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domenica 27 marzo 2011

HABEMUS PAPAM



È notte e piazza San Pietro è stracolma di gente. Una vera moltitudine, in spasmodica attesa di una fumata bianca. È così da quasi tre mesi, da quando ha avuto inizio quell’interminabile conclave. I fedeli, convinti di dover aspettare ancora a lungo, con il passare dei giorni si sono organizzati: con coperte, sacchi a pelo e rudimentali tende. Per fortuna il clima è mite, l’estate è arrivata in anticipo. Uomini, donne e bambini pregano alzando gli sguardi al cielo, ma sempre tenendo d’occhio il sacro fumaiolo.
A un tratto un brusio scuote la folla accalcata. Subito si trasforma in un boato, poi in un potente ruggito. È fumata bianca! Finalmente.
All’interno dei Sacri Palazzi, due cardinali sono reduci da quell’interminabile clausura. Sono stanchi, provati, e anche un po’ tediati. Sono stati sottoposti a una prova lunga, faticosa e tormentata.
“È finita! Credimi, non ce la facevo più!” dice il primo.
“Sia ringraziato il Signore! Alla fine, ha illuminato le nostre menti!” risponde l’altro.
“E tu chiami illuminazione tre mesi di continui litigi? E la gazzarra dell’altra sera? Per poco quei due venivano alle mani!”
“Non sempre le vie del Signore sono semplici da percorrere. Spesso sono colme di ostacoli, ma noi li abbiamo oltrepassati e abbiamo superato la prova.”
“Ho tanta nostalgia di Teresa” dice il primo, con lo sguardo sognante.
“Eh?” risponde sorpreso l’altro. Poi ricorda quella storia, di cui tutti mormorano. Si stupisce e si imbarazza. Il lungo periodo trascorso insieme, giorno e notte, evidentemente ha liberato le inibizioni, ha favorito la confidenza. Tuttavia, colto da improvviso pudore, cerca di cambiare discorso.
“Pensa che io non  vedo l’ora di tornare a giocare” dice.
“Anche tu sei un patito della Play?”
“Certo! E ho scoperto che è un passatempo piuttosto diffuso tra noi cardinali!”
“Come te la cavi con Giuda‘s Rebirth?”
L’altro sorride, prima di rispondere.
“Mai superato il terzo livello! Ma adesso…”
“È un po’ blasfemo, vero?”
Altro sorriso.
“Un pochino…”
“Il nuovo Papa di sicuro non approverebbe” dice l’altro, assestandogli una gomitata partecipe.
“Quello? Non si è neppure reso conto di quanto gli è accaduto! Ha avuto una fortuna incredibile. Se non ci fosse stato il muro contro muro tra noi e gli africani, non avrebbe avuto la minima possibilità!”
“Già, è vero. Sarà un pontificato debole, ma non c’era alternativa, Eravamo tutti sfiniti.”
“Il Papa della spossatezza! Dovremo indirizzarlo, guidarlo, consigliarlo…”
“Storie! Dovremo imporci e basta! Deve l’elezione a noi e sarà costretto a sdebitarsi.”
“Il cardinale Martiri ha un carattere difficile…”
“Sì…”
In un’altra ala dell’immenso edificio, il nuovo Papa è alle prese con il sarto.
“Sua Santità, per quale motivo non vuole indossare questi paramenti? Le assicuro, sono elegantissimi. Non si preoccupi se sono un po’ abbondanti, ma lei ha un fisico così snello! Comunque, se mi concede cinque minuti, con l’aiuto dei miei assistenti provvederò a sistemare tutto.”
Il famoso stilista De Donnis appare costernato. Non si aspettava un simile rifiuto. È nervoso, e continua a volteggiare, senza perdere la sua innata grazia, attorno al pontefice, agitando le mani ben curate.
Il Papa è assorto, concentrato. Il suo viso lungo e scavato esprime profonda sofferenza. Apre una borsa ed estrae qualcosa.
“Indosserò questo” dice.
“No!” geme il sarto. La sua voce è stridula.
Dopo un po’, il camerlengo si affaccia al balcone. L’annuncio che tutti stanno aspettando finalmente arriva.
“Annuntio vobis gaudium magnum! Habemus Papam! Eminentissimum ac reverendissimum Dominum, Dominum Josephum Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Martiri qui sibi nomen imposti Paulus VII!”
Grandi applausi, in attesa di vedere il nuovo Papa. Il quale, però, non si affaccia a sua volta. Dopo alcuni istanti lo vedono uscire dal portone, sulla piazza. E quasi non lo riconoscono, perché indossa un semplice saio. Sul petto scarno porta un piccolo crocifisso di legno. Cammina lentamente, e si dirige verso la folla entusiasta. La gente, in delirio, lo circonda, lo abbraccia, si richiude su di lui. Si sente un unico, enorme fragore.
Quando la folla si ritrae, del nuovo Papa non è rimasto nulla, se non un misero saio stracciato adagiato sul selciato millenario.



