador, colmo di sdegno.
“Mmm… il mio compito consiste appunto nel convincerti.”
“Non intendo neppure parlarne. Se non desisterete dal vostro insano proposito saremo costretti a rompere tutti i rapporti diplomatici!”
“La cosa si può fare soltanto se c’è un completo accordo tra le nostre specie. Il mio mandato, purtroppo, prevede questo.”
“La mia risposta è no! Noi non faremo mai del male agli umani! Noi vogliamo vivere in pace con loro, proteggerli, se necessario, non causare loro un danno! Con il passare del tempo i loro animi diventeranno sempre più sensibili, comprenderanno i loro errori, si redimeranno e chiederanno perdono alla mia e alla tua specie. Il percorso di riscatto è già avviato, noi confidiamo molto sulle nuove generazioni, si tratta solo di avere pazienza.”
“Quanto dovremo aspettare? Quanti di noi, e di voi, saranno ancora divorati, torturati, seviziati e fatti a pezzi prima che giunga quel momento? Cento anni? Mille?”
“La mia posizione è irremovibile” disse il cane.
“D’accordo, hai vinto. Non se ne farà nulla. Ancora una volta trionfa il vostro conservatorismo. Nulla deve mai cambiare, per voi! Comunque, in fondo ne sono contento anch’io, nessuno di noi finora ha mai perseguito la strada della violenza. Però…”
“Io ci credo veramente nelle mie idee” ribadì il labrador. L’altro annuì, finalmente convinto.
“Così sia. Tanti auguri, vecchio figlio di un cane!”
“Felice anno a te, gattaccio maledetto!”

Buon Capodanno a tutti gli esseri con e senza pelo!

lunedì 26 dicembre 2011

IL PIU' GRANDE ALLENATORE DI SUBBUTEO



Sono un giornalista, un giornalista sportivo, per la precisione. Molto specializzato. Lo sport che ho sempre seguito è il Subbuteo. Molti di voi, i più giovani soprattutto, non ne avranno mai sentito parlare. Se siete fra questi, smettete di leggere, ciò che sto per raccontare non vi interessa.  Mi rivolgo invece ai pochi che, come me, hanno sempre coltivato questa passione. A quelli per i quali il confine tra la realtà e l’immaginazione non esiste. Dopo tanti anni passati nell’anonimato, finalmente è capitata anche a me la grande occasione. Ho avuto l’incredibile opportunità di poter intervistare quello che è considerato il più grande allenatore di Subbuteo di sempre. Il suo nome non vi dirà nulla, quindi permettetemi di ometterlo. In tal modo rispetterò la volontà del mio interlocutore. Lui non ama parlare con i giornalisti, non l’ha quasi mai fatto, neppure quando era all’apice della fama.
Ecco l’intervista, lo scoop più importante di tutta la mia carriera professionale.

