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venerdì 30 settembre 2011

RICAMBIO



Tutto iniziò con la sensazionale scoperta di Hobbart. Proprio quell’anno l’illustre scienziato ottenne i premi Nobel sia per la medicina che per la fisica. Un fatto simile non era mai accaduto in precedenza. Inoltre, fu assegnato uno speciale riconoscimento anche al suo cane Flock, il cui contributo era risultato determinante per portare a termine l’importante ricerca. Da allora tutto è cambiato e nulla sarà più come prima.
Oggi, in tutte le città del pianeta esiste una piazza Hobbart o una via Flock, oppure un qualche monumento dedicato ai due insigni ricercatori.
Il professor Hobbart, dopo anni di studio, era riuscito nell’impresa, che pareva impossibile, di decifrare il linguaggio dei cani. L’uomo e il cane poterono, da quello storico momento, finalmente dialogare.
In tutta onestà è doveroso affermare che, fin da subito, furono i cani e non gli esseri umani a trarre maggior giovamento da quella scoperta. Con apparente facilità ed estrema naturalezza gli animali attinsero al patrimonio di conoscenze dell’umanità e ne fecero tesoro. Le loro capacità di apprendimento si dimostrarono sorprendenti. L’universo canino, invece, apparve per noi piuttosto indecifrabile. Soltanto adesso, dopo che sono ormai trascorsi tanti anni, possiamo dire di essere riusciti ad afferrare, seppure ancora solo in parte, gli elementi che ci permettono di condividere quell’insieme di equilibrio e di saggezza che contraddistingue il complesso pensiero dei nostri amici.
Le ricerche iniziali di Hobbart (sufficienti comunque ad assicurare allo scienziato fama eterna) in seguito furono ulteriormente sviluppate da molti altri ricercatori, la maggior parte di loro cani, e ciò permise di decifrare un gran numero di linguaggi animali. Attualmente è possibile comunicare, pur con qualche limite, con quasi tutte le specie.
All’inizio, però, ci furono alcune resistenze. L’essere umano, razza debole e decadente, comprese all’istante che era inutile impegnarsi in una competizione dall’esito scontato. La superiorità delle specie canine apparve immediatamente indiscutibile e gli uomini furono ben lieti di farsi da parte e di affidare loro lo studio e la risoluzione dei problemi che affliggevano il pianeta. Le vere ostilità furono invece presenti in campo religioso. Le grandi confessioni monoteiste, in particolare, furono quelle che più tentarono di opporsi al nuovo stato di cose. Incredibilmente, i primi a rassegnarsi furono gli islamici che, in virtù di una inaspettata e ritrovata saggezza, riconobbero alla fine la parità, di fronte a Dio, di uomini e cani. Alla stessa risoluzione giunsero, subito dopo, gli ebrei. Rimanevano, a quel punto, soltanto più i cristiani, chiusi nella loro cieca ortodossia, nel loro insensato integralismo. La questione si sbloccò soltanto grazie all’iniziativa di un nuovo papa, il saggio Benedetto XVII (l’ultimo papa umano, dopo di lui si sono succeduti sul trono di Pietro soltanto cani, l’ultimo dei quali è l’amatissimo Buck I) che nel suo famoso discorso di Madrid sancì l’esistenza dell’anima anche nei cani, facendo così ammenda del fraintendimento (così lo definì il pontefice) in cui era incorsa la Chiesa fino a quel momento.
Dopo quell’importante passo, le trasformazioni della società procedettero a un ritmo sempre più vertiginoso. E, come detto, tutto mutò.
I cani dimostrarono un sorprendente interesse per la scienza, per l’economia e per le questioni politiche in genere. In loro non si era mai sviluppata la rappresentazione mentale di stato nazionale, per cui fu quasi automatico e rapido il passaggio a un governo mondiale, guidato in pacifica condivisione e in maniera finalmente illuminata da uomini e cani.
Occorre altresì ammettere che i nostri amici mostrarono pari interesse per l’arte e la cultura. Attualmente, i migliori scrittori sono tutti cani, tanto che il vecchio modo di dire “scrivere da cane” ha assunto un significato completamente diverso: ora è un complimento. La stessa cosa è accaduta per la pittura, la scultura, il cinema e il teatro. Noi esseri umani siamo ormai i semplici fruitori della magnificenza espressa dall’estro creativo canino.
Anche le città, poco alla volta, si sono completamente trasformate. Certo, si tratta pur sempre di ambienti a misura d’uomo, dove qualsiasi meccanismo, apparecchiatura o dispositivo può essere azionato con le mani ma, allo stesso modo, anche con zampe e denti.
La natalità umana è diminuita sempre di più. L’ho detto, siamo una razza vecchia e stanca, non abbiamo più molto da dire. Per quanto riguarda i cani, invece, l’incremento demografico è stato notevole. Le loro generazioni, oltretutto, si susseguono a un ritmo ben diverso dalle nostre, costituendo per loro un notevole privilegio. I cani hanno occupato le nostre abitazioni ormai vuote, e le hanno adattate a loro misura. Tanto per fare un esempio, nel mio palazzo vivono diverse famiglie, più o meno numerose, di pastori tedeschi e scozzesi, di alani e bassotti, oltre a un doberman single e a una anziana coppia di boxer.
Come ho sostenuto, sono a questo punto possibili le comunicazioni tra quasi tutte le specie, e nuovi gruppi stanno emergendo, come i gatti, tanto per citarne uno, anche se nessuno di loro ha finora dimostrato l’equilibrio e la lungimiranza possedute dai cani. Il mondo è loro.
Sono felice di essere vissuto così a lungo e di aver potuto assistere a tutti questi mutamenti. La mia esistenza si avvicina alla fine, tuttavia domani avrò la soddisfazione di partecipare alla Festa del Ricambio, una cerimonia solenne durante la quale il governo del pianeta sarà ceduto esclusivamente ai cani.
Era inevitabile che finisse in questo modo, d’altra parte si sono dimostrati superiori agli esseri umani, basti pensare che negli ultimi cinquant’anni non ci sono più state guerre. È fuor di dubbio, sono loro le migliori creature viventi, e noi superstiti, in fondo, ne siamo contenti.  

