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venerdì 29 aprile 2011

DELITTI TV



Le luci si accendono all’improvviso e subito parte l’enfatica sigla. Il famoso giornalista Bruno Mosca fa il suo trionfale ingresso nello studio dove, su comode poltrone bianche, sono già accomodati i suoi ospiti. Alle loro spalle, su un grande schermo, c’è l’immagine di una giovane donna e una scritta a caratteri cubitali: CACCIA ALL’ASSASSINO.
Dopo i saluti di rito, untuosi e falsi, e una rapida presentazione degli intervenuti al programma, la discussione può iniziare.
Il conduttore, il volto pallido punteggiato da una miriade di nei, si sfrega le mani e sorride, esprimendo in tal modo tutto il suo compiacimento per l’argomento che si accinge ad affrontare con le persone invitate.  L’uomo sembra trovarsi in una condizione pre-orgasmica.
“Dottoressa Misfatti, vorrei iniziare da lei. È trascorso ormai un mese dall’atroce delitto e, proprio oggi, gli inquirenti hanno ammesso di brancolare nel buio, di non avere tra le mani alcun elemento significativo e di non seguire piste privilegiate. Che cosa è stato trascurato? Perché, nonostante tutti gli sforzi, ci troviamo di fronte a questa desolante ammissione di impotenza?”
La famosa criminologa sorride. È giovane e bionda. Lentamente, accavalla le gambe scoprendo le cosce. Dall’orlo della striminzita gonna fa capolino il pizzo delle calze autoreggenti. Sorride di nuovo, ma non parla.
“Dottoressa, mi sto rivolgendo a lei” la incalza Mosca, che però appare distratto. Ha già buttato entrambi gli acquosi occhi da vecchio rospo sulle estremità infinite della criminologa.
“Eh?” La ragazza spalanca gli occhi, sbatte le ciglia.
“Non crede che gli investigatori debbano considerare con rinnovata attenzione l’ipotesi del delitto passionale?”
“Passionale? Credo proprio di sì. Vede, l’efferatezza dell’omicidio è stata tale che l’assassino è di sicuro un grande appassionato di tale pratica. Dai suoi gesti, dalle sue azioni, traspare enorme interesse per il delitto. La precisione delle coltellate inferte, la forza dei colpi calibrata in maniera eccellente, la regolarità degli squarci fanno proprio ritenere che…”
“In realtà mi riferivo a un presunto movente di natura sessuale…” la interrompe il conduttore, un po’ nervoso.
“Sessuale? Certamente! Il marito! Perché non l’hanno interrogato?”
“Mi risulta che la povera signora fosse vedova…”
“È sicuro? Niente marito? È morto?”
“Sì, pare di sì.”
“Ucciso pure lui? Da chi?” Adesso la dottoressa Misfatti pare invasata. Si agita sulla poltrona, scoprendo ancora di più le gambe. I due ospiti seduti di fronte a lei si abbassano e si protendono per meglio godere lo spettacolo. Garanti, il giornalista di cronaca nera, sbava senza alcun ritegno.
“Morte naturale” dice Mosca, gelido. E si rivolge a un altro ospite.
“Dottor Doli, da ex-magistrato lei è a conoscenza di tutte le più moderne metodologie investigative. A suo avviso è stato tralasciato qualcosa? Sono state impiegate tutte le risorse disponibili? Comprese le nuove tecnologie?”
Il corpulento Doli si schiarisce la voce, poi si toglie e si rimette gli occhiali dalla vistosa montatura rossa. Si accarezza la barba e si liscia la sgargiante cravatta smeraldina.
“Io insisterei con i cani atomici” sentenzia con la sua voce profonda, cavernosa.
Garanti si alza in piedi, in preda all’indignazione.
“Nucleare? No grazie!” urla. Il pubblico applaude.
“Forse il dottor Doli si riferiva ai cani molecolari…” interviene Mosca.
L’ex-magistrato strabuzza gli occhi.
“Atomici! Molecolari! Protonici! Che differenza fa? E comunque il dottor Mosca ha ben compreso ciò che intendevo dire. Mi riferivo alle bestie.”
“Bestia sarà lei!” sbraita il giornalista, sempre in piedi.
“Ma come si permette? Oltretutto in non l’ho interrotta…”
“Cretino! Non ho ancora parlato!”
Mosca decide di frapporsi tra i contendenti. Dentro di sé, tuttavia, è soddisfatto. La trasmissione sta andando bene.
“Per favore! Non sovrapponetevi, altrimenti i telespettatori non capiscono nulla!”
“Ma io gli spacco la faccia, al grassone!” Garanti è incontenibile.
“Non costringetemi a farvi abbassare i microfoni” dice Mosca.
A quelle parole magiche, il giornalista impallidisce. E torna subito ad accomodarsi.
“No, il microfono no” sussurra con un filo di voce.
Il dottor Dotti tace ma congiunge le mani in muta preghiera. Mosca sogghigna e poi si sposta verso il centro dello studio.
“Cari telespettatori, come potete vedere abbiamo ricostruito, attraverso un plastico, la scena del delitto.”
Su un tavolino di vetro, in effetti, è stata rappresentata la scena del crimine: decine e decine di alberelli di plastica alti circa mezzo metro.
“Il bosco! È proprio in mezzo a questi alberi, nel fitto e nel buio di questa boscaglia, che la povera signora è stata orrendamente trucidata!” E Mosca tuffa la sua mano sudaticcia proprio nel mezzo di quelle patetiche chiome verdi artificiali.
“Qui! Proprio in questo punto esatto l’assassino ha colpito!” Mosca sembra godere. Adesso lo sfregamento delle mani ha assunto un ritmo vertiginoso. I nei disseminati sul suo viso risplendono sotto le potenti luci e sembrano animati di vita autonoma.
“Devo purtroppo comunicare, e lo faccio con grande dispiacere, che avevamo invitato a questa puntata la madre, la nonna, la zia e il fratello della vittima ma tutti hanno deciso di non intervenire. Li capisco, il loro dolore è grande, molto più grande del compenso che abbiamo offerto loro per la partecipazione. Comunque, le trattative sono ancora in corso e speriamo di averli al più presto qui con noi. I loro avvocati sono piuttosto rognosi, ma anche i nostri non scherzano. Detto questo, procediamo con la trasmissione. Adesso andrà in onda un servizio sui lanciatori di coltelli. A differenza degli inquirenti impegnati nelle indagini, noi non trascuriamo alcuna pista.”
“Neppure quella del suicidio!” grida Garanti, noto per il suo dissennato garantismo.
Dopo il filmato, che dura oltre mezz’ora, la discussione in studio prosegue su toni più sereni e accomodanti.
La puntata termina, scorrono i titoli di coda e viene riproposta l’orrenda sigla. Le luci si spengono. Mosca congeda i suoi ospiti e rimane solo. Anche i suoi collaboratori e i tecnici, uno alla volta, se ne sono andati. Finalmente il conduttore può consultare con tranquillità alcuni foglietti che estrae furtivo dalla tasca della giacca: i dati di ascolto e gradimento delle ultime serate. Nella penombra dello studio Mosca aguzza gli occhi e poi si accascia sulla poltrona, incredulo. Un disastro, un vero disastro! Pensa con intensità a cosa non funziona, a cosa si può modificare per invertire quell’andamento negativo. Gli ospiti! Sono gli stessi da anni, ormai, e sembrano pure un po’ rincoglioniti. Bisogna trovarne di nuovi, subito. E poi c’è quell’altra cosa che lo tormenta: le uccisioni di giovani donne non tirano più. Allora prende mentalmente l’appunto di commissionare un nuovo delitto, per la settimana successiva. Un bambino, magari. Tanto per cambiare un po’. Si sa, gli spettatori sono così volubili, e vogliono sempre qualcosa di nuovo. È così impegnativo soddisfare la loro morbosità!