giovedì 24 marzo 2011

CELLULARI



“Pronto?”
“Ciao, sono io. Dove sei?”
“Ciao, sono qui.”
“Dove?”
“Qui, in mezzo alla piazza.”
“Ah! Bene. Ascolta, ti ho chiamata per…”
“E tu?”
“Come, scusa?”
“Ho detto tu…”
“Eh? Io cosa?”
“Tu, dove sei?”
“Come, dove sono? Sono a casa.”
“A casa? E allora perché mi chiami con il cellulare?”
“Non ti ricordi? L’offerta…”
Ah! Sì, è vero. L’offerta.”
“Si risparmia…”
“Scusa, non me lo ricordavo più.”
“Ascolta…”
“Su, dimmi.”
“Dove sei adesso?”
Silenzio.
“Sono sempre qui. Cioè, no. Mi sono spostata di qualche metro. Sai, sto camminando.”
“Ah! Ho capito.”
Risata.
“Perché ridi?”
“Stavo pensando… Più stiamo al telefono più mi ricarico.”
“Sul serio? Ti rilassa?”
“Ma no! Che dici? Sei scemo? Mi riferivo sempre all’offerta.”
“Uh? L’offerta? Allora vale la stessa cosa anche per me?”
“Assolutamente no! Sei tu che hai chiamato! Sei sempre il solito, aderisci alle promozioni e poi non ti curi dei dettagli.”
“È vero, hai ragione. Il fatto è che le trovo piuttosto complicate da comprendere.”
“Uff!”
“Sul serio!”
“Ma dove sei?”
Silenzio.
“Come? Te l’ho detto, a casa.”
“Lo so. Intendevo dire, non sei uscito?”
“Non vedo perché sarei dovuto uscire.”
“Così, tanto potevamo parlare lo stesso.”
“No.”
“Che cosa?”
“Ho detto che non dovevo uscire. Oltretutto, sono appena arrivato.”
“Non ho capito. Che cosa hai detto? Non ti sento bene.”
“Ho detto che…”
“Adesso sì! Adesso ti sento. C’è campo!”
“Dove stai andando?”
“Uh? Da nessuna parte. Ora mi sono fermata. Sono sempre in piazza…”
“Sì, me l’hai detto.”
“…ma dalla parte opposta.”
“Ah! Bene, bene.”
“Parla più forte.”
“Più forte? Ma sto urlando! Mi senti?”
“Certo che ti sento. Perché?”
“Nulla, credevo che…”
“Cosa stai facendo?”
“In che senso, scusa?”
“Adesso. Ti stavo chiedendo che cosa stai facendo in questo momento.”
“In questo momento? Sono al telefono…”
Silenzio.
“Aiuto!”
“Che succede?”
“Una tacca! Ho soltanto più una tacca! Si sta scaricando.”
“Ah! Allora ti lascio. Dimmi velocemente ciò che dovevi dirmi.”
“Che cosa?”
“Dimmi perché mi hai chiamato.”
“Scusa, guarda che sei stato tu a chiamarmi.”
“Sei sicura?”
“Certo! Ahhh, sta morendo!”
Silenzio.