lunedì 26 settembre 2011

BATTUTA DI CACCIA



Era tutto pronto. I fucili, caricati con proiettili di grosso calibro, le giubbe, gli stivali, i cani e tutto il resto. Insomma, tutto ciò che poteva servire in una battuta di caccia della quale non si poteva prevedere la durata, e ancor meno l’esito finale. Tra noi erano presenti cacciatori esperti e anche individui che in tutta la loro esistenza non avevano mai imbracciato un’arma. Di questi ultimi avevamo un po’ di timore, poiché temevamo la loro inesperienza, che avrebbe potuto causare incidenti, ma non avevamo potuto dire loro di no, nel momento in cui si erano offerti di aiutarci. Si può dire, in un certo senso, che l’intera popolazione avesse contribuito a quella battuta di caccia. D’altra parte, nessun cittadino responsabile aveva potuto esimersi dal rispondere all’accorato appello del nostro amato presidente che, come avevano fatto nello stesso momento pure tutti gli altri capi di stato, ci aveva pregato di fare qualcosa, pur di abbattere, in qualsiasi modo ma al più presto quella bestia immonda, quell’essere che ci avrebbe condotto in breve tempo alla rovina.
Le altre nazioni avevano reagito in maniera diversa dalla nostra. Loro speravano di risolvere il problema affidandosi alle politiche economiche. Poveri illusi! Ormai, non restava altro da fare che affidarsi alle armi. Il loro abbaglio probabilmente era dovuto al fatto che si trovavano ad affrontare bestie di taglia più piccola. Comunque, a nostro avviso, non avevano alcuna speranza. Noi, invece, avevamo subito optato per l’uso della forza. Eravamo convinti dei nostri mezzi, e avevamo la certezza che avremmo risolto per sempre quella delicata faccenda.
Il presidente, da parte sua, non era parso del tutto entusiasta riguardo la nostra risoluzione. Tuttavia, da uomo saggio qual era, aveva ormai imparato a conoscere bene i propri concittadini e, dopo un attimo di sconcerto iniziale, sottolineato da ripetuti scuotimenti di capo, si era piegato alla volontà del suo popolo, rassegnato e sconsolato.
I primi giorni non accadde nulla. Tutt’altro che scoraggiati dall’iniziale insuccesso, avevamo proseguito con ancora maggiore determinazione. Alla fine eravamo stati premiati. Fummo anche fortunati se, in una circostanza come questa, si può parlare di fortuna.
E fu proprio la mia squadra ad avvistare per prima il mostro. Dapprima, dal momento che ne ero il comandante, ne fui molto orgoglioso. L’entusiasmo, però, fu di breve durata. Appena ci rendemmo conto di chi, o meglio di cosa avevamo di fronte, l’eccitazione svanì rapidamente. Ci rendemmo subito conto che con le nostra ridicole armi non avremmo potuto combattere la bestia in alcun modo. La sproporzione di forze in campo fu subito palese, umiliante. Il mostro era solo, e noi eravamo in tanti e bene armati, ma comprendemmo all’istante, appena lo avvistammo, che eravamo perduti.
Era enorme, e molto più terrificante di come l’avevamo immaginato. Immenso. Non fu un combattimento, fu una vera e propria strage. In un baleno, ci travolse e ci spazzò via. Non riuscimmo a opporre la benché minima resistenza. Annientò noi e annientò l’intero nostro paese.
Fu doloroso ammetterlo, ma lo avevamo sottovalutato. Avevamo sminuito e disprezzato la sua enorme forza distruttrice e fummo puniti duramente, e lo fummo in maniera totale e definitiva.
Forse avrei dovuto dare retta all’avvertimento di un famoso ed esperto cacciatore che, nonostante i miei appelli e la mia insistenza, si era rifiutato di prendere parte alla battuta di caccia. Con il senno di poi, in effetti, anche lui non avrebbe potuto fare nulla per avversare il terribile essere.
“Il debito pubblico è una brutta bestia” aveva detto. “Bisogna combatterlo quando è ancora piccolo. Se lo si lascia crescere, non c’è più niente da fare.”
Adesso, ma soltanto adesso, quando ormai è troppo tardi per qualsiasi cosa, mi rendo conto che l’anziano cacciatore aveva ragione.

  

