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mercoledì 31 agosto 2011

FORMICHE



Da ragazzo mi divertivo a torturare le formiche.
L’estate, allora, era lunga, e i pomeriggi interminabili. Spesso mi assaliva la noia. Quando avevo esaurito tutte le – poche – possibilità di svago, rivolgevo la mia attenzione al mondo di quei minuscoli esseri. Carponi,  percorrevo l’ampio cortile, partendo da un punto qualunque, e cercavo di individuare i mucchietti di terriccio fine che segnalavano la presenza di nidi. Per forza di cose – poiché mi trovavo in campagna – la ricerca richiedeva poco tempo ed era sempre fruttuosa.
A quel punto, mi appostavo paziente e iniziavo a osservare l’andirivieni dei laboriosi insetti. Spesso sul terreno erano presenti briciole di pane o altri residui commestibili e, quando non era così, vi provvedevo personalmente. Ciò attirava immediatamente l’attenzione delle formiche che, dopo una rapida ispezione, si mettevano subito al lavoro. Uscivano dalla tana numerose e disposte in fila indiana, afferravano in qualche modo quei resti, un peso enorme, sproporzionato per i loro piccoli corpi, e li trascinavano fino ai loro cunicoli sotterranei. Uno spettacolo straordinario che, nondimeno, dopo un po’ diventava monotono. E di nuovo ero aggredito dal tedio. Per le povere formiche iniziava il tormento. Mi alzavo in piedi e cominciavo a schiacciarle, frantumando, spezzettando quei piccoli corpi scricchiolanti. I poveri insetti si contorcevano per la sofferenza, ormai stritolati e quasi ridotti in polvere. Tutto ciò mi lasciava indifferente, anche quando portavo a termine la mia opera distruttrice utilizzando strumenti quali grosse pietre oppure un martello. Molte volte ricorrevo al fuoco. Osservavo, come detto, in modo freddo, distaccato, senza provare alcuna emozione. Lo facevo quasi tutti giorni. Tale crudele attività era diventata per me un normale passatempo.
Le formiche, tuttavia, erano gli unici insetti bersaglio della mia persecuzione. Stavo alla larga da tutti gli altri, non perché ne avessi timore, e neppure per particolare avversione; il vero motivo era che non avrei sopportato la vista dei loro umori colorati, delle loro viscere spiaccicate sul selciato.
Poi sono cresciuto e non ho più praticato quella spietata forma di divertimento. Mai più. Però, anche adesso che sono ormai un uomo maturo, la coscienza ancora mi rimorde. Ho cercato, nel corso della mia vita, di espiare quella mia antica colpa in tutti i modi. Non ho mai più ucciso un insetto, ho cercato, anzi, di proteggerli in tutte le maniere. Quante volte ne ho raccolti, in casa e per le strade, e, con estrema delicatezza, li ho posti in salvo! Ma tutto ciò non è stato sufficiente. Benché a distanza di tanti anni, un profondo e incessante senso di colpa mi assilla, mi impedisce di essere sereno. Non importa se allora ero solo un bambino, la mia responsabilità mi appare comunque grave.
Ora però ho deciso: la mia riparazione deve essere finalmente definitiva.
Appena l’ho saputo, mi sono subito precipitato qui, in questa grande città per me del tutto sconosciuta, dove la visuale dell’orizzonte è impedita dagli alti e innumerevoli grattacieli. Una città che è un immenso formicaio, anche se in questo momento è deserta. Sono qui, in mezzo alla strada, da solo. So che sta per arrivare, il grande uragano sta per giungere. Il vento sta rinforzando, la pioggia è sempre più fitta. Ma io non scapperò, rimarrò invece qui, ad attenderlo.
Per un giorno, il mio ultimo giorno, sarò formica.                                      

lunedì 29 agosto 2011

LA RECENSIONE




"Un anno diverso" di Enzo Sopegno (2009)

Un anno vissuto pericolosamente - recensione di Vanni Spagnoli

La scuola, forse perché tutti l’abbiamo vissuta, sia pure in modo più o meno consapevole e con indirizzi e a livelli diversi, appartiene ad una sorta di memoria collettiva, fonte inesauribile di aneddoti e di ricordi dolce-amari.
E forse per questo, a dispetto dei continui tentativi di umiliarla da parte di politici poco illuminati, conserva sempre il suo fascino, a volte duro a spegnersi, tanto che molti si ostinano ancora, a distanza di anni, a promuovere incontri tra ex studenti, nell’illusione di ritrovare la magia e l’atmosfera di giorni ormai definitivamente trascorsi.
Enzo Sopegno (le iniziali “E.S.” coincidono, forse non casualmente, con quelle del protagonista del romanzo) affronta questo tema da un’ottica non nuova, quella dell’insegnante “dotato e fuori dagli schemi”, che non si rassegna alla mortifera banalità del programma ministeriale, provando a dare un taglio del tutto particolare al suo insegnamento.
Ezio Sentieri, docente di storia e filosofia, ama la musica classica e la lettura ed è in loro che si rifugia, quando il peso del passato affolla il suo quotidiano.
Un passato che gli ha lasciato cicatrici importanti, e forse anche il bisogno di illudersi che la vita abbia un senso.
E’ così che, scuola nuova, ragazzi nuovi, decide di sfidarli a impegnarsi in un progetto che possa farli crescere e maturare sul serio, che insegni loro “ad imparare a pescare”, così da regalare uno scopo anche alla propria esistenza.
Il progetto andrà avanti, tra entusiasmi e delusioni, fino al finale, forse scontato (perché inevitabile), ma non per questo meno significativo, perché tutti ne risulteranno, sia pure in modo diverso, arricchiti.
Questa la trama di una storia, condotta da Enzo Sopegno con rara maestria, specie nella presentazione dei personaggi.
Anche se l’immagine non è nuova, davvero si ha l’impressione di assistere all’anteprima di un concerto, in cui le voci isolate e spesso dissonanti dell’orchestra, a poco a poco trovano comunanza d’accordi e si trasformano in musica.
Così i ragazzi vengono, con leggerezza, sempre più caratterizzati, fino a trasformarsi, senza sforzo da parte del lettore, da semplici nomi, in esseri umani ricchi di spessore e complessa personalità.
Che deriva loro anche da una nuova consapevolezza: che nessuno è un’isola, che esistono delle regole indispensabili per crescere insieme e, soprattutto, che le regole devono essere rispettate, anche quando tra le loro pieghe si respira aria di ingiustizia e volontà di sopraffazione.
Ed è questo un merito non da poco, che nessuno potrà togliere al prof. Sentieri e, di riflesso, al suo autore.

