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lunedì 31 ottobre 2011

QUESTIONE DI GUSTO


La sala di un grande ristorante. Prima il buio. Poi, improvvisa, la luce. La sigla rumorosa. L’inquadratura è su un solo tavolo, tutti gli altri sono vuoti. Mario Panzotti si volta, saluta il pubblico con un cenno del capo leonino. Visto da lontano sembra un pianista, un concertista che sta per iniziare il suo recital.
In sovrimpressione scorre il titolo del programma: Peccati di gola.
L’uomo è un famoso critico gastronomico. La sua è la trasmissione più seguita della televisione.
L’idea è semplice: Panzotti, unico ospite del locale, divorerà in silenzio dieci portate. Alla fine, dopo alcuni minuti di riflessione, esprimerà il suo gradimento attribuendo un voto al pasto. A ogni puntata si cambia ristorante. Il pubblico gradisce questa formula elementare. Il successo è incredibile.
Primo piano. Il critico appare molto concentrato. Rivolto alle telecamere allenta la cintura dei pantaloni. L’enorme addome deborda, si spande fin sulle cosce dell’uomo. Che  infila un enorme tovagliolo nel colletto della camicia.
Adesso è davvero pronto. Le luci si abbassano. Entra il primo cameriere. Inizia il pasto. Milioni di spettatori sono incollati agli schermi. Una microcamera fissata a un molare permette di riprendere tutti i particolari della masticazione. Il cibo triturato che, poco alla volta, si trasforma in bolo. Sono queste le immagini più suggestive, più spettacolari. Si sta già pensando di estendere questa tecnica di ripresa. In futuro sarà possibile introdurre apparecchi miniaturizzati all’interno di stomaco e intestino. Il pubblico, sempre più esigente, lo pretende. Non vuole perdere nulla.
Panzotti ha la bocca unta. Di proposito non si pulisce. Schiocca le labbra, emette piccoli grugniti di piacere. Gemiti di gradimento. A volte smorfie di disappunto. Quando ciò accade, tutti trattengono il fiato.
I piatti si susseguono a intervalli regolari. Il critico slaccia ancora di più la cinta. Tutto il suo corpo si espande, pronto a ricevere enormi quantità di cibo.
Lontano, dall’altra parte del mare, un’altra tavola imbandita. Un uomo solo seduto. Il suo piatto è vuoto. Dietro di lui, in piedi, una persona lo osserva, con malcelata preoccupazione.
“Emiro, nulla anche oggi?”
“No.”
“Prendete qualcosa, ho assaggiato tutto personalmente.”
“Un po’ d’acqua, per favore.”
Viene servito, ma nulla accade. Lui rimane immobile.
“No, ho cambiato idea. Non mi fido.”
“Non potete continuare così.”
Una scrollata di spalle.
“Emiro!” Un appello accorato.
“Allora fate qualcosa” dice l’uomo vestito di bianco.
“La morte di Abdul è stata una vera disgrazia. Non sarà facile sostituirlo.”
“Ti pago per questo. Devi trovare una soluzione. Subito.”
“Sì, subito. Tuttavia…”
“Voglio lui” dice l’emiro, all’improvviso.
“Eh?”
Entrambi ora hanno gli occhi fissi sul grande schermo appeso di fronte al tavolo. Dal satellite arrivano le immagini di quello strano programma. Il grassone inquadrato in primo piano è quasi giunto alla fine del pantagruelico pasto. Ha lo sguardo annebbiato. Soffoca un piccolo rutto, poi sorride.
“È impossibile. Non accetterà mai.”
Nella voce del servitore c’è sconforto.
L’emiro si alza. Non ha mangiato nulla, né ha bevuto.
“Nulla è impossibile. Dipende dall’offerta” dice prima di allontanarsi.
Dall’altra parte del mare la trasmissione è appena terminata. Mario Panzottti, sostenuto da due uomini robusti, si alza dal tavolo. Ha già espresso il suo giudizio. Parte la sigla finale. Pervengono i primi dati di ascolto. Si tratta di numeri impressionanti. Un trionfo.
Nel camerino. Panzotti si riprende a fatica. La sua prestazione è stata ottima ma spossante. È gonfio, appesantito. Si muove lentamente.
“Panzotti, la vogliono al telefono.”
“No, non sono in grado di parlare.”
“Pare sia importante.”
Un sospiro rassegnato. Uno sbuffo nervoso. Da balena.
L’uomo afferra il telefono. Il ricevitore sparisce nella sua mano, che ricorda un canotto gonfiabile. Conversa alcuni minuti. Sembra interessato e coinvolto.
“Me ne vado” dice alla fine, rivolto ai presenti.
Incredulità generale. Poi comprendono, anche se fingono il contrario.
“Avete capito benissimo. Lascio la trasmissione.”
“Proprio adesso? Tra un po’ ci sarà il rinnovo del contratto. Se la questione è economica…”
Il produttore è affranto. Non sa che dire.
“Ho ricevuto una proposta alla quale non intendo rinunciare. Sarò il consulente gastronomico dell’emirato di…”
“Le daremo di più!”
“Di più? Sicuri?” Poi Panzotti spara la cifra.
Tutti ammutoliscono. Chinano il capo, sconfitti.
“Scusatemi” aggiunge il critico. “Devo andare a vomitare quelle nove portate.”
“E la decima?” domanda il regista.
“Non era del tutto male. Ho deciso di tenerla.” dice Panzotti. Si allontana e si dirige verso il bagno.
Di nuovo dall’altra parte del mare.
“Allora?” domanda l’emiro. È sdraiato su un gigantesco divano. Si sente debole. Il digiuno lo sta fiaccando sempre più.
“Ha accettato!” C’è gioia nella voce del servitore.
“Ne ero sicuro.”
“Ha accolto tutte le nostre le condizioni. Abbandonerà quel programma immediatamente. Domani dovrebbe essere già qui.”
L’emiro annuisce. Pensa che potrà finalmente riprendere a mangiare.
“Speriamo che duri più del povero Abdul” aggiunge il servitore.
“Qui da noi, purtroppo, gli assaggiatori non hanno mai vita lunga” dice l’emiro. Poi si assopisce, ormai sereno.