mercoledì 21 settembre 2011

L'ALIENO



Lo aspettavamo, e quando finalmente arrivò, non ne fummo affatto sorpresi. Mentre il suo veicolo atterrava con una manovra, a nostro giudizio, piuttosto goffa e maldestra, già sapevamo che su quel primitivo mezzo c’era una sola creatura.
Ci eravamo recati sul luogo spinti, più che dalla curiosità, che in verità non poteva esserci, dalla noia. Di lui, di loro, ormai sapevamo quasi tutto. E niente di ciò che avevamo appreso era risultato, seppure in minima parte, interessante. Nonostante questo, ci andammo lo stesso. Quando l’essere alieno si affacciò allo sportello della navicella, racchiuso in un ridicolo e pesante scafandro, non provammo alcuna emozione. Non era certo la prima volta che accadeva un evento simile, e tante altre volte si sarebbe riproposto in futuro, tuttavia ci eravamo, come dire, ormai assuefatti. Nulla di nuovo, nulla a cui non avessimo già assistito in passato. Eppure, rimanemmo lì, in quel posto desolato, a osservare.
Per quale oscuro motivo, per i loro risibili tentativi di contatto e di esplorazione, sceglievano sempre luoghi così vistosamente inadatti? La risposta, in verità, la conoscevamo bene. Tanto che, per quelle primordiali creature, provavamo infinita compassione a causa della loro evidente inadeguatezza, ma non pietà. In ogni modo, si trattava pur sempre di invasori.
L’essere iniziò a spostarsi sul suolo, con movimenti grevi e impacciati. La sua andature era incerta e irregolare. In realtà, avevamo visto di meglio. Ma ormai eravamo lì, e ci rimanemmo.
Appena fu più vicino a noi, attivammo i nostri biovisori a raggi X. Subito scorsi sul viso del mio compagno una smorfia di disgusto, lo stesso che provai anch’io quando mi accinsi a esaminare con maggiore attenzione l’alieno. Da quello che doveva essere il capo sbucavano peli irti e fitti, gli stessi, seppure meno folti e più corti, che ricoprivano il resto del suo corpo. Sul volto erano presenti, affiancate, due orbite che in un primo momento mi apparvero vuote ma poi, a una più scrupolosa ispezione, vidi che erano ricoperte da una qualche sostanza gelatinosa.
Avevo già visto numerose immagini di quelle creature, avrei dovute essere preparato a tale orrenda visione, tuttavia fui ugualmente assalito da un senso di nausea, che non mi abbandonò più. L’essere deambulava, a fatica, utilizzando le estremità inferiori, quelle più grosse. Le altre parevano del tutto inutili. Perché non le impiegava tutte contemporaneamente? Di sicuro, sarebbe riuscito a spostarsi in maniera più efficace.
Il mio compagno, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, interruppe le mie riflessioni.
“Lo vedi quell’altro peduncolo?”
“Eh?”
“Quello che sporge sul davanti, più o meno a metà corpo.”
“Sì, lo vedo.”
“Deve trattarsi del dotto escretore, anche se gli zoologi ritengono che possa essere utilizzato per assolvere altre funzioni.”
“Quali?”
“Non si sa. In verità, credo che nessuno abbia veramente l’intenzione di scoprirlo. Sarebbe tempo perso. Questa specie di creature non ha mai suscitato l’interesse dei nostri scienziati. In fondo, si tratta di esseri primordiali.”
“Già, è del tutto palese.”
Continuai per un po’ a guardare quell’individuo, se così si poteva chiamare, impegnato nei suoi sforzi. Procedeva lentamente, e sembrava piuttosto affaticato.
“La vedi la sua epidermide? Non è assurdamente liscia?”
“Lascia stare. Pensare di toccarla suscita in me un indicibile ribrezzo.”
“Hai ragione, anch’io provo una certa repulsione.”
“Che cosa sta facendo?” domandò il mio compagno.
“Non lo vedi? Nulla. Sappiamo bene che non sono in grado di fare nulla” risposi.
“Sai che ti dico? Mi sto annoiando.”
“Pure io. Mi sono stufato.”
“Che facciamo?”
“Lo sistemiamo e poi ce ne andiamo.”
“Come?”
“Con la polvere bruna?”
“Sicuro che la mangi?”
Scrollai il corpo.
“Su creature simili funziona. Dopo qualche istante sarà stecchito.”
“L’insetticida?”
“Uff! Non ho voglia di tirare fuori tutta l’attrezzatura.”
“Attacco di pigrizia?”
“No, semplice tedio.”
“E se lo schiacciassimo? Puff!”
“Brrr… hai osservato bene i suoi organi interni? Se finisse spiaccicato per noi non sarebbe certo un bello spettacolo. Quel grosso corpo deve contenere un’enorme quantità di liquami.”
“Che schifo! Non mi ci far pensare!”
“E allora?”
“Ributtiamolo via.”
“Vivo?”
“Vivo, morto, che importa?”
“D’accordo, però fallo tu.”
“Io? E perché mai?”
“La proposta è stata tua. Altrimenti lo spiaccico.”
“No!”
“Vai, allora.”
“Va bene.”
Il mio compagno, con l’aria sempre più annoiata, eseguì.
Sapevo che non saremmo dovuti andare lì, perché le cose erano andate esattamente nel modo che avevo immaginato. Ero sicuro che non ci saremmo per niente divertiti.
E infatti fu così che andò.