domenica 24 aprile 2011

I RIBELLI DELLA MONTAGNA




Luciano Secchia, il comandante Lenìn, si inerpicava a fatica sul ripido sentiero. Sulle spalle, oltre al fucile, portava un grosso sacco, colmo di patate. Ancora mezz’ora di cammino e sarebbe giunto al campo. L’autunno era appena iniziato, ma l’aria, lassù in montagna, si stava già rinfrescando. L’inverno non era lontano, e con la brutta stagione sarebbero arrivati presto il freddo e la neve. Le speranze, sue e dei suoi compagni, erano state deluse. Il desiderio di trascorrere l’inizio del nuovo anno in pianura, liberi dall’invasore, non si sarebbe avverato. Ormai ne erano consapevoli, tutto era rimandato alla primavera. Ma i ribelli della montagna non si erano persi d’animo e avevano da tempo cominciato ad accumulare provviste in vista della stagione fredda. Quel giorno, Lenìn era stato nella cascina dei Bordiga i quali, fin dall’inizio della lotta partigiana, li avevano sempre aiutati, pur esponendosi a rischi enormi. Il comandante pensò che Edoardo Bordiga e i suoi figli fossero degli autentici patrioti, e che meritassero tutta la loro riconoscenza. D’altra parte, chi in pianura e chi nascosto sui monti, tutti lottavano per lo stesso ideale: la libertà.
Lenìn, sfiancato per la lunga camminata e per il gravoso peso che gli spezzava la schiena, decise di fare una breve pausa. Uscì dalla traccia e, aiutandosi con il bastone, risalì un pendio erboso, posò il sacco e si sedette a terra appoggiandosi a un esile larice. Poi, con gesti lenti ma abili, si arrotolò una sigaretta e l’accese. Intorno a lui, solo silenzio. Anche la moltitudine di uccelli che popolavano i boschi e i cieli della montagna si erano, a quell’ora, ormai chetati, esausti dopo un’intera giornata trascorsa a cantare. In lontananza, il sole stava ormai calando dietro le vette, colorando il cielo di rosso. E fu proprio in quel momento di quiete assoluta che udì il rumore di rami spezzati. Lenìn, da combattente esperto quale era, mantenne i nervi saldi. Spense la sigaretta schiacciandola con lo scarpone, imbracciò il fucile e si distese pancia a terra. Subito dopo, lo vide apparire da dietro un grosso masso.
“Fermo!” gridò, facendo scattare l’otturatore.
Il ragazzino si arrestò di colpo, sorpreso. Alzò le braccia, ma non sembrava affatto spaventato. Lenìn si alzò in piedi e gli andò incontro, senza sollevare il fucile. E se fosse stata un’imboscata? E quel bambino una semplice esca? I suoi sensi erano all’erta.
“Fermo lì! Non muoverti e non abbassare le mani!”
“Che, vuoi spararmi?” disse il ragazzino. Il suo tono era lievemente beffardo.
“Sei solo?”
“Non lo vedi? Sei orbo? Certo che sono solo. Mi sono perso.”
“Chi sei? Come ti chiami?” lo incalzò il partigiano.
Il bambino sospirò, stizzito.
“Mi chiamo Silvio, ma i miei genitori mi chiamano Silvietto.”
“Dove sono i tuoi genitori? Perché non sei con loro?”
“Loro sono giù, in paese. Siamo sfollati da Milano, da pochi giorni, e siamo ospiti di parenti. Io ho deciso di esplorare un po’ la zona, ho camminato a lungo e adesso non riesco più a ritrovare la strada.”
“Qui vicino c’è il sentiero. Perché non sei sceso?”
“Il sentiero? È proprio ciò che stavo cercando, ma sono molto stanco, è tutto il giorno che cammino.”
Lenìn continuava a guardare il bambino con diffidenza. E con sospetto. Che cosa ci faceva lì, da solo? Era forse una spia dei repubblichini? Scacciò quel pensiero, frutto di timore e apprensione eccessivi. Probabilmente, stava dicendo la verità. Non conoscendo i posti, si era davvero smarrito. Ma continuò ugualmente a tenere il fucile puntato.
“Che cosa fa tuo padre?” domandò Lenìn.
“Lavora in banca. O meglio, lavorava. Siamo dovuti scappare. Per colpa dei tuoi amici, che bombardano tutto il giorno” rispose il bambino.
“Non sono miei amici, sono i nostri alleati, miei e tuoi, e ci stanno aiutando a liberarci dei tedeschi.”
“Non è vero. Stanno distruggendo tutto e ammazzando la gente!”
“Taci! Sei troppo piccolo per capire. Stai parlando di questioni ben più grandi di te!”
“Guarda che io a Milano andavo a scuola e che so molte cose!” disse Silvietto, con strafottenza.
Lenìn sorrise, scuotendo il capo.
“Scommetto che a scuola eri bravissimo” disse, con ironia.
“Certo! Ero il primo della classe, e aiutavo sempre i miei compagni in difficoltà.”
“Bene. Questo ti fa onore.”
“Facendomi pagare…” aggiunse il ragazzino. I suoi occhi sfavillavano di cupidigia.
“Bel lazzarone che sei!” disse il comandante, e finalmente abbassò la canna del fucile.
“Sei un comunista?”
“Che cosa?”
“Ti ho chiesto se sei un comunista. Sai, mio padre li odia, quelli come te,  dice che vogliono rubare i soldi ai padroni e prendere il loro posto!”
“Tutte sciocchezze. E comunque io sono un patriota, a me sta a cuore soltanto la libertà, i soldi non mi interessano.”
“Non avevo mai visto un comunista in carne e ossa” disse tra sé Silvietto.
“Falla finita, ragazzino” lo rimbeccò Lenìn, che l’aveva sentito.
Quel bambino, dalla testa grossa e dalla precoce stempiatura,  proprio non gli piaceva. Non gli piaceva il suo sguardo furbo, né il suo sorriso sardonico, sfrontato. Da adulto. In più, doveva decidere che cosa fare di lui, in tutta fretta.
“I miei genitori saranno in pensiero, mi staranno cercando, devi accompagnarmi a casa.”
Lenìn lo guardò, strabiliato.
“Che cosa? Tu mi stai dicendo che devo fare?” strepitò.
L’altro non si scompose.
“Vuoi fucilarmi? So che vi divertite a farlo.” disse Silvietto, sarcastico.
“Stai zitto! E scordati che ti riaccompagni a casa! Ormai è tardi e la strada è troppo lunga. Tu stesso non ce la faresti. I tuoi, per ora, si dovranno mettere il cuore in pace. Domani, si vedrà. Vieni vicino a me!” ordinò Lenìn.
Silvietto, un po’ sconcertato per quel comando imperioso, prima sbuffò ma poi ubbidì.
Il partigiano legò una corda alla vita del ragazzo, quindi assicurò il capo alla sua cintura.
“In questo modo non potrai perderti di nuovo” disse Lenìn.
“Sono tuo prigioniero?”
Lenìn sospirò, esasperato, ma non rispose. Si rimise il fucile a tracolla e il sacco sulle spalle. Poi riprese il cammino, seguito dal ragazzino che marciava due metri dietro, tanto quanto gli era consentito dalla lunghezza della fune.