martedì 25 ottobre 2011

IL DELITTO PERFETTO



Ha inizio un’altra di quelle interminabili discussioni. Quali? Quelle che sostengo, quasi ogni giorno, con il mio amico Giulio. La nostra è un’abitudine piuttosto antica, nata tanti anni fa, quando eravamo poco più che ragazzi. Ci incontriamo, scambiamo alcuni vuoti convenevoli e poi, a turno, ognuno di noi propone un argomento di dibattito. Spesso si parla di politica, a volte di sport, di temi filosofici ed esistenziali oppure semplicemente di fatti di cronaca. I nostri confronti sono piuttosto animati, molto serrati, a volte volano addirittura parole grosse, poiché entrambi possediamo un carattere forte, e tutti e due vogliamo sempre avere ragione, pretendiamo ad ogni costo dire l’ultima parola, quella definitiva.
Oggi ho nei confronti di Giulio un piccolo vantaggio, perché è il mio turno di suggerire il tema della disputa verbale.
Con finta indifferenza, quasi con noncuranza, butto lì quelle parole, in realtà frutto di lunga e sofferta meditazione.
“A mio avviso il delitto perfetto esiste.”
Giulio sgrana gli occhi. È un po’ sorpreso, non si aspettava una tesi così banale. Tuttavia le nostre regole non scritte gli impongono di stare al gioco, di rispondere, di confutare la mia asserzione.
“Non è vero” risponde. Fin qui tutto normale. Il mio amico ha scelto un’apertura classica.
Lo seguo.
“Perché? Dimostramelo.”
“Innanzitutto dobbiamo definire che cosa si intende per delitto” dice. È prudente, mi teme.
“La soppressione violenta di una vita umana attuata con premeditazione, con l’assoluta garanzia di impunità.”
Giulio annuisce, pensieroso.
“Bene” dice. “Quindi possiamo escludere gli omicidi compiuti d’impeto, anche nel caso in cui l’assassino, per circostanze fortunose, la faccia franca?”
“Certamente. Non si può parlare di delitto perfetto in assenza di una fase progettuale. La volontà di uccidere deve essere accompagnata da intenzione e, naturalmente, da accurata preparazione.”
Le mie parole sono perentorie. Il mio amico sembra essere in difficoltà.
“Se la buona sorte può favorire la mancata punizione in un omicidio scatenato da una furia improvvisa, la sfortuna può, allo stesso modo, essere d’ostacolo nel caso di un delitto programmato” dice.
Lo guardo, soddisfatto.
“Giulio, stai tergiversando. Le tue asserzioni sono banali e finora non hai dimostrato nulla. La fortuna è essenziale in tutti gli atti della vita.”
“Hai ragione. Se però l’esecutore ha tralasciato qualcosa, anche soltanto un piccolo particolare, non si può più parlare di malasorte, ma di errore. In questo caso il presunto delitto perfetto risulterà inficiato da tale pecca per diretta responsabilità dell’autore.”
“Che ti succede, Giulio? Sei poco convincente. E, soprattutto, troppo vago. Quali possono essere questi sbagli? È chiaro che l’omicida baderà a non lasciare la minima traccia, a garantirsi una via di fuga sicura, a far sì di non essere visto, a utilizzare un’arma pulita e così via. Tutto studiato, tutto accuratamente ponderato. Il concomitante verificarsi di tutte queste condizioni, fatto tutt’altro che impossibile, gli garantirà l’esenzione dalla pena e conferirà alla sua esecuzione il sigillo di delitto perfetto.”
Giulio scuote il capo.
“La tua costruzione regge, ma soltanto a livello teorico. La fase critica del crimine, lo sai bene, è quella pratica, l’attuazione vera e propria, la sola che possiede in gran quantità fattori di imprevedibilità. E comunque, se proprio devo essere sincero, devo dirti che hai scelto un argomento di discussione alquanto noioso. Non è possibile per te dimostrare tale asserzione. Nello stesso tempo, è difficile per me riuscire a controbatterla per mezzo di elementi indiscutibili. Ti propongo una patta.”
Osservo il mio amico, il suo atteggiamento un po’ strafottente, il suo sorriso beffardo.
“Invece ti proverò che ho ragione!” affermo.
“Insisti? Basta!”
A quel punto estraggo la pistola, un lucido arnese dispensatore di morte. La punto contro Giulio e poi premo il grilletto tre volte, in rapida successione, a bruciapelo. Lui crolla senza un lamento.
Mi allontano.
Cari lettori, avete avuto il raro privilegio di assistere a un delitto perfetto. Come dite? C’erano dei testimoni? E chi sarebbero questi testimoni, voi?
Non fatemi ridere. Voi non avete visto nulla, voi non siete a conoscenza di nulla! Non sapete chi sono, come mi chiamo, non sapete neppure se sono un uomo o una donna. Non conoscete il luogo del delitto. Una strada? Una stanza? E Giulio, il povero Giulio, è davvero quello il suo nome?
Cari lettori, il delitto perfetto esiste. L’ho dimostrato, e ho vinto, per la prima volta ho vinto.