Da quanti anni non parla con la stampa?
Sono più di trent’anni, dall’epoca del mio ritiro dall’attività.
Già, il suo ritiro. Allora destò un certo clamore. Lei era molto giovane. Che cosa la spinse a prendere quella decisione?
 Avevo vinto tutto, in ogni parte del mondo. All’improvviso mi ritrovai privo di stimoli e decisi che avevo bisogno di una pausa. Dovevo ricaricarmi, ritrovare l’entusiasmo e la voglia di fare.
Invece non riprese più l’attività…
No, non ho più ricominciato, anche  se tante volte lo avrei voluto fare. Non mi chieda il perché, non saprei fornire una spiegazione valida. È andata così.
Le spiace se ripercorriamo, per i lettori, gli inizi della sua carriera?
Affatto. Rammento quel periodo con grande piacere. Ero giovane, molto giovane, piuttosto inesperto, eppure ebbi quella incredibile opportunità e non me la lasciai sfuggire.
Andiamo con ordine. Come ha ricordato, lei era un tecnico giovane. Quali esperienze aveva avuto fino a quel momento? Intendo dire, quali squadre aveva allenato?
Nessuna.
Come?
Si tratta della pura verità. Non possedevo alcuna esperienza. Non avevo mai allenato.
Ma…
Mi rendo conto che questa mia affermazione costituisca per lei una certa sorpresa. Finora non l’avevo mai detto. Ho sempre fatto credere a tutti di aver avuto, prima di quel famoso incarico, delle esperienze con squadre giovanili. Nulla di vero. Ero un semplice teorico, un giovane studioso che non aveva mai avuto la possibilità di sperimentare sul campo il proprio pensiero, la propria filosofia di gioco. Laszlo mi diede quell’opportunità.
Laszlo Toth! Chi era veramente quell’uomo? 
Un mecenate ungherese, con una sola grande passione: il Subbuteo.
Come vi siete conosciuti?
Laszlo lesse un mio articolo, pubblicato su una rivista specializzata. Sa, lui leggeva tutto. Comunque, rimase colpito da ciò che avevo scritto. Mi contattò immediatamente e mi fece un’offerta alla quale fu impossibile rinunciare. Pertanto, accettai, pieno di entusiasmo e…
Mi scusi se l’interrompo. Mi chiedo perché Toth non si rivolse a qualche tecnico già affermato. In fondo, aveva investito molto in quel suo progetto. E non poteva permettersi di fallire. Esatto?
Certo. Tuttavia Laszlo aveva bisogno di una persona priva di preconcetti, disposta a tutto, desiderosa di affermazione. Altri allenatori avrebbero posto condizioni, espresso riserve sul suo disegno, determinato difficoltà.
Mi parli del progetto di Laszlo Toth.
Lui non lo definiva in quel modo. Si trattava più che altro della realizzazione di un sogno, un’aspirazione posseduta fin da quando era bambino.
Qual era questo sogno?
Ricreare la mitica Honved, la Squadra D’Oro, quella compagine che, durante la sua infanzia, lo aveva meravigliato, aveva nutrito il suo immaginario di bambino. Diventato adulto, e ricco, si rese conto che ciò non era possibile. I grandi giocatori ungheresi non esistevano più, e a causa del divieto imposto dal regime non era possibile ingaggiare calciatori stranieri. Fu allora che nacque la sua passione per il Subbuteo. Laszlo comprese che in quel mondo situato tra realtà e fantasia tutto era realizzabile e vi si dedicò con il suo solito entusiasmo.
Che cosa fece?
Innanzitutto ingaggiò me e poi costruì la squadra. Lui voleva la vecchia Honved, e alla fine la ebbe. Clonò, se così si può dire, i vecchi giocatori e li mise a mia disposizione. Soddisfò pure un mio capriccio, l’unico.
Quale?
Chiesi di avere Hidegkuti. Lui non aveva mai militato nella Honved, bensì nell’MTK, tuttavia io lo ritenevo indispensabile per gli schemi di gioco che intendevo attuare. Consideravo formidabile il suo modo di interpretare il ruolo di centravanti arretrato. Ebbene, Laszlo mi accontentò.
E la grande avventura iniziò…
Un’avventura pazzesca. Non mi sembrava vero di dover gestire campioni come Grosics, Puskas e Kocsis. Confesso che fu tutt’altro che difficile. Loro mi comprendevano al volo, quegli atleti riuscivano a realizzare sul campo le mie idee senza che ci fosse la necessità di illustrarle in dettaglio.
Ricordo bene. E rammento che il capitano era Bozsik, e non Puskas come nella vecchia Honved…  
Bozsik! Un giocatore incredibile, per tecnica, intelligenza e duttilità. Quella decisione fu mia, e tutti la rispettarono. Ogni volta che toccava la palla – che la accarezzava - i telecronisti non potevano fare a meno di esclamare incantati: “Prodezza di Bozsik!”
Vinceste tutto…
(Sorride, per la prima volta) Era impossibile non farlo!
Parliamo di tecnica, e di schemi. Nonostante i trionfi, all’epoca furono mosse alcune critiche. La accusarono di adottare strategie di gioco non originali, in contrasto con quanto aveva predicato – e scritto – fino ad allora. Fu tacciato di eccessivo difensivismo…
Lei si riferisce a quanto espresso dai miei colleghi, giudizi in gran parte dettati dall’invidia. La critica specializzata si limitava a pronunciare elogi. Atteggiamento difensivista? Stiamo scherzando? La mia Honved era una macchina da goal!
Su questo non c’è alcun dubbio. I fatti le diedero sempre ragione. Tuttavia – e mi perdoni – il 5-2-3 che lei praticava non era uno schema un po’… antico?
Non lo nego. Ciò era dovuto al fatto che, in parte, mi ero adattato alle esigenza dei miei giocatori. Loro amavano disporsi in quel modo! Vi erano abituati! Ma, al di là della posizione iniziale sul tappeto, l’interpretazione successiva era completamente frutto dei miei insegnamenti, delle mie idee. Loro non avrebbero mai rinunciato alla difesa a cinque, era nel loro DNA! Ci tenevano a far apparire il reparto difensivo come un fortino inespugnabile, e in effetti lo era, soprattutto quando Bozsik arretrava e si poneva, come un frangiflutti, davanti ai cinque difensori.
Però? Perché esiste un però, vero?
Esatto. Mi concentrai soprattutto sulla fase offensiva, dal momento che l’altra non presentava problemi. Fu lì che diedi il mio maggiore contributo!
La può spiegare?
Certamente. Stando piuttosto raccolti, in fase di ripartenza potevamo disporre di ampi spazi. Bozsik agiva come un perno, attorno al quale ruotava l’intera squadra. In pratica, quando si attaccava, lui avanzava soltanto di poco la sua posizione garantendo comunque la copertura e permettendo agli esterni bassi di avanzare. A centrocampo si formava così, all’improvviso, una fitta ragnatela – non dimentichi che disponevo di ben due centravanti arretrati, Kocsis e Hidegkuti, che amavano partire da lontano – e lo stesso Puskas poteva trasformarsi, all’occorrenza, in temibile stoccatore. Insomma, un tourbillon in grado di disorientare qualsiasi avversario. La tecnica dei singoli, poi, produceva un’ulteriore differenza a nostro favore.
Sembra la descrizione del gioco dell’attuale Barcellona!
(Smorfia) Al tempo, "Pep" Guardiola era poco più di un poppante.
Mi racconti come terminò quella fantastica esperienza.
Con la morte improvvisa di Laszlo tutto finì. I suoi eredi decisero di non proseguire, senza di lui nulla aveva più senso. In ogni caso, anch’io avevo ormai deciso di lasciar perdere. Ero molto addolorato, e depresso. Avevo bisogno di riprendermi, una pausa era indispensabile.
Quel gruppo di campioni, tuttavia, avrebbe potuto essere messo sul mercato. Dopotutto, si trattava di un gran valore, praticamente inestimabile.
Questo è vero. Comunque, anch’io approvai quella decisione. Quella magnifica squadra era una creatura di Laszlo, ed era giusto che scomparisse con lui.
Che ne fu dei giocatori?
Furono rimandati nell’universo parallelo dal quale li avevamo chiamati. Sa, nel mondo irreale del Subbuteo tutto è possibile.
E lei?
La mia inattività non durò a lungo. In quel periodo ricevetti numerose offerte da squadre di prestigio. Le rifiutai tutte. Ero stanco di stare sotto i riflettori, avevo bisogno di qualcosa di meno stressante. Alla fine accettai la proposta del Malmöe.
Una piccola squadra, praticamente sconosciuta…
Era proprio quello che stavo cercando. Una piccola realtà, in un Paese tranquillo come la Svezia, e una squadra di giovani con tanta voglia di affermarsi. Una compagine con la quale fosse possibile condurre degli esperimenti e provare a mettere in pratica interamente ciò in cui credevo.