lunedì 21 marzo 2011

RADAR E RADIAZIONI



Il ministro della Difesa Ignazio La Russa (quello che scalcia come un mulo impazzito, tanto per intenderci) ieri, nella trasmissione “In mezz’ora” condotta da Lucia Annunziata ha dichiarato: “I nostri caccia sono pronti, e saranno affiancati, nello loro azioni, da velivoli dotati di particolari apparecchiature che servono a disturbare e neutralizzare le radiazioni degli aerei nemici.” Naturalmente l’ineffabile e luciferino ministro si riferiva alle emissioni di onde elettromagnetiche da parte dei radar (onde radio). Il termine utilizzato, anche se in modo (inconsapevole) non del tutto improprio, porta purtroppo lo spettatore medio a considerare che il poveraccio abbia fatto una gran confusione tra la questione libica e il disastro avvenuto nella centrale nucleare giapponese. Ora, questo è ciò che succede quando si affidano incarichi di grande responsabilità a persone del tutto incompetenti. La boria non compensa mai l’ignoranza.  
Il leader della Lega Nord Umberto Bossi, nonché ministro di qualcosa di inesistente, concionando come suo solito durante un incontro con propri sostenitori e riferendosi all’azione militare intrapresa dalla coalizione internazionale nei confronti della Libia, ha detto: “Dobbiamo fare attenzione, altrimenti finiremo, come sempre, con il prenderlo in quel posto.” Al di là del giudizio sull’alto profilo del discorso, un’affermazione da autentico statista, è necessario e doveroso constatare che un governo privo di coesione e di una posizione unitaria su un’importante questione di politica estera è un esecutivo estremamente debole, quasi inesistente, che fa apparire molto fragile il Paese che rappresenta.
Tutte le ulteriori considerazioni in merito appaiono ovvie. E soprattutto tristi.