martedì 23 agosto 2011

IL BACIO



Sì, lo ricordo bene, era l’inizio di settembre. Invece non ricordo per nulla che cosa avessi fatto quel giorno, fino a quel momento, intendo. In fondo, è passato tanto tempo e ciò che accadde nel tardo pomeriggio, poco prima della cena, oscurò e annullò tutto il resto.
Il sole era appena tramontato dietro le montagne, e l’aria era diventata all’improvviso più fresca.
I nostri amici erano già tornati alle loro case. Noi, invece, uscimmo di nuovo, uniti da un tacito, inespresso accordo e ci ritrovammo nel piccolo cortile. Sapevamo che era tardi, che non avevamo molto tempo, che saremmo incorsi nell’ira benevola dei nostri genitori, eppure scostammo il pesante cancello di ferro e, dopo avere scambiato uno sguardo carico d’intesa e di complicità, ci ritrovammo sulla strada. Io e lei. Senza neppure consultarci – non c’era alcun bisogno di farlo – prendemmo a sinistra, seguendo così il declinare del nastro d’asfalto. Non rammento se qualcuno ci vide, quando ci allontanammo e poi lungo la via; ciò non aveva per noi alcuna rilevanza. Inoltre, di sicuro non ce ne saremmo accorti. Ognuno di noi due non aveva che occhi e attenzione per l’altro.
Camminammo affiancati per un tratto, senza sfiorarci, lungo il ciglio della strada. Poi imboccammo un sentiero, sulla destra, che conduceva al torrente e lo costeggiava. Adesso, intorno a noi, c’erano soltanto alberi: larici, pini e betulle le cui foglie già cominciavano a ingiallire, primo inequivocabile segno di resa all’autunno, comunque ancora lontano. Il mormorio dell’acqua accarezzava le nostre orecchie. Durante quel tragitto quasi non parlammo. Non c’era nulla da dire, oppure c’era troppo. In ogni caso, nulla che non potesse essere espresso attraverso gli occhi che, sempre più spesso, si incontravano. Il momento era estremamente romantico, colmo di teneri sottintesi, e avrebbe meritato una degno accompagnamento sonoro, se possibile struggente e sentimentale, pensai. Tuttavia non era ciò che avevo in testa in quel momento. Vedete, la musica aiuta a fissare i ricordi, li consolida, e permette di ritrovarli, intatti e ben conservati, anche dopo che è trascorso tanto tempo. Quindi, da parte mia, quel tempo e quel luogo sono legati, e sempre lo saranno, se mi è concesso dirlo, a Settembre di Alberto Fortis, a Moonlight Shadow di Mike Oldfield. Oppure, e scusatemi l’estrema impudenza, a Anarchy in U.K. dei Sex Pistols o ancora a Hurricane di Bob Dylan. Basta così, scegliete voi, per me è lo stesso. Una vale l’altra.
A un certo punto, senza che nulla ancora fosse accaduto tra noi, decidemmo di tornare indietro.  E fu proprio in quell’attimo che in me scattò qualcosa. Non domandatemi di cosa esattamente si trattasse, perché non lo so, oggi ancor meno che allora. All’improvviso, ubbidendo a chissà quale impulso naturale, istintivo, le mie dita si intrecciarono alle sue. E lì rimasero. Ci scambiammo uno sguardo, sulle nostre bocche prese forma un lieve sorriso. Poi, continuammo a camminare. Proprio quando stavamo per tornare sulla strada asfaltata, quella che ci avrebbe ricondotto alle nostre case, alle tavole apparecchiate per il pasto serale, e al rimpianto, mi fermai e lei mi assecondò, con naturalezza, come se le nostre intenzioni corrispondessero. Le strinsi anche l’altra mano e mi sistemai di fronte a lei, immobile. Come dimenticare la sua espressione? Mi ci specchiai, mi ci immersi. Mi chinai leggermente, avvicinai le mie labbra alle sue e le appoggiai delicatamente su quella bocca appena schiusa, in trepida attesa. Dopo alcuni istanti mi staccai, sconvolto. Un bacio, un semplice e innocente bacio, niente di più.
Che non ho più scordato.