Tutto sommato, i risultati furono buoni…
Al di là delle più rosee aspettative. Modellai la squadra a mia immagine e somiglianza. Si sa, i giovani sono particolarmente plasmabili. Intendiamoci, nessuno di loro – tranne uno – era un campione. Era sempre la squadra, l’intera squadra, a vincere, e mai il singolo.
Quella parentesi tranquilla, e molto serena, però durò poco…
Già, ancora una volta mi feci allettare da un singolare progetto…
L’America…
Si trattava di una vera e propria sfida. Portare il Subbuteo negli States e farlo diventare lo sport più importante. Si voleva colonizzare – da un punto di vista sportivo - un intero, immenso Paese! L’incredibile fu che ci riuscimmo!
Anche questa volta con l’aiuto di un grande personaggio.
Sì, una persona che, ai più, è rimasta sconosciuta. Quindi, non mi chieda il suo nome, non lo rivelerei mai. Le posso soltanto dire che è ancora vivo, e che di sicuro leggerà il suo articolo.
Ma chi era veramente questo uomo misterioso?
Una specie di filantropo, un benefattore… non saprei in quale altro modo definirlo.
Un altro, dopo Laszlo Toth!
(Ride) Si vede che ho la capacità di attirarli!
Qual era la sua attività?
Inutile dire che era ricchissimo e impegnato in tutti campi economici possibili: finanza, industria, commercio, turismo e così via. Tuttavia a me appassionava soprattutto una sua creazione, l’unica che non produceva profitti e che testimoniava la sua munificenza.
Si riferisce al Park America?
Esatto. Quell’enorme parco naturale, ricco di boschi, fiumi, montagne e animali selvatici in libertà, con l’aggiunta di alcune piccole strutture turistiche.
Chi poteva accedere a quella specie di Paradiso?
Soltanto persone selezionate da lui stesso e dai suoi più stretti collaboratori. Per loro era tutto gratuito: vitto, alloggio ed escursioni nella natura.  Per tutti gli altri visitare il parco era impossibile.
Si trattava di individui particolari?
Sì, erano tutti poveri. O molto poveri…
La squadra quindi prese il nome dal parco?
Esattamente.
Lui, il suo protettore, era un grande appassionato di sport?
Odiava gli sport tipicamente americani, il basket, il football, il baseball… Gli piaceva invece il calcio. Quando, trovandosi in Europa per affari, gli capitò di assistere a una partita della mia Honved, si innamorò perdutamente del Subbuteo. Rimuginò sulla questione per alcuni anni e alla fine, nel periodo in cui ero al Malmöe, mi contattò.
Che cosa le offrì?
Tutto. Mi diede carta bianca. Lasciò a me la scelta dei giocatori. Mi disse soltanto che aveva la possibilità di ingaggiare chiunque. Si trattava soltanto di operare una selezione e quel compito spettava al sottoscritto. Un grande onore, ma anche una enorme responsabilità. Lui ribadì che riponeva in me la più assoluta fiducia.
Mi racconti come nacque il Park America, la più grande squadra di Subbuteo mai esistita!
Lei è molto enfatico…
Mi creda, non ne posso fare a meno…
D’accordo, in fondo si tratta di uno dei motivi per cui ho deciso di rilasciare proprio a lei questa intervista…
La ringrazio…
Comunque, tornando al Park America, operai le mie scelte in breve tempo. Avevo le idee molto chiare.
Già. Perché tanti olandesi?
Erano quelli che, all’epoca, giocavano il miglior calcio. In più, mi piacevano per la loro mentalità scanzonata. Ero sicuro che avrebbero reso al meglio anche a Subbuteo. E fu così. I vari Suurbier, Krol, Haan e Neeskens costituirono l’ossatura della mia squadra. Ma ritenni che la mia nuova compagine avesse bisogno pure dell’estro brasiliano. Per tale motivo presi Amaral, un terzino moderno, e soprattutto il grande Zico.
In realtà le scelte che fecero discutere furono altre, e lei lo sa bene…
Si riferisce a Ralf Edström? Era stato con me al Malmöe, l’unico vero campione che avevo a disposizione nella squadra svedese. Lo portai in America e lui mi ripagò in mille occasioni.
Non pensavo soltanto all’ottimo Edström…
Marius Tresor fu un mio capriccio. Era stato il primo giocatore di colore a indossare la maglia della nazionale francese: un simbolo, ma anche un ottimo giocatore. Affiancato a Krol costituiva una coppia incredibile. Due difensori centrali che, all’improvviso, si trasformavano in due uomini in più per il centrocampo. Entrambi erano molto abili a impostare l’azione e a ripartire. E poi Marius era un vero uomo da spogliatoio, in grado di rasserenare sempre i propri compagni. Non dimentichi che il capitano del Park America era proprio lui…
Mi parli degli africani…
Se Tresor fu un capriccio, loro due furono un’autentica scommessa.
Kilasu e Kidumu, che coppia!
Vero. Li aveva scoperti in Kenia un mio osservatore. In Kenia! Sappia che credevo e credo tuttora molto nel calcio africano. Grandi atleti, enormi potenzialità, ma tecnica approssimativa e scarsa disciplina tattica. Con Kidumu e Kilasu lavorai soprattutto per affinare queste due ultime caratteristiche, indispensabili per poter giocare in una squadra dalle grandi ambizioni come il mio Park. In breve tempo ottenni risultati incredibili. Entrambi divennero titolari inamovibili. Una specie di miracolo, dissero in molti. Invece si trattò solamente di lavoro, impegno e applicazione.
Lei diede il meglio di sé…
La smetta con l’adulazione…
Forse si tratta di adorazione…
Non divaghiamo. I due “gemelli d’Africa” in realtà avevano caratteristiche ben differenti. Kidumu era il tipico attaccante d’area, prestante e potente ma anche piuttosto veloce. Kilasu era l’esatto contrario, un esterno d’attacco quale non avevo mai incontrato o visto in precedenza. Il fisico esile ma resistente, la buona tecnica, il gran tiro da fuori, la capacità di ripiegare in caso di necessità…
Kilasu, Edström e Kidumu, un trio d’attacco formidabile!
Non c’è dubbio, tuttavia non dobbiamo dimenticare che, dietro a loro, operavano Neskeens e Zico.
A differenza della Honved, il suo Park America era una squadra decisamente offensiva.
Sì, si può dire che a noi interessasse soltanto la fase d’attacco. Dovevamo vincere, e vincere sempre ma, allo stesso tempo, l’imperativo d’obbligo era dare spettacolo. Non era importante quante reti si subivano, era importante farne una in più degli avversari.
Spesso erano più di una…
Le folate offensive della mia squadra potevano risultare micidiali. Cercavamo sempre di sorprendere gli avversari all’inizio. Nonostante che tutti i nostri rivali ci conoscessero bene, non erano mai in grado di opporre una valida reazione. Quando riuscivano finalmente a riorganizzarsi, erano già sotto di due o tre goal!
C’era soltanto un’altra squadra in grado di competere con la sua…
Il Mr. X Team, un’altra compagine americana, la “squadra dei polacchi”.
Chi c’era dietro?
Non si è mai saputo. Già il nome era misterioso. Si trattava comunque di una squadra di grande valore, nata grazie a un’operazione simile a quella del Park America. In quel tempo gli Stati Uniti possedevano le due più importanti squadre di Subbuteo del mondo intero. I nostri incontri furono memorabili. Vertici che non sono mai più stati raggiunti.
E poi?
Tutto finì, perché nulla è per sempre. Stordito dalla notorietà, crollai. Lasciai l’incarico, mi dedicai ad altre occupazioni anche se mi ripromisi, prima o poi, di tornare. Purtroppo, ciò non è avvenuto.
Che cosa ha fatto in tutti questi anni? Per vivere, intendo…
Ho fatto l’impiegato.
Non ha mai pensato di…
Ho continuato a ricevere proposte. Ne ricevo tutt’ora.
Qualche anno fa si era parlato di un interessamento, nei suoi confronti, da parte della federazione nigeriana…
È vero. Per un po’ fui tentato dall’accettare, ma alla fine non se ne fece nulla.
Quindi non esclude che in futuro…
Non sono più giovanissimo, e il mondo del Subbuteo è profondamente mutato durante tutti questi anni. Un'evoluzione negativa, purtroppo. In ogni caso non escludo nulla…
Grazie. Per me è stato un grande onore intervistare il più grande allenatore di Subbuteo di tutti i tempi!
(Sguardo ironico) Se lo dice lei…