domenica 18 settembre 2011

LA LIBRAIA



Capitai in quel piccolo paese quasi per caso. Da giorni stavo vagabondando lungo la costa, ero stanco del rumore e della confusione, allora decisi di spostarmi verso l’interno, alla ricerca di una maggiore tranquillità. Scelsi una direzione qualsiasi, guidai per circa un’ora e infine mi fermai in quella graziosa località, accolto da pace, silenzio e fiori multicolori appena sbocciati posti in tutti gli angoli dell’abitato. Consultai la guida turistica, alla ricerca di notizie e di una sistemazione per la notte. Poi scesi dall’auto. Avevo parcheggiato sulla piazza principale e, appena mi avviai, notai con sorpresa che tutti i negozi presenti sull’ampio spiazzo trattavano le stesso articolo: libri e fumenti usati. Anche le numerose bancarelle presenti esponevano soltanto libri. Piacevolmente compiaciuto – perché io adoro i libri – mi diressi verso il negozio più vicino, intenzionato a esplorarlo con attenzione, per poi passare al successivo.
“Ciao.”  
Mi voltai. A parlare era stata una ragazza. Minuta, bionda e graziosa. Indossava una maglietta bianca e una corta gonna di jeans. Ai piedi portava dei sandali con il tacco alto. Notai le sue gambe abbronzate.
Prima ancora che potessi rispondere al saluto, lei mi strinse la mano.
“Mi chiamo Natalie” disse con voce profonda, quasi roca, che mi sembrò inadatta a quel corpo minuscolo, ma che trovai molto sensuale.
“Giorgio” risposi.
Sempre tenendo la mia mano nella sua, lei appoggiò l’altra mano sulla mia nuca afferrando dolcemente i miei capelli tra le dita.
Sorpreso da quell’atteggiamento che considerai troppo confidenziale tra sconosciuti, non ebbi alcuna reazione. La ragazza mi accarezzò a lungo i capelli, mentre io continuavo a rimanere immobile. Poi si staccò.
“Ti piacciono i libri?” domandò, con quella voce che produceva in me piacevoli brividi.
“Sì, molto”.
“Vieni con me, ti porto nel posto migliore” disse, suadente.
Accennai di sì con il capo. Lei mi prese per mano e mi trascinò via dalla piazza, e mi guidò attraverso vie strette e sinuose, piccole e ripide scalinate, vicoli coperti, finché arrivammo a una bottega posta in un piccolo slargo di forma circolare. Vidi che di fronte a quel negozio ce n’era un altro, quasi uguale. Lei me lo indicò.
“Lo vedi quello? Non devi andarci. Mai. Me lo prometti?”
Imbambolato, risposi nuovamente di sì. Ero come soggiogato da quella ragazzina che di sicuro aveva meno della metà dei miei anni. Lei mi afferrò le braccia.
“Ascolta, adesso io devo andare, ma mi piacerebbe rivederti. Ti va?”
“Certo, perché no?” risposi, sempre in stato confusionale.
“Bene. Stasera, alle otto, vicino alla tua macchina.”
“D’accordo, ci sarò”.
La ragazza, che fino a quel momento aveva sempre mantenuto un’espressione seria, finalmente sorrise. Poi si sollevò sulla punta dei piedi e appoggiò le sue labbra sulle mie, in un rapido bacio. Quindi si voltò e si allontanò a passo veloce. Rimasi per un attimo ad ascoltare il suono dei suoi sandali sull’acciottolato irregolare del vicolo, ancora turbato. Alla fine mi ripresi ed entrai nel negozio che lei mi aveva indicato.
Il locale era molto buio e polveroso. Dietro a un enorme bancone di legno sedeva un vecchio che pareva assopito. Invece, al mio ingresso, schiuse gli occhi e, con un gesto plateale del braccio, mi invitò a esaminare la sua merce. Gli scaffali traboccavano di libri di tutti i generi, i piani piegati dal peso dei volumi. Notai edizioni rare di alcuni romanzi, che stavo cercando da molto tempo. Iniziai a frugare, in maniera frenetica, tra le pile di testi ammassati ovunque, tanto che per un po’ scordai la strana ragazza che mi aveva accompagnato in quel posto magico. Dopo un paio d’ore di fruttuose ricerche, avevo ammucchiato sul bancone del negoziante una ventina di volumi. Le dita delle mie mani erano nere, impolverate, ma ero molto soddisfatto. Pagai – poco, per la verità – e dissi al vecchio che sarei passato a ritirare i libri la mattina dopo. Lui annuì con solennità. Durante tutto il tempo della mia permanenza in negozio, non aveva pronunciato una sola parola. Né erano entrati altri clienti.
Uscii, e fui quasi abbagliato dalla luce del sole. Mi fermai, e notai che mi trovavo proprio di fronte all’altra bottega, quella che la ragazza bionda mi aveva pregato di non visitare. Quale poteva esserne il motivo? Ormai mi sentivo liberato dalla strana suggestione che aveva esercitato su di me, allora decisi di non rispettare la promessa. Tanto, pensai, lei non l’avrebbe mai saputo.
Risoluto, entrai nel negozio. Era completamento diverso dal precedente. Pulito, ordinato, luminoso. I libri erano sistemati sui ripiani in perfetto ordine, nulla era fuori posto. Tuttavia, nonostante il mio impegno nella ricerca, non trovai nulla di interessante.
“Posso essere utile?” disse una voce di donna. Si trattava della proprietaria che, entrando, non avevo quasi notato. Adesso la osservai meglio. Era di mezz’età, con i capelli biondi tagliati corti, gli occhi espressivi e un fisico ancora gradevole. Le gambe, generosamente esibite, erano molto abbronzate.
“No, grazie. Ho già visto ciò che mi poteva interessare” risposi. Però continuai a fissarla, il suo sguardo magnetico mi aveva catturato.
“Ha conosciuto mia figlia?” disse, tranquilla.
Sobbalzai.
“Come?”
“Eravate insieme. Prima, intendo. Vi ho visto.”
“Non sapevo che Natalie fosse sua figlia.”
“Non poteva saperlo”.
“No.”
“Le ha detto di non entrare qui, vero?”
“Sì, è vero. Come lo sa?”
Lei scrollò le spalle.
“Lo dice a tutti.”
“A tutti chi?”
“A tutti gli uomini, tutti quelli che abborda. Lo fa di continuo, quasi nessun turista riesce a sottrarsi al suo fascino. Pensi, neppure quelli accompagnati dalle mogli.”
Le sfuggì un risolino, poi ridivenne all’improvviso seria.
“Non capisco…” dissi. Ero imbarazzato.
“È malata, molto malata” spiegò. Il tono della sua voce divenne sempre più profondo.
“Natalie?” esclamai, in maniera stupida.
“Sì, e ormai avrà capito di che malattia si tratta. Lei però è stato più determinato di altri, non le ha obbedito”.
“No, sono una persona curiosa e che odia i divieti. Comunque, abbiamo un appuntamento per stasera.”
“Già, alle otto. Dove? In fondo al viale centrale oppure vicino alla sua macchina?”
Arrossii leggermente.
“Ci andrà?” aggiunse la donna.
“No, non ci andrò. Adesso capisco perché Natalie non vuole che nessuno parli con lei.”
“La ringrazio” disse lei. Poi uscì da dietro al bancone e mi si avvicinò.
“Grazie” ribadì, con voce sempre più roca.
Mi porse la mano destra, e appoggiò l’altra sulla mia nuca, iniziando a passarsi tra le dita i miei capelli.