domenica 20 marzo 2011

SENSI DI COLPA



Ti affretti verso lo studio televisivo. Sei in ritardo. Quando entri, trafelato, ti accorgi che tutti gli altri concorrenti sono già presenti.
“Potevi risparmiarti la corsa” dice un ragazzo. Avrà pressappoco la tua età. Gli altri annuiscono.
“Perché?” domandi, incuriosito.
“Il primo è già entrato, e vincerà lui. Noi rappresentiamo solo il contorno.” Scuote la testa. Appare molto contrariato. Gli altri tacciono.
“Se l’avessi saputo non mi sarei neppure presentato. Ci hanno preso in giro” aggiunge.
“Spiegati. Chi è questo concorrente?” chiedi.
Interviene un uomo di mezza età. Il suo aspetto è molto trasandato.
“Il suo nome non me lo ricordo. Ciò che importa è che si tratta di un assassino.”
“Un assassino?”
“Certo. Tu sei giovane e di sicuro non conosci la sua storia. Molto tempo fa ha ucciso due persone. Durante una rapina, mi pare. È stato in carcere per quasi trent’anni, ed è uscito qualche mese fa. Non è giusto, non dovevano farlo partecipare, noi non abbiamo speranze.”
Rifletti un attimo. In realtà, non sei spiaciuto più di tanto. Sai bene che non avevi alcuna possibilità di vincere. Hai deciso comunque di partecipare, hai aspettato a lungo prima di essere chiamato, che importa come andrà a finire? Il premio ti faceva gola, avrebbe risolto tutti i tuoi problemi, ma eri comunque consapevole del fatto di essere poco competitivo. Pazienza, ci hai provato.
“Speravo proprio di farcela.” Ancora quell’uomo mal rasato e con gli abiti spiegazzati.
“Come?” Quasi trasali.
“Pensate, ho maltrattato mia moglie per anni, e lei invece è sempre stata molto buona con me. Ho abbandonato i miei figli. Chi più di me poteva aspirare alla vittoria?”
“Io” dice a bassa voce un vecchio, seduto proprio accanto a te. Non l’avevi notato, prima.
“Che dici, vecchio?”
“Il chiodo” risponde lui, e poi tace.
“Eh? Quale chiodo?” domanda una donna.
Il vecchio si schiarisce la voce. Si alza in piedi.
“Tra un po’ toccherà a me” dice.
“No, non ancora. Parlaci del chiodo” dici tu.
Lui ti guarda, come se la spiegazione fosse diretta soltanto a te.
“Era incastrato nell’asfalto, però in parte sporgeva.” Silenzio.
“E quindi?” lo esorti.
“Quel giorno un’auto è uscita di strada. Si è schiantata contro un muro e un bambino è morto. Di sicuro quell’auto è passata su quel chiodo, avrà bucato una gomma, il conducente ne avrà perso il controllo per quel motivo. Lo dovevo togliere, quel dannato chiodo. È stata tutta colpa mia.”
Scuoti la testa, incredulo.
“Ma come puoi esserne così sicuro?” domandi.
“Sento che è andata così. Scusatemi, adesso tocca davvero a me.” Esce.
L’ex galeotto rientra nella saletta d’attesa. Sorride soddisfatto.
“Allora, com’è andata?” gli chiedi, prima di tutti gli altri.
“Cinquantadue! Un buon punteggio, vero?”
Cogli la perplessità sui volti dei tuoi avversari. Soltanto uno acconsente. Non è un gran risultato, e lo sai. Ti domandi il perché, ma non sai rispondere.
“Non sempre il pentimento si accompagna al senso di colpa” ti sussurra il ragazzo, sedendosi accanto a te.
“Tu perché sei qui?” ti chiede all’improvviso.
“Ho fatto tutto e niente” rispondi, evasivo.
“Eh? Ho capito, preferisci non parlarne.”
“Mi fa star male” aggiungi.
“Certo, certo.”
Dopo un po’ di tempo il vecchio ritorna. Ha ottenuto, tra la sorpresa generale, un punteggio molto alto. Un risultato che non viene superato da nessuno dei concorrenti che lo seguono.
E adesso finalmente tocca a te. Sei l’ultimo.
Entri, emozionato, nel grande studio ovale. Le luci sono molto forti, il pubblico rumoreggia. Qualcuno applaude, altri fischiano. Cerchi di non pensare a nulla, fatichi a percepire la voce querula del presentatore.
Si avvicinano i due tecnici. Ti fanno accomodare su una grossa poltrona. Ti collegano a una gran quantità di elettrodi e, subito dopo, cominciano a premere una serie di pulsanti. Uno di loro ha gli occhi incollati a uno schermo. Nello studio adesso il silenzio è assoluto. A un certo punto i due uomini in camicie bianco scambiano uno sguardo. Sembrano sorpresi, sbalorditi. Il grande display luminoso posto alle tue spalle si illumina. Senti un boato.
“Record del mondo! È record del mondo! Incredibile! Il primato è stato letteralmente frantumato! Pazzesco!” Il presentatore grida, si agita, invoca gli applausi.
“Novantotto! Novantotto! Un risultato stupefacente! Un’emozione straordinaria!”
Solo adesso ti rendi conto di aver vinto. E sei incredulo. E solo adesso pensi veramente al tuo immenso senso di colpa, che quegli strumenti hanno misurato con tanta accuratezza, anche se per gioco. Tu sai bene qual è la tua vera colpa. Quella di essere nato. Quella di esistere. E sai bene che tu quella colpa l’hai sempre avvertita. Gli altri no.