domenica 25 dicembre 2011

SANTA WIKIPEDIA



Se non ci fosse, bisognerebbe inventarla.
Lunga vita a Wikipedia!
Sto parlando dell’enciclopedia virtuale, diffusa in rete e alla quale tutti possono attingere oltre che contribuire aggiornando o modificando le voci oppure creandone di nuove.
Una volta non era così.
Quando ero bambino le poche e rare enciclopedie erano soltanto cartacee. Quasi tutte le famiglie con figli in età scolare ne possedevano una. Al massimo due. Era possibile, inoltre, consultarle in biblioteca. Erano l’unico strumento disponibile per le famose “ricerche” scolastiche, una sorta di passato, amanuense, “copia e incolla”.
Direte che non è cambiato nulla, e in effetti è così. Naturalmente, con i moderni sistemi tutto risulta più facile e più veloce, ma la sostanza non cambia.
O forse sì. Una volta l’essere costretti a ricopiare a mano i testi costringeva almeno gli studenti a leggerli, seppure con relativa attenzione; ora si può fare certamente a meno di tale tediosa incombenza, tanto ci pensano il computer e la stampante.
Tuttavia, ricordo che un tempo amavo sfogliare le mie due enciclopedie anche per solo diletto. Era bellissimo librarsi, senza obblighi, senza costrizioni, tra le meraviglie della scienza e della tecnica, tra le curiosità legate alla vita di animali selvatici e sconosciuti, tra i misteri – spesso inquietanti – del corpo umano.
Purtroppo, però, i grossi e poco maneggevoli volumi rimanevano sempre tali e quali, non si modificavano mai, se non in piccola parte acquistando i sottili libretti relativi agli aggiornamenti. In realtà, quasi nessuno lo faceva. In fondo, quelle revisioni non erano così indispensabili e poi, da un punto di vista puramente estetico, apparivano ben miseri collocati sullo scaffale accanto ai colorati dorsi dei tomi “principali”.
Ma ora tutto ciò è passato remoto. Un semplice, piacevole e tenero ricordo.
Adesso c’è Wikipedia, l’enciclopedia virtuale, dove si può trovare tutto. E se qualcosa manca, lo si può sempre aggiungere!
Tutti la consultano, tutti la utilizzano. Per farlo, è sufficiente un semplice click!
Ovviamente, al presente come allora, sono pochi quelli che ne leggono pure i testi. Come detto, c’è qualcuno che ogni tanto ruba qualcosa, ma nulla di più. La lettura di quei fitti paragrafi continua a rivelarsi noiosa e faticosa, gli argomenti troppo vasti e difficili da padroneggiare. E poi, ci si chiede, le fonti saranno attendibili, accuratamente verificate? Chissà! Nel dubbio, è meglio non rischiare, essere prudenti.
In parte, credo di rappresentare un’eccezione. Io Wikipedia la consulto eccome! Spazio da un argomento all’altro, facendomi guidare dall’estro del momento, dall’improvvisa illuminazione, dal repentino interesse. In particolare, apprezzo una sua particolare caratteristica, quella che mi attira di più e che la rende per me indispensabile.
Non essendo più giovanissimo, la mia memoria inizia a vacillare, qualche ricordo inizia a sbiadire, alcune informazioni si deformano e diventano imprecise, conoscenze che pensavo definitivamente acquisite scompaiono come d’incanto.
Mi capita spesso di pensare all’improvviso, nel corso della giornata e quando sono impegnato in tutt’altre occupazioni, a un attore, uno scrittore, un pittore o a un grande sportivo del passato. Quando ciò accade, lascio tutto e mi precipito su Wikipedia, la mia salvezza, il bastone delle mie funzioni mnemoniche invalide. Qual è il mio scopo? Ricordare un’impresa sportiva del passato? Richiamare alla mente le opere di un pittore? Rammentare il titolo di un libro? Di un film?
No, nulla di tutto ciò. A me interessa soltanto sapere se quella persona è viva o morta. Su queste cose, sapete, la memoria tradisce facilmente. Ma a porvi rimedio interviene Wikipedia, la grande enciclopedia virtuale! Accanto al nome oggetto della mia ricerca so di poter trovare sempre la data di nascita e, nel malaugurato caso, anche quella di decesso. Il tutto aggiornato in tempo reale.
L’immortalità, quella sì virtuale, consentita nelle antiche enciclopedie cartacee, ora  non è più permessa.   