sabato 17 settembre 2011

SULLA STRADA



Il cielo è plumbeo, e sembra proprio che stia per nevicare. Il freddo, fuori, è intenso. Ma noi, io e mio fratello, siamo dentro all’abitacolo dell'automobile, cullati da un dolce tepore e dalla musica sparata a tutto volume dai dieci altoparlanti. Mio fratello guida veloce, sicuro, perché la strada è ampia, diritta e non c’è traffico.
“Oggi non c’è nessuno in giro” dico, annoiato.
“Quasi” risponde mio fratello guardando lo specchietto retrovisore.
“Come?” quasi urlo, per farmi sentire. La musica adesso è assordante.
“Dietro di noi c’è un fuoristrada che ci sta incollato”.
“Fallo passare” dico.
“Ci ho provato, ma non ne vuole proprio sapere. Si diverte a starci a ridosso, lo stronzo”.
“È da solo?” domando.
“No, sembra siano in due, lui e una donna.”
“Com’è?”
“Uff! Ma che te ne importa? Mi sembra un vecchio…”
“Aspetta…”
“Che vuoi fare?”
Senza rispondere, abbasso il finestrino e mi esibisco in una teoria di gesti osceni all’indirizzo del nostro tallonatore.
“Ma dai!” protesta mio fratello. Però ride, divertito.
Subito dopo il grosso fuoristrada ci affianca.
“Finalmente si è deciso”.
“E passa, vecchio deficiente!”
Ci sorpassa, per poi arrestarsi di colpo. I freni della nostra auto stridono sull’asfalto. Riusciamo a fermarci a pochi centimetri dal paraurti posteriore del bestione.
“Accidenti!” impreca mio fratello. È impallidito per lo spavento. Anche i battiti del mio cuore sono accelerati. Quel pazzo poteva provocare un brutto incidente.
Il vecchio, che in realtà tanto vecchio non è, scende. Dalla parte opposta scende anche la donna. Mentre pure noi due ci accingiamo a fare la stessa cosa un particolare mi colpisce: lui porta un giaccone pesante e un cappello a falde larghe mentre la donna indossa soltanto un leggero vestito di colore rosso, lungo quasi fino ai piedi. Biondo lui, con folti baffi a manubrio, nera lei, con la pelle del viso molto abbronzata e solcata da profonde rughe.
Ci scrutiamo, e nessuno parla.
“Testa di cazzo! Che volevi fare?” Mio fratello non resiste a lungo al gioco di sguardi.
L’uomo, sempre in silenzio, scaglia con violenza nella mia direzione una pesante valigetta di pelle che non mi ero neppure accorto avesse tra le mani. La evito per un soffio, e la borsa va a colpire il parabrezza dell’auto. Mio fratello raccoglie da terra un piccolo sasso e lo tira senza troppa convinzione verso la coppia, fallendo completamente il bersaglio. Tento di imitarlo raccattando una pigna ma, quando mi accingo a lanciarla, vedo che l’uomo è ora affiancato da un enorme cane nero che è balzato fuori dall’abitacolo del fuoristrada a un silenzioso richiamo del suo padrone. Il cane è nervoso, ha il pelo ritto e digrigna i denti. Ha gli occhi iniettati di sangue e non vede l’ora di balzarmi addosso. Mi assale la paura. Ho il terrore dei cani.
“No, non farlo…” riesco soltanto dire, prima che l’uomo lasci il collare. Mi metto a correre, pur consapevole che si tratta di un’azione perfettamente inutile. Quando già sento le unghie della belva mordere l’asfalto, con la coda dell’occhio vedo che adesso la donna impugna un fucile. Riesco ancora a fare un paio di passi, disperati, poi sento due esplosioni ravvicinate e un urlo soffocato che esce dalla bocca di mio fratello. Un attimo dopo mi ritrovo a terra e il mostro nero inizia la sua opera di distruzione. Non riesco ad emettere alcun suono, mentre avverto distintamente le zanne dell’animale che si insinuano ripetutamente nella mia carne, che viene strappata a brani. Inorridito, agghiacciato, attendo ormai rassegnato il colpo di grazia alla gola.
Ragazzi, evitate di fare gestacci sulla str…   

venerdì 16 settembre 2011

GROSSO



Adoro i sogni. In quei lunghi vagabondaggi onirici – che al risveglio rammento in tutti i loro particolari – il mio corpo non ha peso. Mai. Ciò che mi caratterizza durante quei momenti è la leggerezza. Proprio quella che, di solito, non possiedo, che non ho mai provato.
Il ridestarsi, il brusco ritorno alla realtà, ogni volta mi sgomenta, mi lascia incredulo e attonito. Perché sono grosso. Apro gli occhi, e il primo pensiero che mi assilla è il fatto di dover appoggiare i piedi a terra, di assumere la posizione eretta.
Le mie gambe sono come due colonne. Le estremità, minute rispetto a quell’ammasso di carne che le sovrasta, danno l’impressione di non poter reggere un simile fardello. Quindi, mi muovo con sempre maggiore cautela; i miei passi sono diventati brevi ed esitanti, la mia andatura caracollante poiché le immense cosce, sfregando tra loro, causano dei piccoli sbandamenti che a ogni istante potrebbero farmi cadere. Devo stare attento, perché se ciò accadesse, sono convinto che non sarei più in grado di rialzarmi. Un pachiderma abbattuto e umiliato.
Di continuo, per sentirmi più sicuro, cerco e trovo l’appoggio di muri e mobili di casa, ai quali mi reggo e mi sostengo. Un’enorme e gonfia lumaca che striscia accorta per l’appartamento, o almeno così mi immagino.
L’autentico dramma è uscire. Lo devo fare, giacché sono costretto a recarmi al lavoro. Per ovvi motivi, evito le scale e mi affido all’ascensore, con il continuo timore che quella fragile e traballante cabina non riesca a sostenere un carico così gravoso. Ho paura di precipitare, temo di rimanere incastrato nella porta, oppure di restare bloccato durante la risalita, nel caso in cui la macchina, esausta, alla fine si arrenda.
Per strada, tutti mi guardano. Osservano me, con aria di compatimento, fissano i miei abiti informi, la mia valigetta che sembra loro minuscola  rispetto alle mia corporatura. A volte, pensando di non essere da me notato, qualcuno scuote il capo. Non ho mai compreso il vero significato di un tale gesto, e non lo desidero sapere.
Raggiungo a fatica la fermata del bus e, quando il mezzo finalmente arriva, mi ci introduco con grande fatica. Le aperture, per me, sono assai strette. Così come è striminzito il corridoio che occupo in tutta la sua larghezza, ostruendo così il passaggio agli altri viaggiatori i quali, innervositi e impazienti, mi lanciano sguardi di fuoco.  
Da ultimo, dopo tutte queste sofferenze, mi trascino fino all’ufficio. Lì tutti mi conoscono, da anni, e il mio senso di disagio in parte si attenua. Posso occuparmi del mio lavoro in relativa serenità.
Durante il pranzo alla mensa aziendale faccio di tutto per controllarmi. Mi limito a mangiare non più del doppio dei miei colleghi, per non essere additato come un fenomeno da baraccone. Tuttavia, quando mi alzo, il mio stomaco è straziato dai crampi. Lui avrebbe bisogno di ben altre quantità di cibo, che riceverà soltanto alla sera. Con i debiti interessi, naturalmente.
I miei colleghi, che ormai sono abituati a me e alle mie anomale dimensioni e ai quali sono affezionato, continuano a chiedermi perché non mi trovo una donna. Sanno che non ne ho mai avuto una, l’ho confessato io stesso, e loro vorrebbero vedermi non più solo, ma con una persona che possa occuparsi di me. Mi domandano, in assoluta buona fede, ritengo, perché non rivolgo le mie attenzioni a donne con problemi affini al mio – della tua “stazza” dicono con innocente ingenuità – ma la mia risposta è sempre la stessa: desidero una compagna normale e, soprattutto, che non soffra come da sempre sto penando io. Una di quelle donne che, finora, ho incontrato solo nei sogni.