Quando Lenìn fece il suo ingresso al campo, con il bambino legato alla cintura, fu subito attorniato dai suoi uomini, i cui sguardi esprimevano muta meraviglia. Lui fece intendere che avrebbe spiegato tutto dopo. Ordinò a Baldo, la loro staffetta, un ragazzo poco più che adolescente, di rinchiudere Silvietto nella stalla, di dargli da bere e qualcosa da mangiare, e di preparargli un giaciglio per la notte. Nessuno osò fare domande fino a quando tutti si riunirono, dopo la cena, in un piccolo edificio di pietra, dove tenevano le armi e le scorte alimentari. Il comandante Lenìn godeva di una indiscussa autorità presso i suoi compagni. Era giovane, non aveva combattuto nell’esercito, perché si era rifugiato sui monti subito dopo l’armistizio, ma il fatto che fosse l’unico, tra tutti, ad aver studiato, oltre ad aver dato prova di capacità e coraggio in tante azioni disperate, gli conferiva un riconosciuto prestigio. E il rispetto che ne derivava. Tuttavia, la discussione si accese subito.
“Non dovevi farlo. Ti rendi conto del pericolo al quale ci hai esposto?” disse Olga.
“Olga ha ragione. Avresti dovuto riflettere di più. Lo staranno cercando” aggiunse Millio.
“E cosa avrei dovuto fare? Comunque, state tranquilli, per adesso non siamo in pericolo” cercò di giustificarsi Lenìn.
“Già. Ma domani? Dobbiamo decidere ora che cosa fare” disse Millio.
“D’accordo, che cosa proponete allora?”
La domanda spiazzò i presenti. Tutti speravano che il loro comandante avesse una soluzione. La sua indecisione li disorientò. Seguì un lungo silenzio.
“Non possiamo farlo tornare” disse Olga.
Gli altri partigiani si guardarono. Avevano compreso.
“Dov… dov… dovremmo ucciderlo?” balbettò Baldo. Era impallidito.
“Olga, sei impazzita? Si tratta di un bambino!” esclamò il vecchio Alberto, sgomento.
“Potrebbe essere una spia. E comunque non possiamo mettere a repentaglio la nostra sicurezza. E quella di interi paesi, che hanno bisogno della nostra protezione. Lo so, posso sembrarvi cinica e crudele, ma la nostra lotta è troppo importante per essere compromessa da un moccioso, devono prevalere gli interessi della collettività, anche a scapito del sentimento di umanità.”
“Olga! Ma ti rendi conto di che cosa stai dicendo? Quel bambino ha l’età di tuo figlio!” Alberto era strabiliato. Credeva di conoscere bene Olga, quella ragazza coraggiosa ai limiti dell’incoscienza che non si tirava mai indietro di fronte a nessun pericolo, che tutti i giorni rischiava la vita. Per lui era come fosse la figlia che non aveva mai avuto. Invece non era così, in realtà non la conosceva veramente. Oppure, da quando era salita in montagna, Olga era cambiata, si era indurita.
“Siamo in guerra. Comunque, fate ciò che volete!” aggiunse Olga, lapidaria. Poi afferrò la borsa del tabacco e uscì sbattendo la porta.
Lenìn, che aveva assistito in silenzio al violento scambio di battute, spense la sigaretta e poi fece a tutti il segno di tacere. Quindi parlò.
“Olga è spaventata, è fuori di sé e in questo momento non è lucida. Vedrete che le passerà e allora si pentirà di ciò che ha detto. Chiederà scusa. È chiaro che non possiamo uccidere il bambino, non siamo degli assassini, e lui non ha fatto nulla di male.”
“E allora che cosa proponi?” domandò Lothar, un partigiano dal fisico erculeo, che fino a quel momento non era ancora intervenuto nella discussione.
Lenìn sospirò. Aveva l’aria stanca, sofferente.
“Dobbiamo riportare indietro il ragazzino. Non ci sono altre soluzioni” disse.
“Ma lui conosce l’ubicazione del campo!” esclamò Millio.
“Po… po… posso accompagnarlo io dai Bordiga. Poi troverà la strada da solo” si intromise Baldo.
“No, è troppo rischioso. Non voglio che quella famiglia corra rischi inutili. Quel bambino ha la lingua lunga” disse Lenìn.
“E allora?” chiese Mitraglia, un ragazzo magro con baffetti appena accennati che gli sporcavano il labbro superiore.
“Dovremo spostare il campo” disse il comandante con aria grave.
“Che cosa? Proprio adesso che sta per arrivare l’inverno? E dove andremo?” Millio era sconcertato.
Lenìn, cercando di mantenere la calma, riprese.
“Andremo più in alto, alla malga Bertani.”
“Cristo! Moriremo di freddo! E poi è troppo lontana da qui, come faremo a mantenere i collegamenti con le altre brigate?”
“Non abbiamo altra scelta. E comunque si tratterà solamente di trascorrere l’inverno, dal momento che non saremo impegnati in azioni importanti fino alla primavera. Inoltre, qualcuno di voi potrebbe anche passare la stagione in pianura. Sarebbe utile per avere informazioni. Che ne dite?” Lenìn aveva fatto il possibile per apparire convincente.
“L’hai detto tu. Non abbiamo altra scelta. E il bambino?”
“Me ne occuperò io. Inizieremo subito a smantellare il campo. Domani all’alba, mentre voi comincerete a salire, lo accompagnerò in prossimità del paese. Poi vi raggiungerò prima che sia buio.” A quelle parole del comandante tutti annuirono, convinti e ormai rassegnati.
“E chi lo dirà a Olga?” chiese Millio.
“Ci mandiamo Baldo! Olga ha un debole per lui!” esclamò Alberto.
“Ma… ma… ma…” Di fronte all’imbarazzo del ragazzo, finalmente i partigiani sorrisero.
“Non dimenticarti di dirle che è un ordine!” aggiunse Lenìn, anche lui più sereno.
Il mattino dopo, quando il cielo cominciava ad arrossire, Lenìn andò a svegliare Silvietto, lo costrinse a mangiare pane e formaggio, poi lo assicurò di nuovo saldamente alla cintura con una corda, – continuava a non fidarsi di quel ragazzino, anche se non sapeva dire per quale motivo – quindi i due si misero in cammino. Silvietto, dapprima silenzioso, appena fu sveglio del tutto ricominciò a parlare con il suo tono insolente.
“Alla fine avete deciso di non farmi fuori, vero? Sei stato tu a impietosirti oppure è stata la ragazza? Secondo me sei stato tu, quella mi pare una con le palle. Lei mi avrebbe di sicuro accoppato.”
“Smettila! Anzi, fai una bella cosa, stai zitto! E soprattutto cerca di tacere quando sarai tornato a casa.”
“Non mi fai paura. Sai bene che dirò tutto.”
“Sei veramente un ragazzino sgradevole! Mi chiedo che cosa farai quando sarai cresciuto…”
“Lo vuoi davvero sapere? Voglio fare ciò che fai tu.”
Lenìn lo guardò stupito.
“Che cosa? Il partigiano?” chiese.
“Ma no! Voglio comandare, dare ordini, come te. E in più essere un famoso imprenditore, diventare ricco e potente. A te i soldi non interessano, a me invece sì! E il potere mi attira ancora di più. ”
Silvietto sogghignò, il comandante Lenìn scosse il capo, desolato.
“Sei soltanto un giovane sbruffone. Quando sarai diventato una persona matura, cambierai opinione. E allora sarai contento di vivere e lavorare in un Paese libero. A quel punto proverai riconoscenza per chi ha lottato e si è sacrificato per conquistarla, quella libertà. Tu rappresenti il futuro della nostra nazione, e sono certo che non mi deluderai."
Si sbagliava.