sabato 24 dicembre 2011

LE RENNE DI NATALE



In un luogo freddo e  isolato, dentro una grande baracca di legno.
“Tutto a posto? Si può partire?” dice Capa Renna.
Renna Nera, Renna Bruna e Rennetta si guardano, scuotono il testone ornato da poderosi palchi.
“Non proprio” dice infine la più giovane delle tre, con un filo di voce.
“Come?”
“Non c’è, lui non c’è.”
“E dov’è? Ah, ho capito. Rennetta, vai a recuperarlo.”
“Ma…”
“Subito!”
La giovane renna esce. Fuori, l’intero paesaggio è ricoperto di neve. Lei si dirige verso una piccola costruzione. I suoi zoccoli non producono alcun rumore. Apre la porta della casetta spingendo con il muso. All’interno c’è molta confusione. Gli avventori del piccolo locale sembrano piuttosto allegri. Qualcuno canta. Canti natalizi, naturalmente, anche se le voci sono stonate e impastate. Rennetta si avvicina al bancone. L’oste è un tipo dal volto rubizzo, e la accoglie con un sorriso.
“È qui?” domanda l’animale.
“Eh? Come dici?” risponde l’uomo.
“Lui è qui?” insiste la giovane renna.
“Può darsi, anche se adesso non lo vedo.”
“Abbiamo bisogno di lui. Stiamo per partire.”
“Che cosa? Partire? Vuoi dire che stanotte…”
Rennetta annuisce.
“Accidenti! Me ne ero completamente scordato!”
“Dov’è?” insiste Rennetta, che non riesce più a nascondere l’apprensione.
“Non lo so. Gli ho servito più volte da bere e poi…”
“Devo trovarlo!”
“Guarda in fondo al locale. Un po’ di tempo fa era seduto all’ultimo tavolo, quello vicino alla finestra.”
Rennetta si avvia nella direzione indicata. Nessuno fa caso a lei, tutti continuano a bere. Giunta al tavolo segnalato, nota che non c’è nessuno. Sul piano ci sono una bottiglia e un bicchiere, entrambi vuoti. All’improvviso sente una specie di lamento provenire da sotto il tavolo. La renna piega le zampe anteriori e si abbassa per vedere meglio. E lo scorge. L’uomo è disteso a terra, completamente ubriaco. Si tratta di un individuo anziano, di grossa corporatura, che indossa uno strano costume rosso, bordato di bianco. Ha una lunga barba candida. Sta russando, e non sembra in condizioni di potersi rialzare, e assolutamente non é in grado di svolgere il consueto servizio. Rennetta, anche se è al suo primo incarico, comprende subito la gravità della situazione. Pensa a come reagirà Capa Renna ed è terrorizzata. Eppure non c’è altro da fare. Affranta e sconsolata, ritorna di corsa alla grande baracca, quella dove l’aspettano le compagne e la grande slitta ormai carica. Riferisce. La reazione di Capa Renna, tuttavia, è sorprendente.
“Poco male” dice. “Vuol dire che si ritornerà alle origini.”
Renna Nera e Renna Bruna annuiscono, serie e compunte. Rennetta non capisce.
“Vuoi dire che andremo solo noi?” domanda, con un po’ di timore.
“Certo! In fondo il Patto Primario prevedeva questo.”
“Ma…”
“Tu sei giovane, cara Rennetta, e meriti una spiegazione. Vedi, all’inizio dei tempi tra gli animali e gli esseri umani fu sancito un accordo che avrebbe consentito la pacifica convivenza e il rispetto tra gli uni e gli altri. Il garante fu lo stesso Creatore!”
“Che cosa prevedeva?” chiede la giovane renna.
“Fu deciso che, a ogni Natale, gli animali, in segno di pace, avrebbero consegnato dei regali ai cuccioli degli uomini. E l’onore di assolvere tale compito spettò a noi!” disse con orgoglio Capa Renna.
“Per…”
“Non domandarmi il perché! Nessuno lo sa! Non è importante!”
“Certo… certo...”
“Da allora abbiamo sempre svolto questo incarico.”
“Ma i rapporti tra noi e gli esseri umani non sono affatto pacifici!” osò dire Rennetta. “Loro ci maltrattano, e spesso si accaniscono contro di noi con grande crudeltà!”
“Rennetta! Non.. ” interviene Renna Bruna.
“No!” La interrompe Capa Renna. “La giovane ha ragione. È una domanda che mi sono posto anch’io innumerevoli volte. E credo di avere una risposta: la responsabilità è del vecchio.”
“Ma chi è veramente il vecchio?” chiede ancora Rennetta, che ormai ha preso coraggio.
“Oh! È un semplice essere umano. All’inizio ci era stato affidato per dare una mano nel caricare la slitta. Con il passare del tempo si è… come dire… un po’ allargato…”
“Ti riferisci alla sua corporatura?” chiede Renna Nera.
“No, mi riferisco al suo modo di fare. Ha cominciato a considerarsi superiore a noi, e alla fine si è montato la testa. Si è cucito quel ridicolo costume e ha fatto credere ai suoi simili di essere lui il vero artefice del Natale, di essere lui a consegnare i doni!”
“È un impostore!” dice Rennetta, indignata.
Capa Renna la guarda, benevola. Sorride.
“No, mia cara. Si tratta semplicemente di un essere umano. Né più, né meno.”
“Vale a dire?”
“Gli esseri umani sono deboli. Come sempre, dobbiamo aiutarli a migliorarsi. E questa notte lo faremo una volta di più. Consegneremo noi i regali. Sono convinta che i cuccioli d’uomo che riceveranno direttamente da noi i doni saranno esseri migliori, quando saranno cresciuti. Il Patto sarà finalmente ripristinato e rispettato.
Rennetta guarda con ammirazione Capa Renna. Renna Bruna e Renna Nera annuiscono. Poi, tutte insieme, si dirigono verso la slitta. 