martedì 18 ottobre 2011

IL PRESIDENTE GOLPISTA


Con un certo stupore, con incredula meraviglia, annoto che nei giorni scorsi sono passate piuttosto inosservate, quasi sotto silenzio, alcune trascrizioni di intercettazioni telefoniche riguardanti il nostro sempre più impresentabile Primo Ministro. Berlusconi, nell’occasione, era impegnato in farneticanti conversazioni con l’ormai tristemente famoso Walter Lavitola, bieco individuo dalla incerta professione, forse giornalista, forse pescivendolo, di sicuro oscuro faccendiere. Con un tono di voce piatto e cupo, minaccioso, il Premier invocava, allo scopo di sottrarsi dalla sua ossessione nei confronti di magistrati e di certi giornalisti, il ricorso a sconvolgimenti di piazza (degni dei famigerati black-bloc) e assedi a Palazzi di Giustizia nonché alla sede di un quotidiano a lui particolarmente avverso. Parole gravi, di chiara matrice eversiva.
A questo punto è lecito e naturale il sorgere di un dubbio. Se tali espressioni sono quelle di un folle, di uno squilibrato, è palese il fatto che si tratti di persona del tutto inadeguata a governare un grande Paese come l’Italia (com’era l’Italia?). Deve essere allontanato immediatamente dalla sua posizione di potere, essendo egli, in modo manifesto, incapace di intendere e volere. Deve essere sottoposto a cure psichiatriche urgenti. Se è stato considerato tale l’uomo che, tempo fa, lo ferì al volto con la statuetta del Duomo, lo stesso metro deve essere utilizzato nel suo caso.
Nella malaugurata ipotesi che, invece, tali frasi siano state proferite seriamente e nel pieno possesso delle facoltà mentali, la situazione si prospetta come assai più inquietante.
Si tratterebbe, in questo caso, di incitazione alla rivolta sociale e al colpo di stato. Se così fosse, sarebbe indispensabile un intervento d’imperio esercitato dall’unica autorità che ne detiene la facoltà: la Presidenza della Repubblica. L’atto dovrebbe consistere nello scioglimento del Parlamento.
Naturalmente, al verificarsi di questa drammatica evenienza, da parte di alcuni ambienti politici e non solo, si griderebbe al golpe. Si tratterebbe, però, di una sorta di “golpe democratico” rivolto ad assicurare il ripristino dei diritti dei cittadini, che rischiano, nel perdurare della condizione attuale, di affievolirsi sempre più. L’unica immediata conseguenza sarebbe quella di portare i cittadini alle urne, prospettiva tutt’altro che allarmante.
In ogni caso si tratta pur sempre di scenari angosciosi, se si considera che tali eventi andrebbero ad aggiungersi alle molteplici afflizioni del vivere quotidiano provocate dalla crisi economica che incombe su di noi in maniera sempre più spaventosa.
Abbiamo toccato il fondo? Barbara Spinelli, nell’odierno suo editoriale apparso su La Repubblica, afferma che, per definizione, il fondo non ha fondo.
Ce ne siamo resi conto.


domenica 16 ottobre 2011

L'EREDITA'



L’anziana signora Lucci siede sulla sua poltrona preferita. Malgrado la sua veneranda età, la donna conserva un aspetto giovanile, la sua figura è snella e impettita, i capelli sono curati come sempre e l’abito che indossa è molto elegante.
Di fronte a lei c’è una sua più giovane amica, la signora Tanzi che, come fa quasi ogni giorno, si è recata a farle visita.
“Hai mai pensato di poter ricevere un’eredità?” domanda all’improvviso la signora Lucci, dopo aver riflettuto a lungo. L’altra donna sembra sorpresa.
“Un’eredità? Io?”
“Certo. Perché no?”
“Ma sono sola! Non ho più parenti, chi potrebbe mai fare una cosa simile?”
“Non esistono solo i parenti. Ci sono gli amici, oppure semplici conoscenti che potrebbero comunque decidere in tal senso.”