domenica 21 agosto 2011

L'AMANTE



Quel giorno Luca scoprì che Giorgio, il collega dell’Ufficio Crediti Inesigibili, aveva un’amante. Fu lui stesso a dirglielo, non celando per nulla un certo sgradevole compiacimento. Ma non era tutto. Pure Oldani, il loro capo, intratteneva da qualche tempo una relazione con la propria segretaria, disse sempre Giorgio e, roba da non credere, anche Orsoni, il fattorino, poco più di un sub-umano a parere di Luca, aveva una storia con la portinaia dello stabile dove abitava.
Conoscere quelle intime informazioni sconvolse nel profondo l’animo di Luca. Lui era sposato da oltre dieci anni e mai aveva pensato di tradire la moglie. Si domandò il perché. La risposta, sincera, in realtà lo lasciò sconcertato. Non l’aveva fatto semplicemente perché era molto pigro. Decise quindi di combattere la sua naturale indolenza e di rimediare a quella mancanza, dal momento che non si sentiva certamente inferiore ai colleghi. Anzi, rispetto a loro era di sicuro un individuo più brillante e inoltre possedeva una maggiore prestanza fisica. Naturalmente, non intendeva sprecare tempo, quindi si orientò verso un obiettivo che riteneva facilmente raggiungibile. E agì, con grande e insolita determinazione.
Abbordò la signorina Corti all’uscita dal lavoro.
Entrambi lavoravano per la stessa ditta, nello stesso palazzo, ma soltanto raramente succedeva loro di incontrarsi, poiché la ragazza, una tra le numerose addette di segreteria del Direttore Totale, se ne stava sempre rintanata nel proprio ufficio. La giovane, che tanto giovane ormai non era più, non era sposata e, sulla base dei pettegolezzi raccolti in modo frettoloso da Luca nei vari uffici, non aveva neppure mai avuto uno straccio di spasimante. Una preda facile, insomma.
La signorina Corti, come detto, non era più nel fiore degli anni, avendo già superato da un po’ la quarantina, tuttavia la sua figura non era mutata di molto con il trascorrere degli anni. Luca la osservò da dietro. Alta di statura, con i fianchi un po’ pesanti, la schiena larga e piatta e le gambe stranamente sottili rispetto al corpo, un’andatura incerta, sgraziata. I capelli, di colore castano chiari, apparivano gonfi, imprigionati in una permanente del tutto fuori moda. L’uomo sospirò, affrettò il passo e la raggiunse.
“Ciao!” esordì con falso entusiasmo, toccandola su una spalla nuda.
Lei si arrestò, sorpresa.
“Ah! Luca! Sei tu!”
“Stai andando a casa?” domandò lui.
Lei spalancò gli occhi. Erano grandi, ma privi di luce.
“Veramente no. Pensavo di dare un’occhiata alle vetrine. Sai, i saldi…”
“E poi?” proseguì Luca, perfido.
Lei rimase per un attimo interdetta. Poi riprese a camminare, osservandolo.
“Be’… alla fine dovrò tornare davvero a casa” disse. “In quella grande casa vuota” aggiunse, con aria triste.
“Anch’io questa sera sarò solo” buttò lì Luca, con noncuranza.
Lei, immediatamente, parve interessata, anche se fece il possibile per dissimulare la sua curiosità.
“Ah sì?” sussurrò.
“Mia moglie non c’è, tornerà tardi. Sai, una cena con le amiche, o qualcosa del genere. E dopo, un salto in discoteca. Insomma, una specie di rimpatriata…”
“Capisco” disse la signorina Corti, pensierosa.
“Senti, che ne dici se andiamo a cena da qualche parte, io e te? Così nessuno di noi due passerà la serata da solo. Potremo parlare un po’, spettegolare sui colleghi, sul direttore…”
“Dici sul serio?” domandò lei. Il suo sguardo diventò all’improvviso luminoso.
“Certo!” confermò Luca.
“E se invece tu venissi a cena da me? Ti assicuro che sono un’ottima cuoca!”
“Non vorrei dare troppo disturbo…” disse Luca, con voce soave. Ormai aveva capito che la sua trappola era scattata.
“No! Che dici? Mi farebbe molto piacere, credimi!” rispose la donna, che ormai non riusciva più a trattenere il proprio entusiasmo.
“Va bene!” disse Luca. “A che ora?”
“Alle otto?”
Lui sorrise e annuì. Si rese conto che ormai aveva raggiunto il suo scopo. Mancava solo la rifinitura.
La cena, più tardi, andò benissimo. La signorina Corti non aveva mentito: era davvero una cuoca superlativa, anche se di rado aveva occasione di esibire quella sua dote a beneficio di qualcuno che non fosse il suo gatto.
E l’epilogo fu inevitabile. Subito dopo il lauto pasto, i due colleghi finirono in camera da letto. In verità, la prestazione amorosa di Luca non fu molto soddisfacente: in parte per aver ecceduto con le bevande alcoliche, e in parte perché le carni flaccide e inaspettatamente abbondanti della donna lo avevano un po’ disgustato. Tuttavia, la signorina Corti non aveva attribuito particolare peso a quel parziale insuccesso del suo amante e appariva nondimeno raggiante.  In seguito, considerò, avrebbero avuto tutto il tempo per rifarsi. Era sicura che a quello sarebbero seguiti tanti altri incontri.
Luca lasciò la casa della collega poco prima di mezzanotte e, quando giunse alle propria abitazione, sua moglie non era ancora rientrata. Allora, senza attendere il suo ritorno, si coricò, soddisfatto.
Il mattino dopo, in ufficio, la prima cosa che fece fu quella di telefonare alla sua amante dandole appuntamento alla macchina del caffè.  Era ancora presto, e i due erano soli.
“Ascolta, c’è un problema” disse Luca.
Lei impallidì, il suo sorriso si spense.
“Purtroppo non possiamo più vederci” proseguì l’uomo, in tono grave.
“Ma…”
“Aspetta” la interruppe lui. “Mia moglie deve aver intuito qualcosa.”
“Ma…”
“Quella donna possiede una specie di sesto senso per certe cose.”
“Ma…”
“Cerca di capire, non posso mettere a repentaglio la serenità della mia famiglia.”
“Ma…”
“In ogni caso, ti assicuro che è stato bello. Mi hai reso felice. Mi ricorderò sempre di te. Chissà, se tutto fosse capitato in un altro momento…” Sospirò.
“Ma…”
“Addio, mia cara.”
“Ma…” La signorina Corti spalancò ancor di più gli occhi, che si trasformarono in due profondi pozzi scuri.
Luca si voltò di scatto e uscì. Raggiunse l’ufficio, assalito da una febbrile frenesia.
Non vedeva l’ora di raccontare tutto a Giorgio.