  

venerdì 22 aprile 2011

LE TRE CROCI



Moab, il conciatore di pelli, si fece largo a fatica nello stretto vicolo, imboccato dopo aver superato la zona del mercato. I venditori, in piedi sulla soglia dello loro minuscole botteghe, cercavano di attirare l’attenzione dei potenziali clienti urlando a squarciagola. A ingombrare la via era presente ogni sorta d’umanità: carrettieri, sacerdoti del Tempio stretti nei lunghi caffetani scuri, giocatori d’azzardo dallo sguardo astuto, mendicanti storpi e prostitute abbigliate in maniera vistosa.
Il conciatore, gli occhi bassi, le dita strette sul borsellino con le monete, ignorò tutti e si diresse, affrettando il passo, verso un laboratorio artigiano dal quale provenivano, secchi e ritmati, ripetuti colpi di martello. Entrò.
Levi, il falegname, appena vide l’amico interruppe subito il lavoro. Sorrise. Si passò una mano sulla fronte, per asciugare il sudore, e posò la mazzuola su uno sgabello.
“Levi!” disse il conciatore. “Che cosa è successo? Non ti ho mai visto così impegnato già di buon mattino!”
L’altro sospirò e si sedette. Indicò all’amico di accomodarsi su una panca, che scricchiolò sotto il peso del corpulento artigiano.
“C’è pericolo che mi ritrovi con le terga a terra?”
“Stai tranquillo, l’ho costruita io, e ti posso assicurare che reggerebbe il peso di un…”
“… elefante?” lo interruppe Moab, che poi scoppiò a ridere.
“Ascolta” proseguì il conciatore. “Avresti, per puro caso, ancora un po’ di quel fresco vinello della Galilea? La camminata mi ha seccato la gola.”
“Capisco” disse semplicemente il falegname. Si alzò, andò nel retro della bottega e tornò dopo pochi istanti recando due boccali colmi di un liquido rosato.
“Hai molto lavoro?” domandò Moab, finalmente serio.
“Purtroppo sì. Mi è arrivata un’ordinazione improvvisa e urgente, da parte degli uomini del governatore. Per domani.”
Il conciatore guardò alcune lunghe travi che erano appoggiate su rudimentali cavalletti. Vide che il lavoro era a buon punto. Il legno era già quasi del tutto piallato e lisciato.
“Si tratta di queste?”
“Sì, sono tre croci. Mi rimane da finirne una sola, la più grande, quella che dovrà essere posta in mezzo.”
Moab annuì, pensieroso.
“È quella destinata al nazareno, vero?” disse.
“Credo di sì. Non mi sono stati forniti molti particolari. Mi è stato soltanto raccomandato che fossero robuste, in particolare quella.” Levi si strinse nelle spalle.
“L’altro giorno io c’ero” disse Moab, svuotando il boccale.
“Dove?”
“In piazza, quando hanno condannato quello sconosciuto, quel Gesù. Che avrà mai fatto? Non ha rubato né ammazzato, eppure sarà crocefisso! Dov’è la giustizia in tutto ciò?”
“Non possiamo aspettarci giustizia da Erode. E tantomeno da Roma” disse Levi, cupo.
“Però il governatore ha liberato Barabba. Così ha voluto la folla.”
“Barabba è uno di noi” disse il falegname.
“Può darsi. Ma chi è veramente Barabba? Un delinquente? Un patriota?” domandò il conciatore, infervorandosi.
“Entrambe le cose” disse Levi, sarcastico.
“Forse hai ragione tu, vecchio mio. Il fatto è che, per i capricci della gente, quel poveraccio sarà giustiziato.”
“Ascolta, Moab. In fondo, che ne sappiamo noi? Siamo solo due poveri e ignoranti artigiani. Come facciamo a essere sicuri che il nazareno non fosse davvero implicato in qualche congiura?”
“Congiura? E contro chi? Contro il nostro re? Oppure contro l’usurpatore romano? Magari!”
“Moab! Non urlare, dalla via potrebbero sentirti” esclamò il falegname, spaventato.
“A Pilato non importa nulla se un innocente sarà ammazzato. Quello, il nazareno, ha semplicemente pestato i piedi a qualche pezzo grosso del Tempio! E il nostro buon governatore, con la sua sentenza, ha compiaciuto in un colpo solo i sacerdoti e il desiderio di sangue e di morte del popolo.”
“Quindi la mia croce sarà utilizzata per mettere a morte un incolpevole?” domandò Levi all’amico.
“Non te la prendere. Tu non puoi fare nulla, se non cercare di svolgere bene il tuo lavoro. Purtroppo, non sarà di certo l’ultima volta che una cosa simile accadrà. La giustizia terrena non esiste, è solo un’illusione.”
“Sai per caso a chi sono destinate le altre due croci?” chiese il falegname. “A me non l’hanno voluto dire.”
Moab rifletté un attimo.
“Credo di sì. Se ne parlava ieri sera all’osteria. Si tratta di due ladri, Tito e Gestas. Li conosci?”
“Certo!” disse con enfasi Levi. “Non si tratta di due ladri, sono due assassini!”
“Diciamo che per rubare hanno sempre utilizzato modi spicci. Giusto?”
“È così. Tuttavia Gestas in realtà è un poveraccio. Sai, quando era bambino…”
“Ma come! Dicono tutti che sia il più crudele e spietato dei due!” lo interruppe Moab.
“Si sbagliano. Ho avuto modo, per mia sfortuna, di conoscere bene Tito. È un criminale scaltro e smaliziato, anche se non appare come tale. Per salvarsi sarebbe disposto a vendere l’anima al demonio!”
“Invece questa volta dovrà rassegnarsi. Chi può ormai salvare lui o almeno la sua anima? Il nazareno, forse? Quello è messo peggio di lui!”
“Lo conosco, ti dico. Tito è in grado di ingannare chiunque!”
“Stai tranquillo, amico mio. Cerchiamo di non pensare a tutta questa brutta situazione. Tanto, noi non contiamo nulla” disse Moab allargando le braccia.
“Sì, hai ragione” rispose Levi. Poi si alzò e impugnò una grossa pialla.

I lugubri profili delle tre croci si stagliano sul Golgota. Tre uomini vi sono inchiodati. Il nazareno, nel mezzo, ha il capo piegato. Da poco ha esalato l’ultimo respiro. Alla sua sinistra, una smorfia terribile disegnata sul volto del ladrone Gestas esprime tutta l’atroce sofferenza che ha preceduto la sua morte. Alla destra del presunto Re dei Giudei c’è Tito, ormai senza vita, che sembra invece sorridere.
“Le croci hanno retto. Hai fatto un buon lavoro, Levi” dice Moab, il conciatore.
“Sì, davvero un ottimo lavoro” risponde il falegname, amaro.  




giovedì 21 aprile 2011

DEPISTAGGI



Le proposte di modifica della Costituzione, a volte bizzarre, a volte pericolose, si sono moltiplicate negli ultimi tempi a opera di sconosciuti “peones” della maggioranza.
Ma qual è il vero obiettivo di tali operazioni? Dal momento che le possibilità di reali modifiche della carta costituzionale sono assai esigue, per non dire nulle, (maggioranza parlamentare risicata, iter lungo e complesso, eventuale probabile referendum confermativo) è evidente che si tratta di azioni di disturbo, rivolte a depistare, a sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dal vero proposito del Presidente del Consiglio: l’approvazione, in tempi brevi, di alcuni provvedimenti legislativi, nel campo della giustizia, che gli permettano di sottrarsi ai numerosi procedimenti giudiziari in corso a suo carico.
La legge sulla prescrizione breve (che annienterebbe di botto il processo Mills) si trova in dirittura d’arrivo al Senato. L’unico ostacolo potrebbe essere rappresentato dalla sua mancata promulgazione da parte del Presidente della Repubblica il quale, proprio a tale proposito, a scopo quasi intimidatorio, è tenuto sotto costante e logorante pressione.
Sempre in Senato si stanno discutendo, e sono in corso di approvazione, una serie di norme che riguardano il cosiddetto “processo lungo”, vale a dire l’ammissibilità di un numero illimitato di testimoni a favore della difesa. Provvedimento che, se confermato, favorirebbe le manovre dilatorie degli avvocati difensori provocando così (ed è questo ciò che interessa veramente) lo slittamento a tempo indefinito di un altro paio di processi nei quali è imputato il nostro sciagurato Premier.
Subito dopo, per completare l’opera devastatrice, sarà la volta delle intercettazioni. La famigerata legge-bavaglio, ormai finita in soffitta, sarà ripescata e si tenterà di approvarla di corsa e nella sua formulazione più virulenta, quella iniziale, senza le numerose modifiche pretese e imposte da Gianfranco Fini, a quel tempo ancora allegramente parte della maggioranza di governo.
In ultimo, e al di fuori della sfera della giustizia, è necessario non scordare il tentativo di estendere, attraverso una piccola modifica legislativa, l’applicazione del sistema elettorale attualmente vigente per la Camera – Porcellum con premio di maggioranza calcolato su base nazionale – anche al Senato, per garantire, in caso di elezioni politiche anticipate, un successo pieno a Pdl e Lega in modo da scongiurare il temuto “pareggio” che costringerebbe Berlusconi a una brusca uscita di scena.
Mai come oggi la nostra democrazia è in pericolo, vilipesa e sottoposta a continui tentativi di indebolimento se non a vera e propria opera di smantellamento.
Lo scontro politico ha raggiunto una tale asprezza che si sta per superare il livello di guardia.
Presto o tardi sarà inevitabile una resa dei conti, le cui conseguenze sono al momento del tutto imprevedibili.
Ogni cittadino è dunque chiamato a difendere le libertà fondamentali. È opportuno aggiungere che, chi ha avuto responsabilità nel determinare l’attuale disastrosa situazione, in maniera più o meno grave, è ormai coinvolto. E non potrà essere assolto.