martedì 6 settembre 2011

ALLINEAMENTO


L’uomo entra nel grande magazzino. È vestito in maniera elegante, con scarpe morbide e pulite, pantaloni con la piega perfetta e una giacca piuttosto abbondante, sotto la quale porta una maglia a girocollo anch’essa comoda. Non ha con sé il carrello, ma soltanto un piccolo cestello di plastica, rosso, che ha prelevato da una pila collocata vicino alle casse.
Tenendo con indifferenza il canestrino, ancora vuoto, sotto il braccio, dapprima si aggira con studiata indifferenza tra alcune corsie che, in realtà, non suscitano in lui alcun visibile interesse. Poi, sempre con meditata noncuranza, si dirige verso il reparto abbigliamento, luogo che rappresenta la vera finalità della sua visita al grande centro commerciale.
Esamina con grande attenzione alcuni capi di biancheria - mutande e magliette intime in particolare - sceglie quelli più costosi e, si presume, i migliori. Aggiunge alcune paia di calze, poi si sposta e prende tre maglie di lana soffice e sottile, una cintura e infine aggiunge un paio di pantaloni dal tessuto leggero ma caldo. Mette tutto nel cestino e si avvia verso una cabina di prova. Qui, nota con fastidio che l’aria è appestata da una percepibile puzza di piedi, allora si sposta in un altro cubicolo. Si spoglia, fino a rimanere con la sola biancheria. Si sfila pure le scarpe. Poi, lentamente, stacca le etichette da tutti i capi che ha prelevato e inizia a indossarli. Prima le calze e, dopo averne infilate tre in ogni piede, prova a calzare le scarpe. Con un po’ di fatica riesce comunque a farle entrare. Le toglie di nuovo e si infila prima tre paia di mutande e dopo i pantaloni, quelli nuovi, e sopra a quelli mette i suoi. Chiude tutto a vita con la cintura. Infine si occupa delle maglie, di tutti i tipi, anche quelle indossate una sull’altra. Infine prova la giacca che, anche se tira un po’ sulle spalle, riesce in ogni modo a vestire.
Esce dal camerino e, prima di andare verso le casse, butta nel cesto ormai vuoto una confezione di latte.
“Mi scusi. Ehi, signore, dico a lei!” dice una donna.
Lui si ferma e la guarda. Si indica.
“Sì, dico proprio a lei” ribadisce la commessa.
“L’ascolto” dice l’uomo, calmo.
“Lei è grasso.”
L’uomo, affatto sorpreso, riflette un attimo.
“Non le pare di essere piuttosto indelicata?” dice.
Lei scuote il capo.
Il cliente le gira attorno.
“Se io le dicessi che lei ha il sedere grosso?”
“No, non intendevo dire quello, mi sono espressa male. Mi riferivo al fatto che lei quando è entrato era più magro. È ingrassato dopo.”
L’uomo sorride.
“Potrebbe essere una sua percezione errata, non crede?”
“No, ne sono sicura.”
“La sicurezza assoluta non esiste. Forse mi ha scambiato per un’altra persona. Per quel signore là, ad esempio” e indica una persona obesa che si aggira sbuffando tra gli scaffali.
“Non credo” dice la commessa, dubbiosa.
“Oppure per quell’altro” aggiunge l’uomo, additando una figura di incredibile magrezza.
“Eppure…” La donna appare confusa.
“È vero, sono un po’ robusto, e soffro molto per questo mio problema, ma è forse una colpa? Lei forse non prova angustia per i suoi capelli stopposi? Eppure, vedendola, io non ho evidenziato tale aspetto, mi sono limitato ad assumere un atteggiamento di allineamento.”
“Come?” domanda la donna, quasi allarmata.
“In parole povere, ho finto di non vedere” spiega l’uomo.
“Che cosa?”
“I suoi numerosi difetti fisici e, verifico adesso, anche le sue notevoli difficoltà di interazione.”
“Non capisco…”
“Mi riferisco alla sua misera statura - del sedere ho già detto - al suo seno cadente, alle sue mani rovinate, al naso grosso e alla pelle grassa, ai suoi occhi inespressivi. Devo continuare?”
“No, la prego…”
“Il mio unico difetto è invece quello di essere lievemente sovrappeso e lei, nella sua evidente insensibilità, l’ha prontamente rilevato. Credo mi debba delle scuse.”
“Mi scusi, signore, sono davvero mortificata. Per farmi perdonare vorrei fare anch’io – come l’ha chiamata? – un’azione di allineamento.”
“Prego?”
La donna ora sorride, furba.
“Fingerò di non avere visto.”
L'uomo sogghigna.