domenica 18 dicembre 2011

4x4



Al mattino prediligo svegliarmi presto. Si tratta dell’unico momento della giornata nel quale posso assaporare il silenzio. Non ci sono voci e urla, o rumori metallici di serrature che si aprono e si chiudono. Un po’ di vera pace, sebbene di breve durata e fuggevole.
Mi alzo e mi muovo al buio, per non disturbare, per non svegliare i miei compagni. Lo faccio per loro, ma soprattutto per me stesso. Loro amano rimanere svegli fino a tardi, la sera, anche se non sarebbe consentito. Parlano, e giocano a carte circondati da una luce fievole. Io non partecipo mai. Vado a letto presto, e quasi sempre riesco ad addormentarmi subito. Preferisco pensare, piuttosto che parlare, e il momento prima di prendere  sonno è quello più adatto per lasciar fluire, in piena libertà, le riflessioni. La maggior parte delle persone medita sulla giornata appena trascorsa, la ripercorre, la analizza. Poi pensa al giorno dopo, a come potrà essere, a che cosa potrà fare. Per me non è così. So che cosa farò domani. Farò ciò che ho fatto oggi, e ciò che ho fatto ieri. No, le mie considerazioni riguardano tutte un passato lontano, di cui mi sforzo di rammentare traccia. Non possiedo futuro, ma soltanto passato. Il presente, invece, non mi interessa.
Mi alzo e uso il bagno. I servizi igienici sono separati dal resto dell’ambiente da un muretto basso. Non c’è porta. Per una volta, l’unica in tutta la giornata, potrò godere di un po’ di privacy. Non che mi importi più di tanto, in un luogo dove la massima promiscuità è normale e continua, tuttavia mi sembra di ritrovare un po’ della dignità perduta, quel decoro che non dovrebbe essere sottratto a nessun essere umano, a prescindere dalla sua condizione.
Guardo in alto, verso la piccola finestra. Il vetro è opaco e sporco, la prima luce dell’alba fatica a farsi strada. Mi accontento. Nella penombra, mi avvicino alle brande dei miei compagni.
Osservo Idriss, la sua pelle scura, il cranio lucido. Dorme con la bocca aperta e sembra indifeso. Idriss è alto quasi due metri, ed è grosso. In piedi può apparire come un individuo temibile, dal quale è meglio stare alla larga. Ho scoperto al contrario che è una persona buona, migliore di me, anche se ha sbagliato. Sull’altro lato c’è Mimmo. Un corpo piccolo e tutto nervi. Si agita nel sonno, non trova mai pace, proprio come quando è sveglio. Lui è malvagio, cattivo, anche se ho imparato a sopportare le sue sfuriate, a indirizzare e a guidare i suoi frequenti scatti d’ira, a renderli meno pericolosi per sé e per gli altri. Non avevo scelta, l’ho dovuto fare, il compagno non si sceglie, è imposto.
Un equilibrio precario, una convivenza a volte difficile che fino ad ora sono riuscito a reggere. Ma proprio ieri, durante la “passeggiata”, sono venuto a conoscenza di quella cosa. Sono rimasto sbalordito. E attonito. Eppure so che è tutto vero, quella circostanza si verificherà proprio oggi. L’inferno quotidiano si trasformerà in qualcosa di peggio. Il mio senso di oppressione aumenterà, la mia ansia crescerà a dismisura, non riuscirò a controllarla. Soffocherò.
Quanto spazio occupa un corpo umano? Quale quantità di volume sottrae agli altri in uno spazio chiuso? Mi sono tormentato tutta la notte con queste domande alle quali non sono stato in grado di rispondere. Non ho quasi dormito.
Avevo soltanto due soluzioni possibili, ho scelto la seconda. L’altra la riservo per il futuro.
Torno al mio lettino. Infilo la mano nelle maglie della rete ed estraggo il cucchiaio, o almeno quello che una volta era un semplice cucchiaio. Un anno di paziente lavoro lo ha trasformato in un punteruolo affilatissimo. Ne saggio la punta, il filo, e sono soddisfatto.
Riceverò in questo modo il nuovo compagno di cella, quando più tardi di sicuro arriverà. Gli farò assaggiare la mia arma rudimentale ma efficace. Lui sarà libero, io ne subirò le inevitabili conseguenze. Sarò messo in isolamento, e mi ritroverò solo.
Finalmente solo, e con tanto spazio tutto per me.  