lunedì 18 aprile 2011

RIFLESSI



Guardo i suoi capelli, e vedo che sono meno folti di un tempo. La stempiatura si è accentuata e, seppure non sia ancora molto evidente, questa triste particolarità non sfugge a un’occhiata attenta, partecipe. Noto alcuni fili grigi, altri addirittura bianchi, localizzati soprattutto in corrispondenza dei lati del capo, proprio sopra le orecchie. Pare impossibile, tanto che tale peculiarità potrebbe di sicuro sfuggire a un osservatore disattento, superficiale, ma anche le sopracciglia appaiono più rade, pressoché inconsistenti. Sembra quasi che tutti i bulbi piliferi, di comune accordo, si siano ammutinati e abbiano rallentato la loro azione, una volta vigorosa ed energica. Sono stanchi, deboli e affaticati, ormai stremati. La fronte, dunque, si presenta più ampia, molto più spaziosa. Ciò infonde, in qualche misura, una maggiore autorevolezza all’intero ovale del volto, una ingannevole impronta di maggiore credibilità, di acquistato prestigio. Percezione, in ogni modo, fittizia, e del tutto illusoria. Perché l’epidermide ha una colorazione grigia, opaca, ha perso da tempo la sua luminosità, la sua morbida elasticità. Si mostra arida, scabra, tesa come la pelle di un tamburo, e sempre sul punto di lacerarsi. Gli occhi, adesso esamino con attenzione gli occhi. Il colore è quello solito, indefinito, sfuggente. Una tonalità che non colpisce, che non affascina, piatta e anonima. Quei pozzi oscuri sono privi di luce, sono spenti, è impossibile cogliere nella loro profondità un guizzo che non evochi spossatezza e estenuazione, un balenio speciale, capace di rapire e di coinvolgere. Bulbi smorti quanto l’anima, separati dal tratto netto del naso che procede dritto e regolare verso il basso, incurante di quella minuscola gibbosità basale posta più in evidenza dal trascorrere del tempo, indifferente ai capillari dilatati che, nella parte distale, conferiscono alla severa appendice cartilaginea un aspetto farsesco, oppure di  malinconica preda di Bacco. Le labbra, non più turgide, non più rosse, ma rilassate e sbiadite, sono atteggiate in modo fisso e rigido in una smorfia sconsolata che invece vorrebbe essere un sorriso. Ai lati di quella bocca avvilita, che non sa più esprimersi, si intreccia una fitta rete di piccolissime rughe, solchi scolpiti dal tempo, grinze tanto innocue quanto definitive, spaccature provocate dalla vita, dalla prolungata e inevitabile esposizione alle intemperie dei sentimenti, degli ardori e delle sofferenze. Il mento, infine, che dire del mento? Nulla, non ho più nulla da dire, perché è giunto il momento di porre fine a questo doloroso tormento, di distogliere lo sguardo dallo specchio.

domenica 17 aprile 2011

L'ESAME



Anche quel giorno, Giorgio arrivò in anticipo. Arrivava sempre in anticipo. Cercò di dominare l’ansia producendosi in alcuni respiri profondi, poi entrò. Nell’atrio era seduta una ragazza, in attesa.
“Ciao. Sei qui per l’esame di Fenomenologia della Politica?” domandò Giorgio, sedendosi.
“Sì” rispose la ragazza, e si scostò leggermente da lui.
Giorgio non ne fu sorpreso. La guardò. Era bionda, ma i suoi capelli apparivano stopposi, privi di vita. Il viso, dai lineamenti sottili, era pallido, esangue. Il suo corpo era di una magrezza spaventosa. Il ragazzo distolse lo sguardo, turbato.
“Tra un po’ toccherà a me, ma non me la sento” cinguettò la giovane.
Giorgio sussultò, colto di sorpresa.
“Come? Vuoi dire che non intendi sostenere l’esame?” chiese.
“No. Pensavo di farcela, ma proprio non ci riesco.”
“È il tuo primo esame diretto?”
“Sì.”
“Anche per me. Ed è anche l’ultimo. Voglio dire, ho finito e perciò ci terrei a sostenerne almeno uno. Di quel tipo, intendo. Dicono che per avere un punteggio finale alto sia essenziale.”
“Lo so, ma proprio non ce la faccio. Me ne vado” disse la ragazza. Ora sembrava spaventata.
“Il professor Dotti è così terribile?” incalzò Giorgio.
“No, è bravissimo.”
“Ah! Lo hai mai visto? Di persona, intendo.”
“No, ho assistito alle sue lezioni via ologramma. Mi è piaciuto e allora…” All’improvviso la ragazza scoppiò a piangere, si alzò, afferrò la tavoletta digitale e scappò via.
“Aspetta…” disse il ragazzo. Inutile, lei era già fuori.
Giorgio deglutì, nervoso. Guardò il display luminoso appeso alla parete. Tra poco sarebbe toccato a lui. Si tormentò a lungo i capelli, poi alzò nuovamente lo sguardo e… Scattò come una molla.
“Avanti!” ruggì una voce profonda. Il ragazzo entrò nel piccolo studio. Il professor Dotti era sprofondato in una grossa poltrona. Di fronte a lui c’era un tavolo con il piano di vetro. Indicò a Giorgio una sedia in plexiglass e lo invitò ad accomodarsi. Il docente, piuttosto anziano, aveva sul viso un’espressione bonaria. Giorgio non poté fare a meno di notare le sue folte sopracciglia e alcuni minuscoli e disgustosi peli che spuntavano dalle narici. Ma ciò che colpì il ragazzo fu soprattutto l’odore. Certo, anche prima, quando si era avvicinato – troppo? – alla ragazza anoressica era stato disturbato dalle emanazioni che provenivano dal suo corpo. Ma non aveva osato spostarsi. Per fortuna, l’aveva fatto lei. Ma adesso era diverso. Dal corpo del professore scaturiva un odore pungente, un afrore penetrante che lo disgustava, che quasi gli impediva di respirare. Nessuno, ormai, era più abituato alla presenza di corpi altrui. Cercò di concentrarsi sull’interrogazione.
“Gli iscritti erano cinque, e si è presentato soltanto lei” disse il docente, con voce stanca.
“Come?”
“No, niente. Non importa. Era solo l’amara considerazione di un vecchio e rassegnato professore.” Sospirò. “Comunque, sappia che apprezzo il suo coraggio.”
Giorgio non seppe che cosa rispondere.
“Dunque, iniziamo. Qual è l’elemento che più caratterizza il sistema politico alla fine del secolo scorso e nei primi decenni di quello nuovo? Che cosa accade esattamente in quegli anni?”
Giorgio cercò di raccogliere le idee.
“Aspetti, l’aiuto” disse Dotti, e premette un pulsante. Sulle pareti dello studio fu proiettata l’immagine di un uomo ormai anziano, con il volto carico di fondo tinta e con un falso sorriso abbozzato sulle labbra.
“Il signor B.!” esclamò Giorgio.
“Esatto, mi riferisco proprio a lui. Prego.”
“In quel periodo il sistema dei partiti attraversò una profonda crisi, che rispecchiava la decadenza di valori e di principi della società. Lui seppe interpretare alla perfezione quella congiuntura sociale e fondò il primo dei suoi innumerevoli partiti. Iniziò così a governare e lo fece, a parte qualche breve intervallo nei primi tempi, per quasi trent’anni. I risultati della sua azione di governo furono quasi sempre disastrosi, ma i suoi elettori non sembravano rendersene conto, e continuavano a sostenerlo senza manifestare alcun dubbio, senza mostrare il minimo ripensamento. Una specie di fenomeno di ipnosi – o di narcosi? – collettiva che, tra l’altro, investì tutti gli strati sociali.”
“Bene. Ipnosi collettiva? Sì, mi piace. Il signor B. gode quindi, all’epoca, di un ampio consenso che, in qualche modo, riesce a perpetuare per un lungo periodo, fino alla grande crisi del ’24, giusto?” disse Dotti.
“Esatto, professore.”
“Ma come nasce questo consenso? E, soprattutto, quali sono gli strumenti utilizzati per il suo mantenimento?”
“Beh… all’inizio scaturì attraverso il controllo totale e la manipolazione degli strumenti di informazione, che all’epoca erano costituiti innanzitutto da giornali e televisione.”
“E in seguito?” incalzò il professore.
“Tali mezzi non furono più sufficienti e si dovette ricorrere all’acquisizione” rispose Giorgio.
“L’acquisizione! Un termine che fa parte di un lessico politico ormai superato!” esclamò Dotti.
Giorgio notò che minuscole gocce di saliva si erano depositate sul piano del tavolo, fuoriuscite in conseguenza dell’impeto mostrato dal professore nel pronunciare l’ultima frase. Per un attimo, distolse il capo, schifato. Il docente, tuttavia, non se n’era accorto e proseguì il colloquio d’esame.
“Mi spieghi, che cos’era questa acquisizione?”
“Il signor B. utilizzò le sue immense risorse patrimoniali per acquistare, per così dire, parlamentari eletti in altri schieramenti e, almeno all’inizio, questa soluzione si rivelò vincente. Ma, con il passare del tempo, diventò insufficiente.”
“Perché?”
“Gli schieramenti di minoranza corsero ai ripari. Attraverso severe selezioni riuscirono a individuare candidati assolutamente incorruttibili. La cosa funzionò.”
“E che fa il signor B.? Qual è la sua contromossa?”
“Acquistò gli elettori dell’opposizione. A milioni. A quel punto diventò inutile candidare persone oneste, integerrime. Tanto, non venivano elette.”
“E poi?”
“La crisi di sistema fu inevitabile, con tutte le sue disastrose conseguenze. Si cercò di rimediare privatizzando le istituzioni e la politica, che furono dati in gestione a società esterne, ma i risultati furono piuttosto deludenti.”
“Già. Torniamo un attimo indietro. Abbiamo detto che l’azione di governo del signor B. è stata… sconfortante. Le chiedo: in tutti i campi?”
“No, non in tutti. La gestione fu estremamente incisiva in un campo: quello della giustizia.”
“Che cosa accadde?”
“Il signor B., politico senza scrupoli, privo di etica sia pubblica che privata, amava definirsi come un perseguitato da parte della magistratura. Naturalmente, in ciò non c’era alcun fondamento, i giudici si limitavano a svolgere il proprio dovere. Comunque, decise di intervenire. Fece approvare leggi che prevedevano l’applicazione di sanzioni assai dure in caso di minimo errore da parte del giudice, vero o presunto che fosse tale sbaglio, che andavano dall’immediata destituzione a lunghe pene detentive. Il risultato fu che i giudici ebbero paura e non emisero più sentenze di condanna. Tutti i processi avevano così lo stesso esito: l’assoluzione dell’imputato.”
“Bene. E questa è la goccia che fa traboccare il vaso. Il popolo, finalmente, si risveglia…”
“Se vuole…” iniziò Giorgio.
“No, è sufficiente così. Cambiamo argomento” disse il professor Dotti.
Fece un paio di domande sul fenomeno dei movimenti politici a guida carismatica globalizzata, alle quali lo studente rispose in maniera brillante. Poi, con l’aria soddisfatta, si protese sul tavolo. Giorgio registrò subito il gesto, si irrigidì e indietreggiò con la sedia. Un riflesso involontario.
Il professor Dotti finse di non aver colto la mossa del giovane. Consultò la sua tavoletta digitale. Poi si rivolse allo studente.
“Abbiamo finito. Le rinnovo la mia stima per essersi presentato. Vedo che questo è il suo ultimo esame. Un buon esame. Se lo ritiene opportuno, le farei ancora una domanda. Ci terrei molto ad attribuirle anche la lode.”
Giorgio annuì, compiaciuto. Una lode ottenuta in un esame diretto gli avrebbe aperto una serie di importanti opportunità future. Si augurò che la domanda fosse semplice. Magari proprio quella che lui sperava. Di solito era fortunato.
“Torniamo di nuovo al primo decennio del secolo. È in grado di illustrarmi in maniera dettagliata, ricorrendo a confronti e analogie, quali siano state le implicazioni politiche di quell’importante fenomeno denominato dagli analisti bunga-bunga?”
Giorgio sorrise e iniziò a rispondere.