venerdì 19 agosto 2011

L'ASSASSINO



Attese fino a che fu buio. E quel giorno le tenebre calarono presto. Era soltanto l’inizio dell’inverno, ma la temperatura, già da alcune giornate, si era fatta alquanto rigida.
L’uomo si affacciò alla finestra e vide che cadeva una sottile pioggia. Poco male, considerò, sarebbe comunque uscito, poiché non aveva alcuna intenzione di mutare i suoi piani per un po’ d’acqua, sebbene gelida, che stava scendendo dal cielo.
Consultò l’orologio al polso e vide che poteva operare con tutta calma. Allora si diresse verso la credenza, prese una bottiglia di cognac e riempì a metà un piccolo bicchiere. Sorseggiò il liquido pungente con lentezza, assaporandolo. Quella modica quantità di liquore non gli avrebbe certo fatto perdere lucidità - era abituato a ben altre dosi – ma in compenso gli avrebbe infuso un po’ di coraggio. In fondo, ne aveva bisogno: occorre determinazione per riuscire ad uccidere un uomo, soprattutto quando si tratta della prima volta.
Sciacquò con cura il bicchierino e lo ripose nello scolapiatti. Poi andò in salotto, si avvicinò alla grande scrivania, aprì il primo cassetto e prese l’arma. La sistemò all’interno della giacca, guardò nuovamente l’ora e decise che era arrivato il momento di agire.
Spense tutte le luci dell’appartamento e uscì.
All’ultimo momento aveva deciso di non indossare il cappotto. Il pesante indumento avrebbe potuto ostacolare i suoi movimenti e, piuttosto che ciò accadesse, era preferibile soffrire un po’ il freddo. Tanto, pensò, tutto sarebbe durato non più di venti minuti. Poteva certamente affrontare quel minimo disagio, poi…
Fuori, in strada, non c’era nessuno. Meglio così. L’importante era che fosse presente all’appuntamento con la morte la sua vittima e, al riguardo, egli non nutriva alcun dubbio. La sua certezza era assoluta.
Camminò, a passo svelto, per un paio di isolati. Si accorse, con stupore,  che non sentiva assolutamente freddo, né era infastidito dalla pioggia che ora precipitava con maggiore intensità, incollandogli i radi capelli al cranio spigoloso. 
Si immaginò un assassino con l’ombrello e ridacchiò tra sé a quell’idea. Scosse il capo.  No, non era proprio possibile. Gli assassini non portano l’ombrello.
Giunse al luogo stabilito e si fermò. In quel momento il battito del suo cuore cominciò ad accelerare, e le tempie a pulsare in maniera fastidiosa. Manifestazioni fisiche sgradevoli che l’uomo tentò di alleviare respirando profondamente. La mente, nondimeno, era perfettamente lucida.
Fece altri due passi e poi si sistemò dietro ad un angolo, immobile. Era il posto ideale per un agguato.
Cominciò a contare fino a cento - perché così era stabilito nel suo piano – e, mentre scandiva mentalmente le cifre, estrasse l’arma e la snudò.
La lama affilatissima del coltello catturò, per un attimo, un riflesso di luce proveniente da chissà dove e brillò, per poi ridiventare subito dopo quasi del tutto invisibile, scura e temibile.
Novantanove… cento!
L’uomo balzò oltre l’angolo, impugnando saldamente il coltello. Sferrò un terribile colpo dal basso verso l’alto. La lama penetrò nel petto, si fece strada scivolando tra le costole e arrestò la sua corsa sullo sterno, dove rimase imprigionata. Celando a stento il suo disappunto, l’uomo, esercitando una certa forza, riuscì a disincagliare il coltello. E immediatamente menò un altro fendente, questa volta più in basso, in pieno ventre. Fu come affondare nel burro. La lama si piantò spensierata fino all’impugnatura, e tagliò, squarciò e recise tutto ciò che trovò lungo la via.
L’uomo cominciò a barcollare e a perdere molto sangue, le forze vennero meno.
Riuscì comunque a svellere con facilità la lama dall’addome e ad infliggersi una terza pugnalata, pressappoco nello stesso punto della precedente. Fu quella mortale. Le gambe si piegarono all’improvviso e lui precipitò a terra, il pugnale ancora conficcato nel corpo.
Nient’altro che un’ombra scura stesa sul marciapiede, l’assassino e la vittima, la stessa persona.
La pioggia iniziò, paziente, a diluire il sangue sul selciato.