“Impossibile. Ti ripeto, non frequento nessuno, non esco mai di casa se non per fare la spesa e venire a far visita a te. Chi vuoi che possa pensare a me?”
“Però potresti darti da fare” insiste la signora Lucci. “La fortuna può essere aiutata.”
La signora Tanzi ha un’espressione sempre più incredula.
“In che modo? Non capisco” dice.
“Per esempio potresti occuparti di una persona anziana e sola, aiutandola, facendole compagnia. Alla fine, probabilmente, ti dimostrerebbe tutta la sua riconoscenza donandoti i suoi averi e tu non avresti più problemi.”
“Come sai che ho dei problemi?” domanda la signora Tanzi, diffidente. “Non te ne ho mai parlato.”
“Mi è stato riferito. Sai, da tempo non lascio più l’appartamento, ma tu non sei l’unica persona con la quale ho mantenuto dei contatti” risponde la signora Lucci.
“Ma da te non ho mai visto nessuno! A parte il prete, naturalmente. Il prete! È stato lui, vero?”
La signora Lucci sospira.
“Don Gualtiero. Credimi, si tratta veramente di una gran brava persona. Te lo assicuro.”  
“È un gran pettegolo!” esclama la signora Tanzi.
“Hai ragione, quello è il suo unico difetto.”
“Non doveva permettersi di farlo.”
“Che importa, tanto siamo amiche. Non c’è nulla di male se io conosco la tua reale situazione. In ogni modo, comprendo che tu non me ne abbia mai parlato, si tratta di un pudore del tutto motivato. Comunque, che ne dici della mia proposta?”
“Cos’hai oggi? Perché fai questi strani discorsi? Sai benissimo che io non sono il tipo adatto per fare certe cose. Mai e poi mai starei dietro a una vecchia nella speranza di carpirle l’eredità!”
“Perché no?”
“Per il semplice motivo che possiedo una mia dignità, alla quale non ho nessuna intenzione di rinunciare.”
“Stai peccando di orgoglio” dice la signora Lucci, sorniona.
“Ti sbagli!”
“Non ci sarebbe niente di male se tu agissi in buona fede.”
La signora Tanzi guarda l’amica con attenzione.
“Che cosa vuoi dire?”
“Bé, dovresti dedicarti con grande impegno al tuo compito pur senza avere la certezza del risultato finale. Ciò, in un certo senso, dimostrerebbe che non agisci soltanto per interesse.”
“Mi dispiace, ma non ti seguo.”
“Sicura?”
“Assolutamente sì! Io non mi occupo di vecchie! I loro beni non mi interessano! Cioè, in realtà potrebbero pure interessarmi, tuttavia non credo di…”
“Sei combattuta?”
“No! Ma perché stiamo parlando di questo? Che cosa ti è preso? Cambiamo discorso, per favore.”
“Come vuoi. Scusami, una povera donna anziana e sola a volte può apparire come piuttosto eccentrica.”
“Stai tranquilla, non c’è alcun problema. Oh! Si è fatto davvero tardi, devo proprio scappare.”
“Hai degli impegni?” chiede la signora Lucci.
“Impegni? No, non ho mai impegni. Soltanto, è l’ora di andare.”
“Capisco” dice l’anziana donna.
La signora Tanzi si alza, saluta e se ne va.
Appena la porta si chiude, la signora Lucci scuote la testa, sconsolata. Poi afferra il bastone, con un po’ di fatica si rimette in piedi e si dirige nella stanza da letto. Il suo cane, il barboncino Flick, che fino a quel momento era rimasto acciambellato ai suoi piedi, la segue. La donna scosta un quadro, sotto al quale è celata una piccola cassaforte. Prende una chiave tiene appesa al collo e la apre.
“Flick, hai sentito? Avevi proprio ragione tu.”
Il cane annuisce, serio.
La signora Lucci estrae dalla cassaforte un foglio carta, poi torna in salotto e si accomoda a un minuscolo scrittoio. Stende il foglio sul piano. È il suo testamento. Lo ha redatto il giorno prima, lasciando in bianco il nome del suo erede universale. Prende una penna e, con mano ferma, verga quell’unica parola mancante: Flick.