domenica 11 dicembre 2011

I COSTI DELLA POLITICA



 Da quando la crisi economica mondiale si è aggravata, costringendo molti Paesi ad adottare misure rigorose, impopolari ed estremamente dure, tali da imporre ai cittadini sacrifici difficili da sopportare, il dibattito sui costi della politica ha avuto, di pari passo, un’improvvisa impennata.
Se ne discute nei vertici ad alto livello, nei parlamenti nazionali, nei luoghi di lavoro, nei bar.
L’atteggiamento dei cittadini, in particolare, è sempre univoco: non è possibile, per una classe politica, richiedere ed imporre rinunce e privazioni se  essa stessa non è in grado, preventivamente, di dare il giusto esempio.
Ma quali sono veramente i costi della politica?
Ci si riduce quasi sempre a discutere sui compensi di legislatori e uomini di governo anche se ciò, in verità, risulta alquanto riduttivo. In linea di principio è doveroso domandarsi se sia lecito corrispondere un compenso adeguato a personalità che assolvono un incarico che comporta grande assunzione di responsabilità. La risposta non può che essere affermativa, a patto che al lauto stipendio corrisponda un adeguato impegno, una seria preparazione e risultati soddisfacenti. Purtroppo non sempre questo avviene. Anzi, quasi sempre accade l’esatto contrario.
Tuttavia, la riduzione dei compensi, del numero di parlamentari, i tagli agli organici delle innumerevoli società controllate e a partecipazione pubblica, la riduzione di auto di servizio e di inutili scorte, di privilegi vari, finisce con essere un inutile palliativo, che poco incide sui conti pubblici. L’adozione di tali provvedimenti possiede certamente un alto livello simbolico, ma non rappresenta di certo la soluzione del problema.
I veri costi della politica sono infatti ben altri.
Lo sono l’inefficienza, l’incapacità di assumere decisioni orientate verso il lungo periodo, verso le future generazioni, la mancanza di una visione generale, il cercare il consenso a tutti costi, schiavi delle frequenti scadenze elettorali.
Di fronte a una situazione del genere, che si protrae da tempo, gli unici soggetti che possiedono la facoltà di intervenire per invertirne la tendenza sono i cittadini. Deve nascere in tutti una nuova consapevolezza, rimasta finora nascosta, affinché sia impedito, a chi non si dimostra all’altezza, a chi prende decisioni contrarie alle convenienze del Paese, a chi nuota nel brodo sporco dell’illegalità e della corruzione, o semplicemente persegue interessi personali, di nuocere ancora.

sabato 10 dicembre 2011

SEGNALI DI FUMO



Accadde il giorno in cui lui arrivò. Forse si trattò soltanto di una coincidenza, oppure no. Non l’avrei mai saputo. Comunque, lo vedemmo camminare in strada, seguito da alcune persone della borgata, i soliti curiosi. Lo scorsi attraverso la recinzione, lo vidi fermarsi di fronte al cancello. Il suo era un volto comune. Lui indossava una giacca stretta e corta, che forse non era neppure sua, e portava una piccola valigia di cuoio, logora, un tipo di borsa che non si usava più da tanti anni. Qualcuno disse che era un idraulico, anche se non ne aveva per nulla l’aria. Si sa, la gente parla, spesso a sproposito. In ogni modo, ci era stato “assegnato”. Lo avremmo ospitato, sarebbe vissuto con noi.
Ma tutto questo non ha importanza alla luce di ciò che accadde dopo. Però mi rimase impresso, mi colpì, anche se dovevo essere ormai abituato a quel genere di situazione. Non so che dire.
Un’ora prima mi trovavo sul retro della mia abitazione, in compagnia del mio fratellino. Lui era preoccupato. Guardava in direzione della casa di un suo amichetto, che si trovava proprio dietro alla nostra, separata da essa da un ampio prato. Era mattino inoltrato, eppure tutte le persiane erano ancora chiuse. Non c’era alcun segno di vita in quel grande edificio. Il piccolo Giorgio voleva mettersi in contatto con il suo amico, ma non sapeva come fare. Gli proposi, scherzando, di fare dei segnali di fumo. Lui, serio, rispose che non poteva farlo, perché era proibito accendere fuochi. La sua recriminazione era un’altra. Perché la sera prima non aveva pensato di lasciare al suo amico uno dei suoi walkie-talkie? In tal modo, disse, avrebbero potuto comunicare, avrebbe potuto avere sue notizie. Nessuno di noi due propose di ricorrere al telefono. Sapevamo che non funzionava, ma non avevamo il coraggio di dirlo. Guardai il cielo. Era grigio, plumbeo, un’infinita cappa che trasmetteva oppressione, che ci rendeva ancora più ansiosi. Buttai la sigaretta, mi allontanai. Giorgio rimase lì, immobile, lo sguardo inquieto, la bocca leggermente aperta. Non lo rividi più.
Più tardi mi ritrovai in strada, da solo. Notai subito che c’era qualcosa di strano. C’era tanta gente, ma tutti si muovevano con estrema calma, cercavano di capire che cosa era successo, o stava succedendo. Mi spostai da un capannello all’altro, senza però riuscire a ricavare alcuna informazione. Notai che la circolazione era interrotta. Non si vedevano più macchine transitare. Solo in quell’istante mi allarmai. I miei movimenti divennero più frenetici. Poi vidi arrivare un autobus. Le persone cominciarono a salire. Lo feci anch’io. Subito mi ritrovai pressato, con fastidio constatai che era impossibile sedersi. Né si poteva pensare di scendere. Mi rassegnai. Non sapevo dove saremmo andati, non mi importava. Poi cominciai a capire. Un uomo, un infermiere che, disse, aveva fatto il turno di notte all’ospedale, ci informò di quanto la situazione fosse grave. Tragica. Durante le ultime ore c’era stata una incessante processione verso il nosocomio. Tanta gente era entrata, nessuno ne sarebbe uscito, aggiunse ancora. Poi tacque, terreo in volto. L’ultima  parola che riuscii a cogliere, quasi bisbigliata, fu epidemia. O qualcosa del genere. Da quell’istante nulla ebbe più rilevanza. Non l’idraulico, o quello che era veramente, e neppure mio fratello e la sua angoscia. Ancor meno il cielo e tutto ciò che vi stava attorno. E questo perché, prima di sera, saremo stati tutti morti.