venerdì 18 marzo 2011

SINDROME CINESE



Toshiro Kato appoggiò la bicicletta allo steccato. Si lisciò i radi capelli, ancora neri nonostante l’età, sgranchì le giunture di gambe e braccia e si diresse all’ingresso del parco. Sul suo viso minuto e rugoso era disegnato un sorriso soddisfatto.
Era l’inizio di aprile, ed erano le prime ore del mattino, quelle che lui preferiva, ma l’enorme oasi protetta era già affollata: anziani pensionati come lui, tante coppiette e numerose scolaresche provenienti da tutto il Giappone.
Nonostante la presenza di tutte quelle persone, l’atmosfera in quel luogo era del tutto particolare. La gente camminava lentamente tra gli ampi viali, i pochi che parlavano  lo facevano a bassa voce, sussurrando, e anche i bambini frenavano senza sforzo l’abituale e naturale esuberanza. L’insieme era certamente surreale. Il parco, nel suo complesso, sembrava un immenso tempio a cielo aperto.
Toshiro Kato si fermò a osservare, nel mezzo di un laghetto, i fiori di loto che si protendevano, con le corolle ancora aperte quasi del tutto, dai loro steli sottili e lunghissimi. Ma il vero spettacolo di quelle giornate di primavera era rappresentato dalle migliaia di sakura in fiore. I ciliegi, così rigogliosi, così gonfi di candide gemme appena sbocciate, perpetui simboli di un nuovo inizio, di una nuova rinascita. Una rifioritura che, pur tra grandi sacrifici ed enormi sofferenze, si era ormai concretizzata ovunque, nel Paese, e un significativo esempio era, in quel momento, proprio di fronte agli occhi del vecchio.
Il parco di Fukushima, l’enorme, infinita distesa verde e fiorita, era uno tra i più incantevoli dell’intero Giappone. Tuttavia, ogni volta che si trovava ad ammirare quella meraviglia, subentrava sempre nell’anziano Toshiro Kato un sentimento di amarezza, una sensazione di tristezza e di dolore che proveniva dal passato.
Perché lui sapeva come era nato quel paradiso. Ed era orgoglioso che suo nonno Akiro fosse stato, seppure in maniera inconsapevole, tra gli artefici di quell’opera monumentale. Suo nonno, uno dei tanti, troppi, eroi di Fukushima. All’epoca dell’incidente suo nonno era molto giovane, un ragazzo pieno di entusiasmo e di voglia di vivere. E di senso del dovere e spirito di sacrificio.
Il disastro,  la terribile sciagura che aveva devastato la centrale nucleare, aveva allarmato il mondo intero. Il suo popolo aveva reagito, come sempre di fronte a simili avvenimenti, con grande dignità e compostezza, ma quel comportamento non era stato sufficiente per rimediare in modo rapido alle tremende conseguenze di quella inaspettata catastrofe.
I reattori, colmi di tossico combustibile nucleare, erano impazziti, ed erano sfuggiti a ogni controllo. Per giorni si erano avvicendati, attorno a quei mostri imbizzarriti, piccole squadre  di volontari per tentare di raffreddarli, di ricondurli alla ragione. Tutto era stato inutile. Il livello delle radiazioni, invece di diminuire, era aumentato sempre più. Venefiche nubi, colme di particelle radianti, si innalzavano in quei giorni sciagurati dalle rovine contorte della centrale.
Intere città furono evacuate, e il panico si diffuse sempre più tra la popolazione. E si estesero, inesorabili, gli effetti della contaminazione, immediati e a lungo termine.
Toshiro Kato, pensando a ciò, osservò la sua mano destra, quella con sei dita. In fondo, rifletté, era stato fortunato. La sorte, così perfida con tante altre persone, con lui era stata invece magnanima. Aveva aggiunto, anziché privare. In quel momento ripensò alla bizzarra forma delle orecchie del suo vecchio amico Misho e ridacchiò tra sé. Ma subito la sua espressione ridivenne grave. E pensò al sarcofago. Perché alla fine si optò per quella soluzione, l’unica possibile.
Si decise di annegare l’incubo radioattivo in una immensa colata di cemento. Ma si doveva fare presto, il fattore tempo era fondamentale. Allora collaborarono tutte le nazioni del mondo. Era in gioco la sopravvivenza dell’intera umanità. Affluirono, con una incredibile rapidità, mezzi e risorse, furono impiegate le più moderne tecnologie. Mancavano però gli uomini disposti al sacrificio estremo, chi avrebbe dovuto immolarsi per la salvezza del genere umano.
I suoi compatrioti compresero subito che toccava a loro. Si formarono squadre di volontari suicidi, tutti giapponesi. I nuovi kamikaze. Tra loro c’era sua nonno. Il vento divino riprese così a soffiare, per una buona causa. Gli eroi portarono a termine la ciclopica impresa in un tempo incredibilmente breve. Pochi però ne videro la fine. Il sarcofago di calcestruzzo, dalle dimensioni di centinaia di piramidi, di decine di enormi dighe, fu finalmente posato e neutralizzò il venefico soffio atomico.
Toshiro Kato, che adesso si sentiva stanco, si sedette su una panchina. Un bambino, timoroso, gli porse un cenno di saluto. Lui ricambiò sorridendo. Notò con piacere che quel bambino aveva forme perfette. Come quasi tutti, ormai. Il vecchio tornò alle sue considerazioni, quelle di sempre.
Il sarcofago era troppo pesante e, poco alla volta, cominciò a sprofondare, portando con sé, nelle viscere della terra, il suo carico di morte e distruzione. La vecchia area su cui sorgeva la centrale nucleare, dopo alcuni anni, ridivenne utilizzabile. Il livello di radioattività era tornato a un livello normale. Si decise così di creare il parco, a duraturo ricordo di quei tragici eventi.
Toshiro Kato, a quel punto, si rifece la solita domanda. La stessa di ogni giorno. Quella che lo assillava e tormentava.
Quando, e in quale punto dell’altro emisfero sarebbe emerso quel mostro che, ne era più che convinto, da anni stava perforando la crosta terrestre?
A quel pensiero, a quell’interrogativo senza risposta, si portò le mani sugli occhi. E pianse.  