venerdì 15 aprile 2011

CUORE DI CANE



La mia padrona è una gran minchiona! Ah! Ah! Vi piace la rima? Che c’è, siete stupiti? Se è così, è perché non avete mai incontrato un cane con uno spiccato senso dell’umorismo. E io ce l’ho, sono un gran burlone. Un vero pagliaccio, ma riesco anche a essere serio. In verità, mi sto facendo beffe di voi, perché la mia padrona io la adoro. Che ci crediate o no, è così, ve lo assicuro! Sì, vi do la mia parola, e la parola di un cane è sacra. È oro puro.
D’accordo, lei mi costringe a convivere con un gatto. Un gatto! E femmina, per giunta! Kitty, che razza di nome! Un nome stupido, da gatto. E io odio i gatti! Non sopporto le sue mossettine vezzose, i suoi continui strusciamenti, il suo incessante ronfare. Anche se, lo ammetto, non mi dispiace quando, durante le lunghe serate invernali, Kitty viene ad accucciarsi accanto a me, attirata dal calore del mio pelo. E allora fiuto il suo odore, quell’odore lieve, dolce e quasi impercettibile, quel profumo di libertà. Tuttavia, e sono sincero, io della libertà non saprei proprio che farmene. Io voglio stare con lei, con la mia amata padrona, sempre. Inutile stare a spiegare quanto mi godo le passeggiate. Al mattino e alla sera, noi due soli. Certo, durante quei magici momenti sono sempre un po’ in ansia. Il motivo? Il guinzaglio. Vi sembrerà incredibile, ma io ho una vera passione per il guinzaglio. Mai come in quelle occasioni percepisco quanto sia forte il legame che ci unisce, un legame fatto di corda, ma soprattutto di amore. E mi infastidisco quando, di sicuro per farmi piacere, lei mi scioglie, mi lascia libero. Per non urtare la sua sensibilità, mi sforzo di correre, di allontanarmi un po’, ma subito ritorno accanto a lei, perché lei ha bisogno di me, della mia protezione. A volte mi chiedo se non sia possibile che pure lei indossi un collare simile al mio, invece di reggere il guinzaglio con la mano. Sarebbe più sicuro, per tutti e due, perché dalla mano il guinzaglio può sempre sfuggire. Paura? Paura io? Ma vi rendete conto di quanto sia grosso? No, io ho paura per lei, che si smarrisca e che non riesca più a tornare a casa. Da parte mia, me la saprei cavare senza affanni. So usarlo il mio grosso naso, io! Ma lei? Comunque, legato o non legato, durante le passeggiate qualche sedere di cane riesco sempre ad annusarlo! E ciò mi basta. Quando la mia padrona cammina, dunque, non la perdo mai di vista. Perché? Ma avete visto come cammina? È così buffa! Prima di uscire, si infila le zampe in quelle bizzarre borsette di cuoio – perché quelle sono zampe, anche se lei le chiama in un altro modo – e poi avanza a piccoli passi, a fatica, in modo goffo e sofferto, e io devo sempre aspettarla. Appoggia le zampe a terra! Lascia stare quei trampoli! Ma non avrei mai il coraggio di dirglielo, di farglielo capire, intendo. Le voglio troppo bene e avrei timore di ferirla. Perché lei è sempre così buona e premurosa con me, come tutti gli esseri umani. Non farebbero mai del male a un cane! Chi osa sostenere il contrario – e qualcuno c’è, tra i miei simili – se la dovrà vedere con me! E, badate bene, il sottoscritto non è certo uno sbruffone. Se c’è da menare le zampe e sfoderare le zanne non mi tiro di sicuro indietro! A chi mi riferisco? A quell’insulso di Blek, naturalmente, il cane dei vicini. Pensate, quell’insignificante figlio di un cane sostiene che il suo padrone lo nutre soltanto con avanzi! Che gran bugiardo! A parte il fatto che Blek è più grasso di un maiale, e quindi i presunti avanzi devono essere piuttosto sostanziosi, io posso affermare con certezza che non è così! Io la osservo, la mia padrona, quando mi prepara i pasti. Con grande attenzione. E vedo la cura, e l’amore, con i quali condisce le mie pietanze. So che il cibo migliore è destinato a me, e io non manco mai di apprezzarlo. Lei, invece, pilucca qualcosa, e noto il disgusto che si disegna sul suo bel volto. E allora avrei voglia di dirle: vieni qui, vicino a me, mettiti per una volta, una volta soltanto, a quattro zampe e dividiamo la ciotola, da buoni compagni. Ecco, questo vorrei dirle, ma non mi oso. Perché gli esseri umani sono complessi, indecifrabili, e soltanto noi cani riusciamo, seppure in parte, a smascherarli. Però di una cosa sono certo: so che lei, la mia diletta padrona, non può fare a meno di me, e io di lei. Siamo una cosa sola, e un nostro sguardo è in grado di esprimere tutto l’amore del mondo. E per uno di questi sguardi io sarei disposto a morire. Senza la minima esitazione. Senza alcun indugio. Guardate, io sono un animale burlone, un pagliaccio, come vi ho spiegato, ma vi assicuro che adesso non sto affatto scherzando…