mercoledì 17 agosto 2011

IL DECORATORE



Scese dall’auto, scaricò tutta l’attrezzatura, la sistemò vicino alla porta d’ingresso della piccola villetta, poi suonò il campanello. Dopo alcuni istanti udì, all’interno dell’abitazione, una serie di passetti felpati e poi una donna si affacciò, mantenendo l’uscio socchiuso. Era piuttosto anziana ma con un aspetto ben curato. I capelli, radi e sottili, erano perfettamente pettinati,  gli occhi erano leggermente truccati e non mancava un filo di rossetto sulle labbra sottili. E indossava minuscoli orecchini d’oro. Sembrava vestita di tutto punto, e con la borsetta in mano, pronta per uscire.
“Ah! È lei!” esclamò, contenta, spalancando completamente la porta.
“Buongiorno, signora!” disse l’imbianchino.
L’uomo indossava una tuta da lavoro bianca, immacolata e, ben calcato sul capo, un cappello di carta di giornale.
“Mi piacciono le persone puntali” aggiunse la donna, poi fece strada, seguita dal decoratore che reggeva alcune latte di vernice e un contenitore di cartone.
“Può chiudere, signora” disse.
“E la scala?” domandò la donna, sorpresa. “Io non…”
“Non si preoccupi, non ne ho bisogno perché non la uso.”
“No?”
L’uomo sorrise.
“Stia tranquilla, utilizzo dei bastoni telescopici. Con quelli riesco ad arrivare dappertutto.”
“Teles…” cercò di ripetere la donna, ma non ci riuscì.
“Trucchi del mestiere!” tagliò corto l’imbianchino, e allora lei finalmente si rilassò.
“Come le ho detto al telefono, vorrei tinteggiare la cucina. Vede com’è sporca? Poi, il prossimo anno, penserò alla stanza da letto, o magari all’ingresso.”
“Non possiamo fare tutto l’appartamento?” domandò il decoratore.
“No! Per carità! Con la mia piccola pensione posso permettermi di rinnovare solo un ambiente alla volta.”
L’uomo rifletté un attimo.
“Signora, possiamo fare in questo modo. Io le ridipingo tutto l’alloggio, e lei mi pagherà una stanza all’anno. D’accordo?”
“Ma…” La donna era rimasta senza parole.
“Benissimo! Affare fatto!” la tolse dall’imbarazzo l’imbianchino.
“Occorreranno molti giorni?” domandò infine la vecchietta.
“Giorni? Per stasera sarà tutto finito!” rispose l’uomo.
“Davvero?” La donna era incredula.
“Certo!” confermò lui.
“Io stavo uscendo per andare da mia sorella. Vuol dire che quando sarò di ritorno, nel tardo pomeriggio, troverò veramente tutto fatto?”
“Glielo garantisco, signora. Abbia fiducia.”
“Allora me ne vado subito, così non le faccio perdere altro tempo!”
L’uomo ridacchiò.
“Non c’è problema. Buona giornata, signora.”
“Arrivederci, e buon lavoro!” E la donna uscì, felice.
Il decoratore iniziò i preparativi.
Non stese sul pavimento nessun telo, né coprì i mobili. Si diresse invece verso la latta di vernice e la aprì. Avrebbe anche potuto lasciare quel compito a loro, perché ne erano senz’altro capaci, ma di solito preferiva occuparsi di persona di quella piccola, piacevole incombenza. Per lui era una specie di rito. Annusò compiaciuto il buon odore della tinta e posò a terra il coperchio, poi si diresse verso la scatola di cartone. All’interno della stessa si poteva percepire una certa animazione. Rumori vari, scuotimenti, piccoli urti, sfregamenti.
L’imbianchino scosse la testa.
“Calmi!” intimò. Poi sollevò lentamente il coperchio e si scansò. Loro uscirono fuori come dei fulmini. Pennelli, di tutte le dimensioni, e rulli, anch’essi grandi e piccoli. E si tuffarono tutti, con ingordigia,  voraci, nell’enorme latta.
“Che diamine! Cos’è tutta questa fretta?” imprecò l’imbianchino. “Ce n’è per tutti!”
Dopo un po’, pennelli e rulli riemersero e si affacciarono sul bordo del secchio. Ben inzuppati, in attesa.
L’uomo li squadrò, severo.
“Statemi bene a sentire! Desidero che non facciate confusione. Ognuno di voi si occupi della propria zona, non intralciatevi e guai a chi si lascia sfuggire la più piccola macchia. La nostra cliente è una persona molto puntigliosa. Sono stato chiaro?”
In qualche modo, loro annuirono.
“Forza, adesso potete cominciare.”
Si slanciarono fuori dalla latta come delle autentiche furie e si dispersero nei vari ambienti. Aggredirono soffitti e pareti, insinuandosi ovunque, i più minuti e agili persino dietro ai mobili. Uno di loro a un certo punto si arrestò a metà di una parete e rimase immobile. L’imbianchino lo notò e sospirò.
“Hai ragione” disse. Si avvicinò e tolse un piccolo quadretto che era appeso al muro. L’unico in tutta la casa. Recava la fotografia di un uomo, forse il marito defunto della signora.  Il pennello aggredì lo spazio finalmente libero e lo riempì in un attimo.
“Non c’è altro da spostare, quindi lasciatemi in pace e fate il vostro lavoro” disse l’imbianchino. Poi si sedette sul divano, si accese una sigaretta e impugnò il telecomando del vecchio televisore. A un certo punto si addormentò. Fu svegliato dopo un po’ di tempo da un fruscio di setole impazienti.
“E adesso che cosa c’è di nuovo?” biascicò, ancora in parte addormentato. Poi comprese. La latta di vernice era vuota.
“Sapete che mi piace farlo, vero?” disse l’uomo, con un tono di voce quasi affettuoso. Aprì il contenitore e poi tornò ad accomodarsi sul divano. Pennelli e rulli, con rinnovato entusiasmo, ripresero a muoversi febbrili, anche se quella faticosa attività appariva per loro, più che un lavoro vero e proprio, soprattutto un divertimento.
Alle cinque del pomeriggio, l’opera di quegli esseri setolosi era terminata. L’appartamento risplendeva, pulito e luminoso.
Il decoratore si diresse verso la vasca da bagno e la riempì a metà.
“Su, adesso è l’ora di un bel tuffo!” invitò i pennelli. “Mi raccomando, datevi una bella ripulita.”
Poco dopo, quando tutto era ormai in ordine e i singolari imbianchini erano ormai tornati nella loro scatola, l’uomo udì girare la maniglia della serratura e la vecchia signora fece la sua ricomparsa. Osservò l’appartamento, stupita e meravigliata, poi guardò quello che riteneva l’artefice di tutto ciò.
“Complimenti! Ha fatto un lavoro stupendo! Lei è di una bravura incredibile! E non ha sporcato nulla! Neppure la sua tuta! Come ha fatto?”
L’imbianchino si strinse nelle spalle, lusingato.
“In effetti, non è del tutto merito mio…”
“Certo” disse la donna. “Un po’ di merito è anche di chi le ha insegnato così bene il lavoro.”
“In quanto alla tuta” riprese l’uomo. “Le confesso che sono un tipo molto ordinato, al limite della pignoleria, e quindi me ne porto sempre una di ricambio da indossare a lavoro ultimato.”
“Ah! Lo sa che lei è proprio un tipo singolare?”
“Dice?” domandò l’uomo, lanciando un’occhiata alla scatola di cartone, dalla quale non proveniva il minimo movimento.
I lavoratori si stavano già godendo il meritato riposo.
 