giovedì 17 marzo 2011

DIETRO LA BANDIERA



Dietro la bandiera, lungo lo stivale,
in questa terra strana, nulla è più normale.

Dietro la bandiera, amato dalla gente,
esorta in modo vano, il vero Presidente.

Dietro la bandiera, voltano le schiene,
con le camicie verdi, con le tasche piene.

Dietro la bandiera, qualcuno ancora sogna,
ma il sogno dura poco, subentra la vergogna.

Dietro la bandiera, c’è poco da celebrare,
trionfa l’egoismo, prevale il malaffare.

Dietro la bandiera, i furbi sono tanti,
pochi sono corretti, e non sono mai davanti.

Dietro la bandiera, il fumo sale alto,
esalazioni e miasmi, chi è puro faccia un salto.

Dietro la bandiera, gli uni contro gli altri,
proprio come in guerra, vincono gli scaltri.

Dietro la bandiera, trionfa l’ignoranza,
chi predica cultura, sta chiuso in una stanza.

Dietro la bandiera, l’attacco alla giustizia,
chi invoca l’uguaglianza, rigurgita mestizia.

Dietro la bandiera, il corpo ha importanza,
come un gran bordello, ammantato d’eleganza.

Dietro la bandiera, è scorso tanto sangue,
il sacrificio inutile, di un patriota esangue.

Dietro la bandiera, regna la confusione,
si parla tanto e troppo, non esiste più ragione.

Dietro la bandiera, avanza una moltitudine,
senza che per questo, se ne faccia un’abitudine.

Dietro la bandiera, è pieno di boriosi,
gente di rispetto, nonché veri mafiosi.

Dietro la bandiera, c’è riguardo per la vita,
ma con le mani giunte, non si assiste la dipartita.

Dietro la bandiera, trionfa il grande stile,
specchi luccicanti, che nascondono il porcile.

Dietro la bandiera, giochi di finanza,
la sporca santità, di una sudicia alleanza.

Dietro la bandiera, sempre più loschi affari,
di cinici predoni, che moltiplicano i precari.

Dietro la bandiera, ogni piccola azione,
non vive vita propria, ma è raccomandazione.

Dietro la bandiera, a ogni nuovo nato,
si insegna la scaltrezza, non il senso dello Stato.

Dietro la bandiera, all’ombra del tricolore,
si spegne la civiltà, muore anche il pudore.