domenica 4 settembre 2011

HIGHLANDER



Lo studio medico era in penombra. Lo psichiatra, il dottor Menti, era seduto di fonte al suo paziente. Studiò a lungo l’uomo, ancora giovane, che il giorno prima l’aveva chiamato per chiedere il suo aiuto. Si accarezzò la barba grigia, tamburellò in modo insistito con una penna sul piano della scrivania e alla fine si decise a parlare.
“Mi spieghi meglio il suo problema.”
“Sono immortale” rispose l’uomo, diretto, senza alcun preambolo.
L’esperto medico non si scompose e riuscì a nascondere bene il proprio turbamento.
“Ciò le procura disagio?” domandò.
“Lei che ne pensa?” rispose il paziente, ironico.
Il dottor Menti annuì.
“Capisco” disse.
L’uomo abbassò lo sguardo e assunse un atteggiamento stanco e rassegnato. Il suo aspetto, come detto, era giovanile, tuttavia la sua età era indefinibile. Il viso era bello, dai tratti regolari, e in quell’ovale spiccavano i penetranti occhi azzurri. I suoi capelli, biondi, erano lunghi e scomposti.
“Prova noia?” riprese lo psichiatra.
“No, non particolarmente. In fondo, ci si abitua a vivere, anche se si tratta di un’esistenza infinita.”
“A quando risalgono i suoi ricordi più lontani?”
“Questo è uno dei miei problemi. Vede, io esisto da sempre, ma sto perdendo la memoria. Rammento, sebbene in maniera distorta, ciò che ho fatto negli ultimi cinque secoli, ma non riesco ad andare oltre.”
“Non deve preoccuparsi di questo, ritengo sia una cosa normale. I suoi ricordi sono rapportati all’intero periodo della sua esistenza, e i naturali limiti della mente umana comportano che essi non possano estendersi per un lasso di tempo superiore. Anch’io non ricordo tutto ciò che ho fatto nella mia – a quel punto il medico ebbe un’esitazione – pur breve vita.”
Il dottor Menti aveva appena compiuto settantacinque anni.
“Non mi considero umano” disse il paziente.
“Si rassicuri. Lei è un essere umano sotto tutti punti di vista. È semplicemente affetto da una disfunzione, che potremmo definire come un’imprecisione di programmazione a livello genetico.”
“Incurabile” commentò l’uomo.
“Temo di sì” rispose lo psichiatra.
L’altro scosse il capo, sconsolato.
“A lei piace il calcio?” disse dopo una lunga riflessione.
“Eh?” domandò il medico, stupito da quella domanda.
L’uomo non gli badò e, con lo sguardo perso nel vuoto, proseguì.
“In questo periodo della mia vita mi sono appassionato a questo sport. So che non potrò coltivare questa mia passione a lungo, perché tra qualche centinaia d’anni – o forse anche prima – questa disciplina sportiva non sarà più praticata. Purtroppo mi è già capitato altre volte, tutto cambia ma io continuo a esistere.” Sospirò.
“Mi faccia capire meglio” disse il medico, interessato. “Che cosa intendeva dire?”
L’uomo rimase un attimo in silenzio, come se volesse raccogliere le idee, poi proseguì.
“Ieri ho assistito a una partita…”
“Anch’io!” lo interruppe lo psichiatra, sorridendo.
“Già, la finale…” continuò l’immortale. “Ebbene, di quella gara non ricordo praticamente nulla. Ripensandoci adesso, per me è come se fosse durata non più di un secondo.”
“Mmm…”
“E lo stesso sarà per questo nostro incontro. Domani si sarà ridotto a un colloquio di non più di mezzo secondo, forse ancora meno, e sarà per me impossibile ricostruirne la sostanza. Comprende, adesso?”
“Si tratta sempre del medesimo effetto distorsivo di cui abbiamo parlato in precedenza. Il ricordo degli eventi che lei vive va a spalmarsi sull’arco dell’intera esistenza trascorsa, e ne risulta ridotto in termini temporali. Temo che lo sarà sempre di più, quindi il suo disturbo è destinato ad aggravarsi.”
“C’è una spiegazione?”
“Vede, non sono un esperto in materia. Credo che nessuno lo sia, in verità. I casi come il suo sono molto rari. Personalmente, è la prima volta che ho a che fare con una questione di immortalità. In letteratura medica poi… be’, non esiste nulla.”
“Non c’è proprio niente da fare?” domandò l’uomo, angosciato.
“Come le ho già detto, temo proprio di no.”
“Allora, quale sarà il mio destino?”
“Il suo corpo vivrà per sempre, la sua mente invece riuscirà a trattenere frammenti sempre più brevi di ricordo. Naturalmente, si tratta di un processo molto lento.”
“Lento, veloce, si rende conto che per un immortale tali enunciati non possiedono alcun significato? Che il concetto di tempo in pratica non esiste?” disse il paziente, accalorandosi.
Lo psichiatra annuì, con aria grave.
“Mi dispiace…” disse soltanto.
L’altro appariva sgomento.
“Prima ha affermato che il mio disturbo è incurabile. Mi ha detto la verità?” ebbe la forza di domandare.
“Non completamente” disse il dottor Menti.
“Dunque esiste una cura?”
“Più che altro si tratta di un rimedio.”
“Si riferisce a quello?”
“Certamente.”
“Potrebbe provvedere lei personalmente? Nel caso decidessi di farlo, intendo.”
Nonostante l’atmosfera cupa e tesa che si era venuta a creare nello studio, il dottor Menti non riuscì a trattenere un lieve sorriso.
“No, mi spiace, dovrà rivolgersi a qualcun altro. Io curo le teste, ma non le taglio” disse, prima di ritornare immediatamente serio.