mercoledì 12 ottobre 2011

ORDALIA



Li vedo arrivare. Sono tanti, una lunga fila che percorre la strada dissestata. Nel buio della notte, la luce tremolante delle loro fiaccole squarcia un cielo senza stelle. Sapevo che sarebbero venuti, e li ho aspettati. Li guardo avanzare, sento ormai le loro grida. Lentamente, mi avvio. Discendo la collina finché non raggiungo il bordo scuro del nastro d’asfalto, e attendo. Quando i primi finalmente sopraggiungono, mi unisco alla processione. All’inizio, nessuno bada a me. Li osservo, uomini e donne che sembra abbiamo smarrito la loro umanità. In fondo, li comprendo. I loro abiti sono in disordine, riesco a intravedere, pur nella semioscurità, che i loro corpi sono sporchi, i volti luridi, i loro capelli scarmigliati, incolti. Sembrano barbari, sono barbari, sono esseri che ormai hanno perso tutto, e il loro riscatto non può che essere la vendetta. Per un istante mi domando se anch’io sia simile a loro. Un interrogativo angosciante al quale non so dare una risposta. Mi rifiuto di darla, perché ho paura, ho paura di ciò che posso essere diventato. Cammino, confuso tra quella folla vociante, inebriato mio malgrado da un qualcosa che mi era estraneo, sconosciuto. Poco alla volta, tuttavia, percepisco in me un inaspettato e crescente senso di appartenenza nei confronti di quella massa scomposta e disordinata. Io sono loro e loro sono me. Tale sensazione dura un attimo, poi mi riscuoto, cerco di reagire, di contrastare questo sconvolgente stato d’animo con tutte le mie forze. Poi, però, mi abbandono, allento sempre di più le mie difese. Sia come deve essere, penso, sebbene con amarezza.
Adesso non riesco più a passare inosservato. Mi hanno notato. Mi guardano, e qualcuno si avvicina di più a me. Un ragazzo. Sento che sta per rivolgermi la parola, temo ciò che di sicuro sta per chiedermi. Allora lo precedo.
“State andando alla villa?” domando.
“E dove, se no?”
“Questa è l’unica strada” aggiungo.
“Sì, è l’unica strada. Dritta sulla villa. Lo andiamo a prendere.”
“E poi?”
“E poi, sia come sia.”
“Non c’era un altro modo?” chiedo ancora. Lui mi fissa, non capisce. È giovane, forse è troppo giovane. Un uomo, grosso, lo spintona,  lo sposta. Si sistema di fronte a me, mi costringe a rallentare il passo, quasi a fermarmi.
“Sarà fatta la volontà del Signore. Poco ma sicuro. Non c’è altra via, soltanto la Sua” dice, convinto.
Annuisco, non posso fare altrimenti. Non so quale sia la volontà del Signore, non so più nulla, ma di certo so che non posso fare nulla per arrestare una tale disperata moltitudine.
“Faremo giustizia” prosegue l’uomo.
Interviene una donna.
“Giustizia divina! Noi tutti siamo soltanto uno strumento nelle Sue mani!” Il suo tono è duro, esaltato. Altra gente si stringe attorno a me. Alla fine, la mia presenza desta curiosità.
“Tieni” dice un vecchio, e mi porge una vecchia zappa arrugginita. Scuoto il capo ma lui insiste, noto sguardi malevoli e allora accetto il dono. Noto che tutti impugnano qualche strumento d’offesa, uomini e donne, e anche i bambini. Distinguo grossi badili, mazze e martelli, rastrelli e forconi, lunghi bastoni.
“Forse se ne andrà” azzardo. Tutti scuotono la testa con vigore.
“Non se ne andrà mai!” rispondono in tanti, quasi in coro.
“Lo impaleremo su un palo rovente!” sibila un ragazzino alle mie spalle.
“Lo scorticheremo, gli staccheremo di dosso quella vecchia pelle lembo dopo lembo!” urla una ragazza bionda.
“Lo faremo a pezzi e lo getteremo in pasto ai maiali!”
Sono sempre più scosso da tale brutale aggressività. So che non sono soltanto parole. Questa gente è decisa, so che un tale livello di esasperazione non potrà che condurre ad altri atti di violenza inaudita, oltre a quelli che già sono stati consumati.
“È un fornicatore, merita la morte tra mille sofferenze!”
“È l’Anticristo! Lo abbiamo compreso troppo tardi, ma adesso è giunta la sua ora!”
Non so che cosa fare, che cosa pensare, riprendo a camminare.
“Ti vedo perplesso…” mi dice un uomo dall’apparenza distinta, un po’ diverso da tutti gli altri. I suoi abiti sembrano abbastanza in ordine, il suo corpo non emana cattivo odore. Non tanto.
“No, no, sono convinto” dico, sorprendendomi di me stesso. In realtà non sono per nulla persuaso che quella progettata sia la migliore soluzione. Lui mi guarda, come se attendesse da me ulteriori parole.
“Perché la famiglia? Perché i suoi figli?” domando.
“Lo abbiamo dovuto fare. La sua stirpe era il frutto di un seme avvelenato, era gente priva di anima, che non meritava di vivere, mai mondata dal peccato originale. Così ha voluto il Signore!”
Mi allontano da lui.  Mi fa paura.
“Ho sentito” mi soffia un uomo nell’orecchio. “Non temere, al momento opportuno la violenza sarà frenata. Non siamo bestie, non siamo come lui.”
Mi volto e lo guardo. Mi sembra saggio, le sue parole possiedono un certo equilibrio, che in altri finora non ho riscontrato. Lo incoraggio con un cenno a proseguire.
“Non temere, non lo uccideremo” dice.
“Sarà processato?”
Mi guarda, stupito.
“Processato? No, gli uomini sono fallibili, non sarà giudicato da noi.”
“E allora?”
“Sarà sottoposto a ordalia!”
Sgrano gli occhi, incapace di ribattere.
“Cospargeremo il suo corpo di benzina e poi vi appiccheremo il fuoco. Se le sue carni bruceranno sarà ritenuto colpevole, altrimenti….” Mi scosto, inorridito. Al mio fianco, un gruppo di ragazzine invoca il fuoco purificatore. Sconvolto, attonito, scivolo poco per volta verso la coda del lungo serpente umano. Finché mi ritrovo solo. Tra le mani impugno ancora la vecchia zappa. La getto a terra, disgustato. E rifletto.
Com’è potuto accadere tutto questo? In così poco tempo? Un nuovo oscurantismo è piombato su tutti noi, da un giorno all’altro. Nessuno parla più della crisi economica che, non più di un anno fa, teneva banco ovunque. È stata ormai dimenticata, rimossa, da quando tutto è precipitato all’improvviso. D’accordo, anche la Chiesa ha le sue colpe. Ha cavalcato fin dall’inizio questo ritorno alla spiritualità, che ben presto si è trasformato in puro fanatismo. Nondimeno, la maggiore responsabilità è da addebitare a un solo bieco individuo, la stessa persona che, col tempo, è riuscita a trasformare pacifici esseri umani in creature piene di rabbia, di rancore e di risentimento. Come ha potuto fare tutto ciò? Di quali poteri soprannaturali è dotato?
Tutto d’un tratto, mentre vedo la lunga fila di uomini e donne allontanarsi, sono colto da una illuminazione. È lui! Non possono esserci dubbi, è proprio lui! Soltanto lui detiene simili poteri! Il demonio!
Raccolgo la zappa da terra e rincorro la processione diretta alla villa.
“Aspettatemi! Arrivo!” urlo nella notte.
Quasi non riconosco la mia voce.



   