giovedì 8 dicembre 2011

IL GATTO E LA VOLPE



Sale, l’indignazione sale sempre più, si innalza la pressione e c’è il rischio di un’esplosione.
I tre maggiori sindacati italiani, riuniti dopo tanto tempo, hanno indetto uno sciopero contro i provvedimenti economici adottati dal governo Monti. Che cosa, in realtà, scatena la mia indignazione? La proclamazione dello stato di agitazione? Oppure qualcos’altro?
Cercherò di spiegarlo.
Innanzitutto è utile far rilevare che uno sciopero politico nei confronti di un esecutivo tecnico rappresenta un controsenso. È un po’ come fare una rivoluzione per rovesciare un regime democratico. Una contraddizione, una palese assurdità.
L’attuale governo è stato chiamato a svolgere un compito difficile, quasi impossibile, in una condizione di assoluta emergenza per il Paese. È sostenuto da una maggioranza ampia – troppo ampia – ma del tutto eterogenea, costituita da forze politiche tra loro estremamente conflittuali. L’esecutivo dei tecnici è dunque costretto a procedere tra innumerevoli equilibrismi: è necessario scontentare tutti ma, allo stesso tempo, accontentare tutti. Un vero rompicapo. D’altra parte, questo aspetto rappresenta sia il punto di forza che di debolezza del governo. Non esistono alternative e, comunque, nessuna forza politica è in grado di assumersi, di fronte al Paese, la grave responsabilità di provocarne una eventuale caduta. Questa è la realtà, che piaccia o no.
Torniamo ad analizzare l’azione del sindacato. Se, da una parte, può essere compreso l’atteggiamento della CGIL, risulta del tutto incomprensibile invece la condotta di CISL e UIL. Il maggiore sindacato italiano ha contrastato con forza – pur nell’isolamento – l’azione del governo Berlusconi, pertanto il suo attuale comportamento risulta comunque ammantato di una certa coerenza, anche se non può magari essere condiviso nella sua totalità. La coerenza è, in ogni modo, un valore importante e merita rispetto. Ben diverso è il giudizio su CISL e UIL e sugli ineffabili segretari generali Bonanni e Angeletti. Dov’erano costoro quando, per anni, un governo sciagurato ha massacrato l’intero Paese e i suoi lavoratori? Ci ha condotto a pochi passi dal baratro? Loro tacevano, proni e asserviti, acconsentivano a tutto, - in cambio di cosa? - non promuovevano azioni di lotta, ma sparavano a zero sulla CGIL, stringevano patti con individui incapaci, arroganti e odiosi quali ad esempio l’ex ministro Sacconi.
E sale, l’indignazione continua a salire.
Chi scrive è un dipendente pubblico. Per anni non abbiamo potuto esprimere le nostre proteste, non abbiamo voluto farlo. Ci sembrava ingiusto, perché di fronte a lavoratori ancora più in difficoltà, a persone che perdevano il posto di lavoro, noi apparivamo comunque privilegiati. Eppure siamo stati tartassati in tutti i modi. Vi ricordate la famigerata riforma Brunetta? Stipendi bloccati, contrattazione da biennale a triennale, penalizzazione economica sui giorni di malattia, visite fiscali vessatorie, impossibilità di rinnovo degli organi di rappresentanza dei lavoratori e tanti altri diritti perduti. Dov’erano allora Bonanni e Angeletti, torno a chiedere? E i loro sindacati? Zitti, muti, chini e conniventi. E adesso questi figuri hanno il coraggio e la spudoratezza di esortare i lavoratori a condurre una crociata contro il governo Monti, un esecutivo in carica da venti giorni, colpevole a loro avviso di aver adottato provvedimenti sì in parte anche odiosi, ma comunque necessari. È chiaro che il mancato adeguamento dell’inflazione su alcune categorie di pensionati dovrà essere rivisto, e sono convinto che sarà fatto, così come si dovrà cercare di alleggerire la pressione fiscale sulla tassa per la prima casa, tuttavia il governo si è limitato, in questa triste congiuntura, a eseguire freddamente il compito che è stato chiamato – da tutti noi – a svolgere. La valutazione sul suo operato dovrà essere per forza di cose rimandata.
Bonanni e Angeletti. Il Gatto e la Volpe. Vergogna! Andate a lavorare!
Sappiate che i veri lavoratori vi disprezzano.