martedì 12 aprile 2011

RICORDI



 
Arrivano all’improvviso, proprio quando non te l’aspetti. Ti sorprendono, ti acchiappano mentre sei sotto la doccia, ti stai vestendo o attendi il bus alla fermata. Mentre mangi o fai l’amore. Oppure quando lavori e credi che l’impegno e la concentrazione possano contribuire a tenerli lontano, a impedir loro di colpirti come una violenta frustata. Ma non è così, lo sai e la tua speranza è vana. O ancora quando sei nel letto, la sera tardi, e tenti inutilmente di prendere sonno, di sprofondare nell’oblio d’ovatta, nel nulla permeato di visioni oniriche che ti condurrà a vivere, forse, un’altra giornata. E ti scopri ancor più fragile, più esposto, vulnerabile e indifeso.
Quando capita, e capita spesso, sempre di più via via che si accumulano le albe e i tramonti dell’esistenza, provi a scacciarli, ma si tratta di uno sforzo immane, disperato. L’esito è sempre lo stesso: soccombi, sconfortato. E loro arrivano a frotte, insidiosi, insistenti; giovani, meno giovani, vecchi e antichi. Più sono datati, più sono pericolosi, perché si presentano precisi, nitidi, rivissuti e rielaborati innumerevoli volte, ormai scolpiti nella pietra.
Alla fine, quando proprio non ce la fai più, ti arrendi, rassegnato e stanco, addirittura esausto. E permetti loro di colpirti, non offri più alcuna resistenza, non lotti più. Crolli, schiantato da colpi poderosi che ti mozzano il respiro, ti fanno boccheggiare, alla disperata ricerca di un refolo d’aria, che non trovi mai.
Allora ammaccato, ferito e distrutto, aspetti.
Aspetti finché non se ne vanno.
Se ne vanno. Torneranno, prima o poi, gli stessi o altri ancora, ma per ora se ne vanno.
Ti guardi dentro, perché è dentro che ti hanno colpito, ti hanno frantumato, e ti accorgi che la tua essenza è comunque sopravvissuta, come tutte le altre volte, come sempre. Sei diverso, ma sei salvo. Perché i ricordi non uccidono, tormentano.




domenica 10 aprile 2011

IL VERO CORONA



“Il vero Corona sono io!” Con queste parole spesso esordisce Mauro Corona quando incontra i suoi sempre più numerosi lettori. Scrittore, è vero, ma anche ex-bracconiere e cavatore di pietra, nonché bevitore, boscaiolo e apprezzato scultore del legno. Corona vive a Erto, in Friuli, il paese ripido, scosceso, dove tutto scivola verso il basso. Il paese che, nell’autunno del 1963, fu spazzato via dall’acqua tracimata dalla diga del Vajont, dopo che una enorme frana precipitata dal monte Toc aveva occupato l’invaso artificiale. Le vittime di quella tragedia furono più di duemila, interi paesi furono inondati e distrutti e in seguito ricostruiti. Ma nulla fu più come prima. La natura aveva cercato di riprendersi il suo spazio, quello spazio che gli era stato sottratto dall’uomo, impegnato soltanto a soddisfare le sue brame di ricchezza e di falso benessere, incurante di avere alterato un equilibrio che deve sempre esistere tra l’essere umano e l’ambiente in cui vive.
Corona, a suo modo, è dunque un sopravvissuto e, come tutti i testimoni e i superstiti di immani sciagure, ha sviluppato negli anni un duplice atteggiamento: da un lato si è sentito in colpa perché in questi casi tutti sono responsabili, anche chi, come nel suo caso, all’epoca era solo un ragazzo. Dall’altro si è trasformato nel custode della memoria, del ricordo di tempi, di fatti e persone ormai scomparse, di un modo di vivere che non potrà ritornare. Di un mondo e di una cultura, quelli della montagna, spietati e crudeli ma comunque meritevoli di rievocazione. Allora hanno preso forma i suoi libri. È nata così la saga di Erto, di quel paese ripido e scosceso, come non manca mai di ripetere lo stesso scrittore, nel quale è difficile vivere perché tutto tende a scorrere verso valle: cose, uomini, alberi, animali e sentimenti. Un paese che ormai non c’è più, che esiste soltanto nella memoria di chi non ne rinnega il ricordo. Il mondo di Mauro Corona è duro, feroce, spesso brutale, com’era la vita tra quelle valli, all’ombra delle alte e impervie montagne. Ma, spesso, è anche poetico, in modo struggente. Difficili da scordare i protagonisti della sua narrazione: abeti, carpini, uccelli, volpi e martore; Zino e il suo bastone maledetto, Neve, la dolce e magica ragazzina che compie miracoli e che si scioglie al sole quando incontra l’amore, Santo della Val, il re dei boscaioli. E poi ci sono le opere più intime, più personali, nelle quali l’autore mette a nudo se stesso, le sue debolezze, i suoi problemi con l’alcol, la sua mai celata misoginia. Insomma, le sue fragilità di uomo tutt’altro che perfetto, ma umile.
Tra tutti i lavori dello scrittore friulano vorrei citare e raccomandare in particolare “Fantasmi di pietra”, una autentica Spoon River moderna, dei nostri giorni. Gli altri, invece, li lascio scoprire a voi.