domenica 9 ottobre 2011

GONFIO DI PASSIONE



Ho sempre amato molto il calcio, fin da quando sono nato. In realtà, della mia vita non ricordo altro che il profumo dell’erba, gli allenamenti e le partite. Non ho mai fatto altro se non calcare il campo di gioco, del mondo non ho visto nulla, tuttavia non nutro alcun rimpianto. Fin dall’inizio ho compreso che la mia esistenza sarebbe stata soltanto quella, senza sosta, sino alla fine.
Ho calcato palcoscenici importanti, e di ciò sono molto orgoglioso. Ho udito le grida di entusiasmo, di rabbia e di delusione di una moltitudine di spettatori deliranti. Di fronte a tali manifestazioni sono sempre rimasto del tutto indifferente, non ne sono mai stato per nulla contagiato.
In tutta onestà devo ammettere che non sono stati gli incontri, le partite, i momenti che più hanno contribuito a farmi appassionare al calcio. Le gare si possono vincere o perdere. Io non ne ho mai persa una e, allo stesso tempo, non sono mai uscito vittorioso dal campo di gioco. Vi domanderete se ho sempre pareggiato? Dite che ciò non è possibile? Sì, in parte avete ragione, non si può pareggiare ogni volta, il fatto è che per me vittoria, sconfitta o pareggio sono esattamente la stessa cosa. Ma, dicevo, per me l’aspetto agonistico non è mai stato così importante. A me interessa giocare, e nient’altro. Io desidero passare più tempo possibile sul prato, non importa se impegnato in un incontro importante oppure in un semplice allenamento. Tra l’altro, la preparazione è l’aspetto del mio sport che apprezzo di più. Ore e ore trascorse sul terreno, impegnato a svolgere i più svariati esercizi, a volte semplicemente a riposare sotto i raggi del sole. Cercate di capire, quando esco dal terreno di gioco la mia esistenza non ha più alcun senso.
Il calcio è uno sport molto duro. Gli scontri possono essere anche piuttosto violenti. Botte di tutti i tipi e soprattutto calci. Di continuo. Utilizzando gli stinchi, con l’interno, l’esterno o il collo del piede, con maggiore o minore forza. A volte, addirittura, con le mani. Questi ultimi sono i momenti più dolci, anche se durano poco. In ogni caso, il colpo si assorbe in fretta, e poi si ricomincia con rinnovato vigore, con nuovo entusiasmo.
La mia carriera è ormai arrivata alla fine. Non sono più quello di una volta. Me ne rendo conto, con amarezza, ogni giorno che passa. Da tanto tempo ormai non disputo più partite ufficiali. Non mi mancano, perché continuo comunque a giocare, quasi ogni giorno. Non sono più veloce come un tempo, le innumerevoli botte ricevute hanno lasciato il segno, la mia pelle è colma di cicatrici. Ma, sappiate, non intendo assolutamente mollare. Finché la passione – ed è ancora tanta – mi sosterrà e sarò in grado di muovermi, seguiterò a calcare i campi da gioco, non importa se più o meno spelacchiati.
“Ehi! Prendi quel pallone che facciamo due tiri!”
Mi chiamano! Mi vogliono! Adesso devo proprio andare! Si gioca!
Scusate…   

venerdì 7 ottobre 2011

A CIASCUNO IL SUO



Mi è capitato di assistere, mio malgrado, a una delle innumerevoli comparsate televisive del governatore (!?) del Piemonte Roberto Cota. Sì, il Piemonte, la mia regione.
Come sempre, l’esibizione di Cota è risultata alquanto penosa. E, come ogni volta, lui si è  dimostrato vuoto, ovvio, imbarazzante nonché raggelante. Il suo pensiero politico, inutile dirlo, non esiste. In sostanza, quasi nessuna idea. Le poche, invece, sono confuse e sconcertanti. La persona, in sé, è infantile, incapace, impreparata, del tutto inadeguata a ricoprire qualsiasi ruolo di responsabilità. Durante tutta la trasmissione Cota è stato, a sua insaputa naturalmente, dileggiato e canzonato dal conduttore, dall’altro politico presente, dai giornalisti, compreso quello riconducibile alla sua parte politica. Tutti sono apparsi più informati, più competenti, più sicuri dei concetti espressi. Insomma, si è trattato di un vero disastro.
Nulla di nuovo, direte. Vero. Tuttavia, ciò che più sconcerta è il fatto che Roberto Cota (esponete di spicco a livello nazionale del suo partito, tra l’altro) non è il solito politico nominato in virtù di leggi elettorali farlocche e compiacenti. Certo, non pochi maneggi e imbrogli hanno contribuito alla sua elezione, però lui è stato scelto direttamente dai cittadini, che hanno visto nella sua figura… che cosa? Tale domanda è destinata a rimanere senza risposta, dal momento che nessuno tra gli elettori che l’ha preferito sarebbe in grado di fornire una qualsiasi decente giustificazione, e questo elemento non può che far aumentare il già alto livello di indignazione e di sbigottimento.
È giusto pure annotare che l’ineffabile governatore, nella sua regione, è quasi sempre assente, e dunque ci si chiede come sia possibile, per lui, svolgere in maniera appropriata i suoi importanti compiti istituzionali. Non è presente perché sempre impegnato nel partito a livello nazionale. In quali occupazioni? Chi non l’ha mai visto rincorrere, premuroso, l’adorato leader Umberto Bossi? Chi non l’ha mai visto nell’atto premuroso di sorreggere e assistere quell’uomo sofferente, di porgergli il posacenere o di accompagnarlo sulle pendici del Monviso per contribuire a dar vita a singolari e risibili cerimonie?
Un vecchio detto afferma che ognuno di noi dovrebbe svolgere l’attività più adatta alle proprie doti e alle proprie caratteristiche. A ciascuno il proprio mestiere, dunque.
In conseguenza delle precedenti considerazioni è quindi lecito domandarsi quale sia allora l’impiego più confacente per il buon Roberto Cota.
Su ciò non possono esistere dubbi: è quello di badante.
Non pochi cittadini si augurano che l’invito sia accolto al più presto.   