domenica 14 agosto 2011

MANI IN TASCA



Quel giorno Gualtiero si presentò al bar in mutande.
D’accordo, il ragazzo era un poco tocco, qualcuno affermava che gli mancasse qualche giovedì e probabilmente anche qualche altro giorno feriale o festivo che fosse, tuttavia la sua apparizione, così conciato, suscitò comunque una certa sorpresa. E pure un certo divertimento.
Soltanto Oscar, il barista, la prese male. Certo, il suo era pur sempre un locale pubblico frequentato, oltre che da noi perdigiorno abituali, da studenti, da donne di una certa età e da pensionati con i loro cagnetti al guinzaglio, e di conseguenza l’abbigliamento del giovane lo indispose. Allora lo rimbrottò con severità, gli intimò di andarsene immediatamente o, al più, di coprire in qualche modo quelle sue gambette sottili, bianche e completamente glabre.
Gualtiero abbassò lo sguardo, in apparenza mortificato, ma non si mosse. A un tratto vidi spuntare sul suo muso da faina un beffardo sorriso, quindi il ragazzo si avvicinò a me e, rapido come un fulmine, tuffò una sua mano ossuta nella tasca destra dei miei pantaloni e la rivoltò. Era vuota, completamente vuota, a eccezione di alcune briciole di incerta origine.
“Ah! Ah! È già passato! È già passato. Non è rimasto niente!” cantilenò euforico Gualtiero, non nascondendo il proprio entusiasmo.
Dapprima rimasi alquanto sorpreso da quel gesto improvviso e inspiegabile poi, aiutato da una sagace asserzione del vecchio Pilade, che nel frattempo si era alzato dal suo solito tavolino per rifornire il bicchiere, finalmente compresi.
“Ieri il Presidente ha detto che sarà costretto a metterci le mani in tasca! E faceva pure finta di essere dispiaciuto, il gran bastardo!” esclamò l’anziano ubriacone, con la sua voce catarrosa.
Scemo sì, ma non del tutto, il buon Gualtiero! Il suo ragionamento era chiaro: niente pantaloni, niente tasche e qualsiasi tentativo di sottrazione governativa era così impedito. Non faceva una grinza. Subito dopo, nel locale si scatenò un coro di voci, la maggior parte delle quali decisamente alterate dall’alcol, ma non per questo meno efficaci.
“Quel farabutto!”
“Quel ladro!”
“Quel puttaniere da strapazzo!”
“Quel vigliacco!”
Mi resi conto che si trattava di insulti, alcuni dei quali preferisco non riferire, tutti rivolti alla stessa persona: il nostro Capo del Governo.
Gualtiero era riuscito a scatenare un bel pandemonio!
Il buon Oscar cercò di riportare un po’ di ordine, ma invano. Gli avventori erano scatenati, e si incoraggiavano l’uno con l’altro sempre di più.
“Quel nano merdoso!”
“Quel mascalzone!”
“Quella canaglia!”
“Quel criminale!”
Dal momento che la sequela di ingiurie non accennava ad arrestarsi, decisi di intervenire. Odio quando la gente assume atteggiamenti animaleschi, da branco. E, dopo aver ancora udito un: “Deve finire appeso a testa in giù!” sbottai.
“Basta!” urlai. “Smettetela di fare questi discorsi da bar!”
Oscar mi guardò torvo, io finsi indifferenza, nondimeno il mio intervento si rivelò adeguato perché tutti si zittirono. Accanto a me, Gualtiero sogghignava soddisfatto, grattandosi il posteriore. Ero intervenuto poiché, tra le altre cose, non tollero l’ipocrisia, e sapevo benissimo che almeno una metà di quegli scatenati urlatori aveva per anni sostenuto o addirittura idolatrato quel bieco individuo che adesso invece era oltraggiato in maniera così pesante.
“Finiremo tutti con le pezze al culo” aggiunse ancora Faustino, però con tono pacato, amaro.
Dovetti annuire. Ero completamente d’accordo con quella sua analisi semplice ma efficace.
Gualtiero continuò a sorridere, si chinò in avanti e, ruotando lentamente su se stesso, espose a tutti il retro delle sue mutande gialle, compiaciuto. Il suo ragionamento continuava a reggere. Chi non possedeva pantaloni, non rischiava di doverli rattoppare.
Faustino scosse lentamente la testa, si accese una sigaretta e prosciugò tutto di un fiato il bicchiere che reggeva tra le mani.
“Prima o poi ci ruberanno pure le mutande” disse con tono grave.
Gualtiero impallidì di colpo. Poi si voltò e scappò di corsa dal locale. Noi ci guardammo, meravigliati per quella strana e imprevista reazione.
Il giorno dopo il ragazzo si presentò al bar completamente nudo. E rideva.