IL PERSONAGGIO



Mi trovo qui, da solo, in mezzo a questa strada deserta. Non so chi sono, come mi chiamo, non ho ricordi. Cammino, disorientato e impaurito, e mi accosto a una vetrina. Mi fermo e scorgo, nel riflesso, la mia figura. Sono alto, snello, e indosso un abito elegante. Avvicino il volto al vetro. Scorgo un viso lungo e scavato, con gli zigomi pronunciati. I capelli sono chiari, radi e corti. Le labbra sono ben disegnate. Non riesco a distinguere il colore dei miei occhi.
Non so che cosa fare, non so perché sono qui. Allora riprendo il cammino, sempre più incerto e confuso. A un certo punto, di fronte a me non vedo più nulla. Le abitazioni sono scomparse, la via si interrompe. Il vuoto assoluto. Colto dall’angoscia, mi fermo e comincio a tremare, in modo convulso, in preda a al panico.
“Scusa.”
Una voce. Sento una voce. Non riesco a capire da dove provenga. Potrebbe essere dall’alto, ma pure dal basso. Mi sembra di impazzire.
“Ti ho chiesto scusa. Mi hai sentito?”
Di nuovo quella voce! Senza pensarci, ubbidendo a un istinto, rivolgo lo sguardo verso il cielo. Rispondo.
“Chi sei?”
“Mi dispiace, non volevo farti del male. Non avevo intenzione di spaventarti.”
“Chi sei?” ripeto. Il mio tono è implorante, una specie di belato.
“Non lo hai capito? Sono io, il tuo creatore.”
“Sei Dio?” domando.
Una risata.
“Sì, per te lo sono. Sono uno scrittore. Sono chi ti ha dato vita, chi ti ha forgiato.”
Non capisco. La disperazione mi assale.
“Qual è il mio nome? Chi sono? Ti prego, dimmelo!”
“Non so qual è il tuo nome, non ci ho ancora pensato. Potrebbe essere Ettore o Giovanni, oppure John Smith. Sai, per me la cosa non ha grande importanza.”
“Dimmi almeno che cosa devo fare.”
“Senti, ti devo confessare una cosa. Sono a corto di idee, e allora ho deciso di creare un personaggio, così, tanto per vedere ciò che poteva accadere. In questo momento però sono pigro e svogliato, non ho voglia di definire meglio le tue caratteristiche. Rassegnati, sei un protagonista sbiadito, un insuccesso creativo della mia fantasia indolente.”
“Ma io ormai esisto!” protesto.
“Lo so, per questo ti ho chiesto scusa. Ascolta, ti andrebbe di commettere un omicidio?”
“Perché?”
“Per conferire un po’ di nerbo a questa storia, altrimenti inconcludente. Ma tu non hai intenzione di collaborare, vero?”
“E va bene, accetto. Fammi diventare il protagonista di un giallo” dico, rassegnato.
Altra risata.
“Certi personaggi sono proprio disposti a tutto! In realtà, stavo scherzando. Non ho alcuna intenzione di scrivere un giallo.”
“E allora, che ne sarà di me?” Mi rendo conto che sto per mettermi a piangere.
La voce diventa seria. Assume un tono grave, dolente.
“Mi spiace, ma sto per cancellare il file.”
“Che cosa?”
“Ti elimino. Poi spegnerò il computer. Ti chiedo di nuovo scusa, so che non puoi capire. Viviamo in dimensioni completamente differenti.”
“Che cosa vuoi dire?” supplico.
“Intendo dire che la tua esistenza sarà stata assai breve. Nessuno si ricorderà di te, del personaggio comune e senza nome. Neppure io. In pratica, morirai senza aver vissuto.”