  

mercoledì 5 ottobre 2011

OTTAVO PIANO



L’uomo, stanco e abbattuto, rientra a casa.
“Non c’è stato niente da fare. Chiuderanno, e ci licenzieranno tutti. Tra due mesi non avrò più un lavoro” dice alla moglie, tutto di un fiato.
Lei, stupita e incredula, non risponde e si abbatte su una sedia.
“Mi dispiace” aggiunge l’uomo, affranto.
Lei cerca di riprendersi.
“Come faremo? La casa, il mutuo…”
“Il mutuo non lo potremo più pagare, la casa la perderemo, andrà alla banca.”
“E dove andremo?”
“Non lo so. All’inizio, utilizzando i pochi risparmi che abbiamo, potremo affittare un alloggio. Comunque, sarà per poco, i soldi finiranno presto e di nuovo non sapremo dove andare.”
“Devi trovare subito un altro lavoro!”
Lui sorride, amaro.
“Guardami. Ho più di quarant’anni e non so fare nulla se non stare dietro a una scrivania. Osserva bene le mie mani, sono pallide, senza calli, non hanno mai impugnato alcun attrezzo.”
Ma… il tuo lavoro…”
“Il mio lavoro non esiste, non è mai esistito. I burocrati e i passacarte non sono indispensabili per l’umanità.”
“Ti potrai adattare a fare altre cose” dice lei, disperata.
“Te l’ho appena detto, nessuno mi vorrà. Chiunque può fare meglio di me, un giovane, uno straniero. Meglio assumere loro, sottopagati, che puntare su un vecchio ronzino, incapace e con molte pretese come posso essere io. Ci dobbiamo rassegnare, non troverò mai un’altra occupazione. Con questa crisi, poi...”
Lei inizia a piangere, in silenzio. Poi, di colpo, si scuote.
“Ho un’idea! Vendiamo la macchina!”
“No!” dice l’uomo, brusco.
“Perché no?” domanda la moglie.
“È vecchia, non vale nulla. Inoltre, ci potrebbe servire.”
“Che cosa vuoi dire?”
“Non ci potremo permettere una casa a lungo, sia nostra che in affitto. Dovremo utilizzare l’auto per trascorrere le notti.”
“Le notti? In auto? Ma che cosa stai dicendo? E Marco? Un bambino ha bisogno di una casa.”
“Marco? Mi spiace dirlo, ma lo perderemo.”
“Sei pazzo?” domanda lei, aggressiva. La sua afflizione si trasforma di colpo in rabbia.
“Vedi, saremo considerati indigenti, e non più in grado di provvedere alle necessità di nostro figlio. Di sicuro interverranno i servizi sociali e Marco sarà affidato a un’altra famiglia…”
“No!”
“È inevitabile. Comunque, non lo perderemo del tutto. Potremo andare a trovarlo quando vorremo. Cioè, per meglio dire, quando lo consentirà il giudice tutelare.”
“No!”
“Non possiamo fare nulla, così è la legge. Almeno Marco avrà un tetto, potrà nutrirsi in maniera regolare, mentre noi…”
“Come faremo, noi?”
“Ci sono le mense per gli indigenti, istituti religiosi che prestano assistenza ai poveri. Vedrai, un pasto al giorno riusciremo a rimediarlo.”
Lei scuote la testa, attonita.
“Perché sei così rassegnato? Perché non reagisci?”
“È ormai tanto tempo che ci penso, e non sono riuscito a trovare una soluzione. Siamo soli, nessuno può aiutarci. Se avessimo dei genitori, dei fratelli…”
“Ci aiuteranno gli amici, ne sono sicura.”
Lui ride, beffardo.
“Gli amici? Ma non ti sei accorta che la fuga è già iniziata? Nessuno vuole frequentare una famiglia di straccioni.”
Lei riprende a singhiozzare, sempre più disperata. Poi all’improvviso il suo volta torna sereno.
“Vedrai, in qualche modo ce la faremo” dice, sorprendendo l’uomo.
Alla fine la donna si alza e si avvicina al marito. Senza dire nulla, lo bacia e poi lo prende per mano. Dolcemente, lo guida verso il balcone. Lui annuisce, serio. Dopo un attimo entrambi si gettano nel vuoto.
Dall’ottavo piano.