sabato 13 agosto 2011

MANOVRA-BIS



È passato poco più di un mese da quando è stata approvata la manovra economica da 7 miliardi (per l'anno in corso). Allora si disse che tale operazione sarebbe stata più che sufficiente, dal momento che l’Italia era certo in condizione critica, ma non più di altri paesi e che, comunque, nonostante la crisi globale, il nostro paese poteva affrontare le difficoltà contando su solidità che altre nazioni invece non possedevano. Balle. Tutte balle, come sempre. Ieri, in gran fretta, in situazione di estrema emergenza, dietro impulso (o forse anche qualcosa in più) delle autorità politiche e monetarie comunitarie, del Presidente della Repubblica, è stata promossa una terrificante manovra-bis da oltre 45 miliardi, distribuita su due anni.
Ci si chiede: perché l’aggravarsi della crisi non è stato previsto dai nostri geni economici? La risposta è semplice: per superficialità, incompetenza, incapacità totale e pura imbecillità da parte di chi sarebbe stato deputato a farlo. Anche in questo caso nulla di nuovo, direte, tuttavia mai come adesso il momento si presenta in tutta la sua drammaticità, ci troviamo in una fase di tale gravità che, nell’opinione pubblica, nei cittadini, la reale percezione dell’insieme tarda a farsi strada.
In ogni modo, per via dell’entità del provvedimento appena approvato, e proprio per il suo aspetto quantitativo, probabilmente sarà possibile rassicurare i mercati per un certo periodo di tempo e sfuggire così alla bancarotta, al famoso incubo del default, cioè di insolvenza dello stato. Per quanto tempo? Chissà, forse per sei mesi, magari per un anno. E poi? Poi sarà la fine della normalità e l’inizio dell’incubo.
Per quali motivi una manovra di tale entità rischia quasi certamente di rivelarsi inutile?
Innanzitutto perché andrà a colpire il solito ceto, quello medio, già sfibrato da anni di difficoltà, l’unico, per la sua composizione e consistenza, in grado di rappresentare un’autentica risorsa per la crescita e la ripresa. Inevitabilmente diminuiranno ancora di più i consumi, con conseguente contrazione dell’offerta e automatico calo della produzione di beni e servizi e con fatali ripercussioni sul mercato del lavoro, già duramente provato. Quindi, ulteriore aumento della disoccupazione, con altri lavoratori che perderanno il posto di lavoro e giovani che vedranno azzerarsi del tutto la prospettiva di un impiego. In pratica, avremo il proseguimento di una fase recessiva della quale sarà impossibile intravedere la fine, dal momento che al calo dei consumi farà seguito la diminuzione degli investimenti.
Ceto medio tartassato, dunque, e non invece utilizzato quale volano per una pur difficile ma non impossibile inversione di tendenza, mirata a portare il paese ad una anche debole ma costante fase di crescita.
Quale sarà invece l’impatto sulle classi sociali più deboli, sui meno abbienti da sempre, sui recenti nuovi poveri? Sarà drammatico, perché i ceti più disagiati saranno duramente colpiti dai tagli dei trasferimenti agli enti locali, organismi già ora in grande sofferenza, con conseguente ulteriore perdita di prestazioni e servizi, soprattutto nel campo dell’assistenza e del sostegno alle famiglie.
E i ceti più abbienti, oppure i grandi evasori? Che cosa è previsto per loro? Permettetemi, invece di una ovvia risposta, un'amara risata.
Nell’immediato futuro si prospetta, quindi, una situazione generale piuttosto difficile e penosa, di ardua sostenibilità. C’è il rischio di un improvviso inasprimento dei conflitti sociali, attualmente già presenti ma ancora latenti causa disorganizzazione dei soggetti disagiati. Tra l’altro, è sempre opportuno ricordare che la credibilità politica internazionale del nostro governo è pari a zero.
È possibile, a tutto ciò, porre un rimedio, trovare una soluzione? No, non è possibile, perché ormai è troppo tardi. L’incanto e l’ottundimento delle menti sono in gran parte svaniti, ma è comunque troppo tardi, ormai la realtà ci ha investito, e l’urto è stato durissimo, frastornante. Prima o poi, sarà necessario ricominciare tutto da capo.
Per chi sarà in condizione di farlo, naturalmente.
Ah! Dimenticavo…
Buon Ferragosto (?)
   