venerdì 2 settembre 2011

ROSPI E PRINCIPESSE



“Sei veramente brutto” dice il rospo.
“E tu? Ti sei mai guardato allo specchio?” risponde l’altro.
“Hai ragione, amico mio, ma c’è rospo e rospo, e nel tuo caso…”
“Certo che se mi confronti con Grog…”
“Sì, lui è veramente un bel rospo!”
“Però non ti devi scordare che noi due siamo speciali.”
“Ti riferisci all’incantesimo?”
“Esatto. Per noi essere rospi è una condizione… temporanea.”
L’altro scoppia ridere.
“Temporanea? Guarda che non siamo più ai vecchi tempi! Le principesse non esistono più!” dice il primo rospo.
“Non è vero” risponde pronto l’altro.
“D’accordo, hai ragione. Le principesse esistono ancora, anche se sono poche, in ogni caso non si interessano a noi.”
“Sbagliano.”
“Forse, tuttavia dobbiamo fare i conti con la realtà. Siamo destinati a rimanere rospi per sempre.”
“Chissà, con un po’ di fortuna…”
“Povero illuso!”
“Ma tu lo ricordi il tuo vero aspetto?”
“Eh? Il mio vero aspetto? No, ormai non lo ricordo più. E tu?”
“Mmm… vagamente. Rammento che ero alto, molto alto, e il terreno era molto distante dai miei occhi. Adesso, invece, io e il suolo siamo sullo stesso piano.”
“Già, al piano dei rospi!”
Stavolta scoppiano a ridere entrambi.
“Ci facciamo un tuffo?” propone il primo.
“Perché? Non vedi? Questo stagno fa schifo, guarda com’è immobile l’acqua!”
“Naturale, è uno stagno. Caro mio, ho l’impressione che tu non ti sia mai veramente adattato alla condizione anfibia. Sbaglio?”
“No, però…”
L’altro lo interrompe.
“In realtà intendo tuffarmi perché sta arrivando gente.”
“Hai paura?”
“Un po’…”
“Sono tre ragazze. Non ci faranno nulla. E poi, le donne di solito stanno ben lontane da noi rospi.”
“Purtroppo!” dice l’altro, sospirando. E i due rospi non si muovono.
Le tre giovani fanciulle si avvicinano allo stagno. La prima è vestita in maniera elegante e ha degli splendidi capelli biondi. Le altre due, entrambe brune, pure loro piuttosto graziose, sono abbigliate in modo meno appariscente.
“Ehi, principessa! Non correre!” dice una delle due.
La ragazza bionda si siede sulla sponda dello stagno.
“Uffa! Quel pranzo era così noioso! Non vedevo l’ora di andarmene!” sbotta.
“Sì, tuttavia le tue dame di compagnia avrebbero preferito rimanere invece di scarpinare in questa orrenda brughiera!”
“Dame di compagnia! Ma sentila! Che razza di linguaggio usi? Aggiornati! Voi siete mie amiche.”
“Retribuite…” aggiunge a bassa voce l’altra ragazza bruna.
“E comunque” prosegue la bionda. “Non voglio essere chiamata principessa!”
“Ma lo sei!”
“Appunto, quindi non c’è bisogno di ricordarmelo in continuazione. Chiamatemi con il mio nome! Ragazze, i tempi sono cambiati…”
“Guarda che cosa ho sgraffignato” dice una delle dame.
Gli occhi della principessa si illuminano.
“Una bottiglia di gin!” dice, e subito la afferra, la stappa e beve alcune robuste sorsate.
“E c’è pure qualcosa da fumare!” esclama l’altra, mostrando un paio di spinelli.
“Oh! Meraviglioso!”
Le tre ragazze bevono e fumano. Dopo un po’ sono completamente brille e con le menti intorpidite. Si accasciano sull’erba giallastra.
“Guarda! Laggiù!” dice una delle dame, indicando un punto poco lontano.
“Che cosa?” risponde la bionda principessa. I suoi immensi occhi azzurri sono lucidi e arrossati.
“Ci sono due rospi!”
“Be’?” dice l’altra, completamente intontita, con voce strascicata.
L’altra batte le mani, entusiasta.
“Tu sei una principessa!” aggiunge la dama.
“Ti ho detto di non chiamarmi in quel modo!”
“Baciali! Baciali! Si trasformeranno in due splendidi principi!”
A quel punto interviene l’altra dama.
“Non darle retta, non regge assolutamente il fumo.”
La principessa la guarda in malo modo.
“Perché? Credi che non avrei il coraggio di farlo?” dice.
“Su, smettila. E non bere più.”
Per tutta risposta la principessa si alza e, seppure malferma sulle gambe, si dirige risoluta verso i due rospi. Si avvicina a loro e poi si inginocchia.
“Guardate, non hanno paura, non scappano” dice la fanciulla bionda.
I due rospi sono in attesa, immobili. Hanno capito tutto, forse è arrivata la loro grande occasione. Un incredibile e insperato colpo di fortuna! Lo stato di tensione è reso visibile soltanto da un lieve fremito che percorre la loro pelle spessa e rugosa.
La ragazza si abbassa ancora di più e schiocca un rumoroso bacio sulla bocca del primo rospo. Le due dame, sebbene molto alticce, inorridiscono schifate. Ma la loro smorfia di ribrezzo si trasforma all’istante in una espressione di grande meraviglia. Al posto del rospo adesso c’è un giovane, alto, bello, con folti capelli castani e uno sguardo languido e riconoscente.
Le due dame sono incredule, la principessa sembra attonita.
“L’altro! Anche l’altro!” riesce a dire, con voce rotta dall’emozione, una delle ragazze brune.
La principessa si riscuote e, senza più badare al giovane, avvicina le tumide labbra all’altra bestiola. La bacia ma non accade nulla. Subito dopo, il rospo si getta nello stagno. La principessa appare delusa.
“Bugiardo! Dannato bugiardo!” grida invece il giovane principe, che si tuffa a sua volta nello stagno e scompare.