domenica 2 ottobre 2011

IL CLOWN TRISTE



Il clown cammina in circolo sulla pista. Dietro di lui, un ragazzino armato di secchio e paletta raccoglie gli escrementi depositati dai cavalli nel corso del numero precedente. La scena è triste e malinconica, i pochi spettatori lo percepiscono e appaiono disorientati. Quello sgangherato circo si è rivelato ben al di sotto delle loro già scarse aspettative.
“Sapete? Io di proposte di lavoro ne ricevo a bizzeffe” dice il pagliaccio gridando per farsi sentire da tutti. “Posso scegliere se fare il clown in un circo oppure se darmi alla politica. Prima di decidere, però, voglio capire che differenza c’è!” Nessuno ride.
Allora il clown si esibisce in alcune capriole. Finge di sbagliare,  ruzzola a terra pesantemente. Poi si spruzza dell’acqua colorata addosso, si prende a martellate in testa, cammina a quattro zampe. Niente, ancora nessuna risata. Simulando di inciampare negli ingombranti pantaloni, finalmente esce dalla pista tra il sollievo dei presenti. Scosso, turbato, l’ometto raggiunge il suo camerino, dove ad attenderlo c’è una giovane donna.
“Vanessa!”
“Ciao Geppo. Allora, com’è andata stasera?” domanda la ragazza con indifferenza, anche se conosce bene la risposta.
“Male, molto male. Di questo passo tuo padre sarà costretto a licenziarmi.”
“Che dici? Non lo farà mai! Vedrai, appena ti riprenderai tutto andrà di nuovo bene.”
“Ti ringrazio per l’incoraggiamento, Vanessa. Ma è inutile, sarò licenziato. D’altra parte, me lo merito. Chi vuole un pagliaccio che non riesce a far divertire la gente?”
La giovane sospira.
“Bè, anch’io non sono andata molto bene. Hai visto come si è comportato Pato? Non se ne stava mai allineato con gli altri, faceva ciò che voleva! Quel cavallo è proprio un gran testone!”
“Dovresti addestrarlo in maniera diversa…”
“No! Non ricorrerò mai alla violenza per ammaestrare i miei animali!”
“Tuo padre cancellerà il numero, dal momento che non può cacciarti…”
“Non importa, vuol dire che farò soltanto il resto. Ma guai a chi tocca Pato!”
Geppo, il clown, annuisce. Pure lui avversa chi maltratta gli animali, anche se gli è toccato assistere a tali scene tante volte. Per ciò è molto affezionato a Vanessa. Per lei prova attaccamento e ammirazione. La ragazza, oltre che domatrice, nel piccolo circo è pure giocoliera, acrobata e contorsionista. Anche se i suoi numeri non sempre riescono alla perfezione, ottiene comunque sempre l’applauso del pubblico. Soprattutto da quello di parte maschile. Oggetto di ammirazione quasi mai sono i suoi cavalli o le altre sue esibizioni, bensì i suoi capelli biondi, l’ovale perfetto del suo viso o le sue lunghe e bellissime gambe affusolate. Quegli spettatori, da lontano, non notano il suo trucco pesante e approssimativo, la sua calzamaglia rattoppata e sbiadita dai troppi lavaggi. Per loro è sufficiente vederla muoversi sinuosa sulla pista e cercare di indovinare, sotto lo striminzito abbigliamento, le sue forme armoniose.
“Geppo, che cosa ti succede?” chiede Vanessa.
Lui la guarda a lungo e poi scoppia a piangere.
“Non lo so” dice tra i singulti. “Sono sempre triste e malinconico. Più penso di dover divertire gli altri e più mi assale la disperazione. Le mie notti sono insonni, colme di mestizia e infelicità.”
“Coraggio, Geppo, vedrai che ti passerà. Nel frattempo, parlerò a mio padre, lo convincerò a metterti ancora alla prova. Sai, mi ricordo che, quando ero ancora bambina, tu eri l’unico pagliaccio in grado di farmi veramente divertire. Il più bravo di tutti, il clown conteso da tutti i circhi più famosi!”
“Già” acconsente Geppo. Per un attimo, sulle sue labbra affiora un fugace sorriso che però si trasforma subito in una smorfia amara. E di nuovo riprendono a scendere copiose le lacrime.
“Adesso invece sono un povero clown triste, che riesce soltanto a trasmettere la propria infelicità” aggiunge singhiozzando.
“E che è finito in uno scalcinato circo sempre sull’orlo del fallimento… Geppo, guarda che puoi dirlo, non la ritengo un’offesa. Io non ho perso il contatto con la realtà come è invece capitato a mio padre.”
“Se non fossi venuto a lavorare nel vostro circo sarei diventato un vagabondo. E poi, non avrei conosciuto te.”
“Geppo, adesso devo andare. È il momento del trapezio. Non scoraggiarti, non commiserarti, cerca di vedere gli aspetti positivi della vita e del tuo lavoro. Sono convinta che domani la tua esibizione sarà eccezionale, come ai vecchi tempi.”
“Ormai è tutto vano, tutto senza senso…”
La ragazza si allontana. Dopo qualche istante,  il pagliaccio sente scrosciare gli applausi. Il suo pianto si fa disperato, il suo trucco di scena è completamente disfatto e cola sulle sue guance scarne. Geppo si sfila il grosso naso finto, di colore rosso, e lo scaglia lontano con rabbia.
Dopo l’ennesima notte agitata e praticamente insonne, il giorno appresso Geppo è di nuovo nel suo camerino. Tra un po’ tocca a lui. Poco prima, quando si è affacciato sulla pista, senza farsi vedere, ha notato con stupore che oggi il pubblico è più numeroso del solito. Il tendone, seppure piccolo, è comunque pieno. Tale constatazione lo rende ancora più triste e depresso. Deluderà ancora più persone di quanto non faccia abitualmente. E, quasi di certo, quella sarà la sua ultima esibizione. Nonostante l’intercessione di Vanessa, il proprietario del circo è stato chiaro: quella è la sua ultima possibilità. Per la prima volta nella sua lunga carriera, Geppo è attanagliato dalla paura del palcoscenico. I battiti del suo cuore sono accelerati, l’ansia lo soffoca, il panico lo assale sempre più. Pensa di rinunciare, di scappare, di nascondersi, di sparire per sempre. Invece rimane immobile, poi inizia a truccarsi, ma persino le sue dita sono rigide e non obbediscono ai suoi ordini. A quel punto, non riesce più a frenare il pianto.
Vanessa entra di corsa nel camerino.
“Geppo! Hai visto quanta gente c’è? Sbrigati, che tra dieci minuti tocca a te!”
Poi lo vede. Geppo sembra ancor più minuto di quanto non sia. È raggomitolato sulla sedia, di fronte allo specchio, e il suo corpo è scosso da violenti sussulti.
Vanessa è sgomenta. Poi, all’improvviso, le viene un’idea.
“Geppo, lascia che sia io a truccarti” dice, dolcemente.
Lui, ormai ridotto a un automa, arrendevole la lascia fare.
La ragazza stende sul viso del clown una maschera bianca di cerone, gli sottolinea in nero il contorno degli occhi, non gli applica il naso finto. Poi lo aiuta a indossare un costume diverso dal solito, interamente bianco. Alla fine, lo sospinge con forza oltre la tenda, e lo catapulta direttamente sulla pista. Vanessa rimane nel camerino, non ha il coraggio di guardare, si limita a rimanere in ascolto. Dopo poco tempo sente i primi applausi, ai quali ben presto ne seguono altri.
Allora si affaccia e vede Geppo che ringrazia il pubblico. Dai suoi occhi continuano a scendere grosse lacrime. Ma la gente continua ad applaudire, ad applaudire e piangere nello stesso tempo. Ad applaudire e singhiozzare. A quel punto, anche lei è vinta dal pianto. Un pianto liberatorio, di gioia.