sabato 9 aprile 2011

MAGNÍN AL CIMITERO



“Stamattina, di buon'ora, è passata Pina d’l Ciuch ed era tutta spaventata” disse Albino, l’oste.
La donna aveva ereditato lo stranome dal padre, che era stato un grande bevitore, e per questo stimato e rispettato da tutto il paese.
Dalla zona buia del locale si udì la voce di Dolfo.
“Spaventata? Di sicuro aveva già fatto il pieno!”
“No” riprese Albino. “Ha comandato un vino chinato per ripigliarsi ma ha detto che era il primo della giornata. Era stata al cimitero, a portare i fiori al suo povero Fernando, e aveva visto una roba strana.”
“Che cosa?” domandò Dolfo, curioso.
“Ha detto che ha notato qualcosa muoversi dentro ai nuovi loculi, quelli in costruzione, e allora è scappata via di corsa. Per poco non le prendeva un colpo!”
L’osteria di Albino era del tutto particolare. Da un lato c’era l’edicola mentre dall’altra parte si trovava il banco della mescita, di fronte al quale erano disposti alcuni tavolini. Uno era sempre occupato: mattino, pomeriggio e sera. Da Magnìn e la sua banda.
“Sarà stata una bestia” disse Giors.
“Impossibile” replicò l’oste. “Pina ha detto di aver visto una scarpa muoversi, e le bestie non portano scarpe.”
“Al giorno d’oggi può essere di tutto!” sentenziò Luigino.
I suoi compagni di bevuta annuirono all’unisono, poi portarono il bicchiere alle labbra e ingollarono una robusta sorsata di rosso. Tutti, tranne Luigino. Lui beveva solo liquore alla prugna.
Dolfo picchiò un gran pugno sul tavolo. L’oste sobbalzò, gli altri invece rimasero impassibili.
“Dolfo, che c’è?” domandò Albino, allarmato.
“Niente, così” rispose il corpulento camionista.
Poi ci fu un lungo silenzio.
“Andiamo a vedere” esclamò all’improvviso Magnìn. E si alzò in piedi.
“Dove? Al cimitero? Vengo anch’io!” disse Matasèt, entusiasta.
“Non adesso, stanotte. Adesso vado a casa, per la cena, altrimenti mia madre mi rompe i coglioni.”
“A mezzanotte il cimitero è chiuso” disse Giors, il più saggio della compagnia ma pure lui gran bevitore.
“Salto il muro” disse Magnìn.
“No” affermò Abino. “Pasquale non chiude mai. Dice che tanto i morti non scappano.”
“Ormai ho detto che salto il muro e salto il muro” ribadì torvo Magnìn.
L’oste si strinse nelle spalle. Sapeva che era impossibile far cambiare idea a quell’uomo. Nessuno c’era mai riuscito.
Tutti in piedi, gli amici scolarono di gusto l’ultimo bicchiere, poi uscirono.
Magnìn si diresse verso la moto. Si sedette a cavalcioni del mezzo, poi afferrò il serbatoio con le due mani e iniziò a scuoterlo forte. Si percepì un lieve sciabordìo.
“È quasi asciutto. Questa beve più di me ma fino a casa ci arrivo. Albino, mi daresti il giornale?”
“Pronti” disse l’oste. “Ti do il mio. Che cosa vuoi vedere? Non l’ho ancora letto ma…”
Magnìn lo afferrò, lo piegò in due e lo infilò sotto la camicia.
“È per l’aria” spiegò. Poi indossò enormi occhiali da saldatore, si legò al collo un fazzoletto rosso e cominciò a trafficare con la leva della messa in moto, scalciando come un matto.
Nel frattempo, Matasèt si guardava attorno, smarrito.
“Non trovo più la moto” disse con la sua voce sottile, da vecchio bambino. Allora si infilò due dita in bocca e iniziò a fischiare.
“Che fai?” domandò Dolfo.
“Provo a chiamarla” rispose Matasèt, imperterrito. “Con il cane funziona.” E continuò.
Dolfo scosse il capo, sconsolato.
“È tedesca?” chiese Luigino.
“Che cosa?” disse Matasèt.
“La tua moto, è tedesca?” ribadì Luigino.
“È una Negrini, non ti ricordi?”
“Allora non funziona, puoi pure andare a casa a piedi.”
“Ah! Grazie, Luigino” disse l’altro e si incamminò di buon passo, dopo essersi abbottonato il giaccone. Era molto magro e aveva sempre freddo. Neppure il vino riusciva a riscaldarlo.
“Perché, vuoi dire che se era tedesca…” iniziò a dire Giors, stupefatto, rivolgendosi a Luigino. Albino lo bloccò con uno sguardo eloquente.
La moto di Magnìn non ne voleva proprio sapere di partire. Allora il figlio dello stagnino iniziò a spingerla. Dopo una breve corsa balzò sulla sella, di lato, proprio come sedevano le donne, con tutto il suo peso. Dallo scappamento uscì un fumo denso e nero e la moto prese l’abbrivio scoppiettando. Magnìn, imperturbabile, proseguì la corsa rimanendo in quella posizione tutt’altro che comoda per la guida.
“È partita” sentenziò Luigino. Tutti annuirono, compunti. Tutti, tranne Dolfo, che era scivolato a terra e stava già russando. Dolfo aveva sempre la sbornia torpida.

Arrivarono al cimitero che era da poco passata la mezzanotte. Poco prima di raggiungere il piazzale, Magnìn e Matasèt spensero fari e motori e proseguirono a ruota libera, in silenzio.
Faticarono un po’ a issare le moto sui cavalletti. Era buio pesto, ed entrambi avevano già bevuto parecchio. Magnìn frugò a lungo nella sacca del veicolo e alla fine estrasse una grossa catena e un lucchetto. Si diresse verso il cancello del cimitero, passò la catena, inserì il lucchetto e lo chiuse. Poi si gettò la chiave dietro le spalle, nel prato.
“Domani mattina come farà Pasquale a entrare?” chiese Matasèt, perplesso da tutta quell’operazione.
“Con la sega da ferro” disse Magnìn. L’altro annuì, soddisfatto per la risposta.
“Così non mi viene la tentazione di passare dal cancello” spiegò ancora Magnìn. “Allora, tu mi aspetti fuori, io salto dentro e vado a vedere.”
“Perché non ti togli gli occhiali scuri? Tanto è buio!” domandò l’amico.
“E tu ci vedi qualcosa, che sei senza occhiali neri?”
“No.”
“Bene. Allora li tengo.”
Magnìn si diresse di nuovo alla capiente sacca della moto. Stavolta tirò fuori un corda. Ne legò un capo a una piccola betulla che cresceva proprio vicino all’alta recinzione del cimitero. Poi lanciò l’altro capo oltre il muro.
“Perché non l’hai legata all’altra pianta? Mi sembra più robusta” chiese Matasèt, aguzzando gli occhi.
“Guarda che qui di pianta ce n’è una sola.”
“Ah! L’ho detto a mia madre che il vino che abbiamo bevuto stasera era un po’ grosso. Ma quella non mi vuole mai dare ragione.”
Magnìn si avvicinò al muro e cominciò a tastarlo con le mani, alla ricerca dei giusti appigli e carcando di individuare piccole cavità. Indossava un giubbotto di pelle, i pantaloni da lavoro e leggere scarpe di corda. Di colpo, si aggrappò alla parete e iniziò a salire, sicuro. Sembrava un gatto. In pochi istanti fu sul culmine. Aiutandosi con la fune, si calò dall’altra parte. Una volta a terra, andò verso i loculi in costruzione, inciampando più volte nelle lapidi e imprecando a bassa voce, per non disturbare i morti. Giunto finalmente sul posto, accese la macchinetta a benzina e cominciò a esplorare i loculi, che erano ancora tutti privi della lastra di copertura. A un certo punto notò un paio di scarpe che quasi spuntavano da una delle nicchie. Si avvicinò e le annusò. Puzzavano, ma come puzzano le scarpe dei vivi. Vide che in quelle grosse e consumate calzature erano infilate due gambe. Ficcò la testa nel vano di cemento e vide anche il resto. E riconobbe quell’uomo. Si trattava di Notu Simmia, una specie di vagabondo che, pur possedendo un’abitazione, seppure misera, preferiva dormire all’aperto. In quel periodo non faceva ancora caldo, e il vecchio aveva scelto quel luogo più riparato. Notu stava ronfando alla grande. Magnìn non lo disturbò. Fu spiaciuto di aver buttato via la chiave del lucchetto, il vecchio era prigioniero all’interno del cimitero. Pazienza, pensò, lo avrebbe liberato Pasquale, il custode, quel poveretto che aveva la disgrazia di avere un figlio che non beveva. Appoggiò sul bordo del loculo alcune sigarette e dei fiammiferi, sicuro che il mattino dopo, al risveglio, Notu avrebbe gradito. Peccato non aver portato anche un quartino di rosso. Avrebbe rimediato pagando da bere al vecchio la prima volta che si fossero incontrati da Albino. Magnìn, soddisfatta la curiosità, e pure un po’ deluso, tornò indietro. Giunse di nuovo in prossimità del muro di cinta. Dopo un po’, riuscì a rintracciare la corda e vi si aggrappò, issandosi. Non tenne però conto che il suo peso fece incurvare la sottile betulla, sempre di più, finché l’albero non si tese come un arco. Appena arrivato in cima, il malcapitato fu scagliato con violenza oltre il bordo. Non emise il minimo suono.
Matasèt, che si era seduto con la schiena appoggiata alla recinzione, vide una grossa ombra scura che lo oltrepassò, volando. Subito pensò fosse un pipistrello, ma era troppo grande e quindi lo escluse. Poi si ripromise di non bere mai più, ma sapeva che quello era un impegno impossibile da mantenere. Alla fine comprese. Era Magnìn! Considerò che il suo amico aveva fatto un volo incredibile e che adesso si trovava da qualche parte in mezzo al prato. Da buon bevitore non perse la calma. Si frugò in tasca e prese un pacchetto di sigarette, di quelle senza filtro. Ne tirò fuori una, la lisciò a lungo, la inumidì con la saliva e poi la accese. Aspirò una profonda boccata. Era inutile andare a vedere, correre a cercare Magnìn. Se era morto, amen. Oltretutto sarebbe anche stato fortunato, si trovava già vicino al cimitero. Se invece se l’era cavata, e Magnìn se la cavava sempre, si sarebbe fatto vivo lui stesso. Passarono alcuni minuti, poi Matasèt percepì uno scatto metallico e, proprio in mezzo al prato, scorse una debole luce. La brace di una sigaretta. Allora si alzò in piedi.
“Magnìn” gridò. “Che cosa hai combinato? Hai svegliato i morti?”
“No, stai tranquillo che dormono. Anzi, russano addirittura.”