domenica 7 agosto 2011

MICROSTORIA


Il pensionato camminava attraverso il piccolo e malconcio giardino pubblico, meta della sua passeggiata quotidiana quando, all’improvviso, si arrestò. Ne era certo, qualcuno lo stava seguendo, e non si trattava della prima volta. Aveva già notato più volte quell’ometto aggirarsi attorno a lui, all’ufficio postale, in banca, al bar, per la strada, e in altri svariati luoghi, ma aveva pensato a semplici coincidenze, a incontri del tutto casuali, e invece non era così. Decise di affrontarlo, per chiedere spiegazioni. Si appostò dietro a un cespuglio e attese. Quando l’ometto raggiunse quel punto, sbucò fuori all’improvviso.
“Fermo! Perché mi sta pedinando? Perché ce l’ha con me?”
L’altro si spaventò, puntò a terra con forza il bastone che teneva in mano,  per non cadere. Un elegante bastone da passeggio con il pomo in avorio.
“Esigo delle spiegazioni!” lo incalzò il pensionato, cercando di approfittare del momentaneo sbigottimento del suo pedinatore. Ma, allo stesso tempo, lo osservò meglio. Sembrava piuttosto anziano, ottant’anni almeno, mingherlino, il capo quasi del tutto calvo, occhiali senza montatura con lenti molto spesse. Il pensionato considerò che non poteva certo rappresentare un pericolo e si calmò.
“Mi scusi, ma…” cercò di giustificarsi il vecchietto.
“Chi è lei?”
“Ha ragione, è opportuno che le fornisca dei chiarimenti. Sono il professor Eugenio Dottis, docente di storia a riposo. Lei non mi conosce, ma io non posso dire la stessa cosa nei suoi confronti. Io la conosco molto bene, e questo perché lei è l’oggetto di tutti i miei studi degli ultimi cinquant’anni.”
“Che cosa?” domandò il pensionato, sbalordito.
“Comprendo il suo stupore, ma è così. Ho iniziato la ricerca tanti anni fa, quando ero un semplice assistente universitario. E poi l’ho proseguita. In verità, devo dire che finalmente è quasi terminata. Vede, ormai sono vecchio, ed è giunto il momento di concludere.”
“Ma… di cosa si tratta? Non capisco…”
“Mi permetta di spiegare. Sa che cos’è la microstoria?”
“Un racconto molto breve?” azzardò il pensionato.
Il professor Dottis sorrise.
“No, si tratta di un approccio particolare alla storia. Invece dei grandi eventi, degli accadimenti collettivi che, secondo alcuni, sono quelli che determinano il corso della storia e i grandi cambiamenti, si prendono in esame, si studiano e si analizzano i piccoli fatti, le azioni più insignificanti delle persone. In parole povere, prevale la prospettiva del singolare, dell’individuale, dell’effimero, il tutto filtrato attraverso la contemporanea osservazione dei mutamenti demografici, economici e di costume.”
Dottis prese fiato. Pareva stremato.
“E io che cosa c’entro con i suoi studi?” chiese il pensionato.
Il professore sospirò, paziente.
“L’ho appena spiegato. Io ho scelto lei. Ho osservato tutta la sua vita, fin nei dettagli più minuziosi, da quando si è sposato, a vent’anni, due mesi e quattordici giorni, ad adesso. Cinquant’anni di esistenza di un individuo insignificante…”
“Come si permette?” si inalberò il pensionato.
“Mi perdoni, non intendevo essere offensivo. Volevo semplicemente affermare che tutti noi, a livello singolo, siamo privi di interesse. Almeno, è ciò che si ritiene comunemente, ma io non sono d’accordo e credo di averlo dimostrato con i miei studi. Le bozze dei primi due volumi della storia della sua vita stanno per andare in stampa…”
“Due volumi?”
“In realtà sono quattro. Il terzo è praticamente concluso, e il quarto raccoglie documenti e testimonianze. In tutto saranno più di settemila pagine.”
“Settemila?”
“Proprio così. La vita di ogni persona è incredibilmente varia e ricca di avvenimenti interessanti. Chi l’avrebbe mai detto?”
Dottis estrasse un piccolo taccuino.
“Che sta facendo?” lo interrogò il pensionato.
“Sto prendendo appunti riguardo al nostro incontro odierno. Sa, la memoria non è più quella di una volta!”
L’altro scosse il capo, sconsolato.
“Perché ha scelto proprio me?”
Dottis alzò le spalle.
“Diciamo che è stata una cosa abbastanza casuale.”
“E lei mi ha sempre seguito per tutti questi anni?”
Il professore sorrise di nuovo.
“No, lo hanno fatto per me dieci generazioni di studenti, sempre diversi, Per questo motivo lei non si è mai accorto di nulla. Da quando sono a riposo, invece, ho qualche problema, e di conseguenza ho dovuto occuparmi di persona anche di questo aspetto della ricerca.”
“E il privato? Voglio dire, nessuno mi ha mai seguito, e spiato, in casa. Il suo lavoro è incompleto!”
“Vede, la dimensione domestica riveste un’importanza fondamentale nel mio lavoro. Le assicuro che è piuttosto completa e non meno dettagliata rispetto al resto dell’indagine.”
“Come è possibile?” chiese il pensionato, incredulo.
“Vede, quando ero un giovane assistente una studentessa si appassionò talmente tanto alla ricerca che decise di collaborare con me fino alla sua conclusione. Cinquant’anni!””
“Non capisco…”
“No? Allora lo chieda a sua moglie. Quella studentessa era lei.”