domenica 13 marzo 2011

LO SFIGATTO



Si trova di fronte un grosso gatto nero.
“Come ti chiami?” gli domanda.
L’altro lo guarda dall’alto in basso. Piega il muso.
“Nerone”.
“Il tuo padrone non ha molta fantasia.”
“Guarda che il colore del mio pelo non c’entra. Nerone è stato un grande imperatore. Così mi hanno detto.”
“Non hanno aggiunto altro?”
“Uh? Che cosa vuoi dire?”
“Nulla, lasciamo stare” dice il piccolo gatto rosso.
“E tu, invece? Come ti chiami?”
“Sai, il mio vero nome non me lo ricordo. Quello che avevo da cucciolo, intendo dire. Tutti mi chiamano Sfigatto.”
Nerone ridacchia divertito.
“Poveretto! Che brutto nome!” dice.
“Ci ho fatto l’abitudine.”
“Ascolta, Sfigatto. Che ne dici di andare a rubare il cibo di Bull?”
“Chi è Bull?”
“Ma dove vivi? Bull è quel grosso e stupido cane che vive in quella villetta, quella gialla proprio dietro l’angolo.”
“Quello che abbaia sempre alla luna?”
“Proprio lui!”
“A me fa schifo il cibo per cani” dice Sfigatto, disgustato al solo pensiero.
“Io invece lo adoro. Sei disposto almeno ad aiutarmi?”
“Certo. Che cosa devo fare?”
“Devi entrare di corsa nel cortile e spostare la ciotola di Bull fuori dalla sua portata. Sai, lui è incatenato. A quel punto entrerò in azione io e gli mangerò tutto il cibo proprio sotto agli occhi. Quel bestione sarà furioso ma non potrà fare nulla se non guardare.”
“D’accordo” dice Sfigatto con scarso entusiasmo.
Poi, con uno scatto improvviso, si lancia nel cortile della villetta. Nerone  lo segue, leccandosi i baffi e pregustando la scorpacciata.
Sfigatto irrompe davanti alla cuccia di Bull, che sta sonnecchiando. Aiutandosi con il muso, sposta di un metro la pesante ciotola ricolma di cibo rivoltante. E scappa.
Nerone si avvicina di soppiatto, a piccoli passi. E inizia a mangiare con ingordigia. Bull si sveglia. Il suo pelo si rizza per la rabbia. Senza abbaiare, dà un violento strattone alla catena, che si rompe. Nerone si avvede del pericolo con un attimo di ritardo e, con la bocca ancora piena, tenta di fuggire. Prima che il gattone nero riesca ad allontanarsi, le fauci di Bull si serrano sulla punta della sua coda, scorticandola. Il cane, sorpreso, si ferma e sputa i ciuffi di pelo. Nerone è salvo e raggiunge Sfigatto oltre la staccionata.
“La mia povera coda! Accidenti, che sfortuna!” si lamenta Nerone.
“Già, ce l’avevi quasi fatta.”
“Sfigatto, che ne dici di andare a topi?” propone Nerone, ancora affamato.
“Topi? I topi mi fanno paura.”
“Sei proprio uno smidollato! Con me non hai niente da temere. Vieni, conosco un buon posto.”
“Va bene” dice Sfigatto, poco convinto.
I due gatti, quello grosso e nero e quello piccolo e rosso, si dirigono verso le rovine di una vecchia casa.
“Lo vedi quel buco? È la tana di un topo. Sono giorni che lo tengo d’occhio e oggi non mi sfuggirà” dice Nerone.
“Sei sicuro?”
“Certamente. Tu dovrai attirarlo fuori, poi ci penserò io. Sai, tu sei piccoletto e quel dannato ratto cercherà di sicuro di aggredirti. È sempre molto affamato.”
“Ho paura” dice Sfigatto.
“Stai tranquillo, non scamperà ai miei artigli” annuncia solenne Nerone e nello stesso tempo sfodera i suoi unghioni affilati.
Sfigatto si rassicura e inizia a camminare, con aria indifferente, proprio davanti all’imbocco della tana.
Di colpo il grosso ratto si catapulta fuori dal buco. Sfigatto emette un miagolio disperato, balza verso l’alto e cerca di arrampicarsi sul muro. Nerone, pronto, entra in azione e si precipita sul topo. Quest’ultimo intravede una massa scura dirigersi verso di lui, si accorge della minaccia mortale, lascia perdere Sfigatto e si lancia verso il suo rifugio. Sfugge per miracolo agli acuminati rasoi di Nerone, il quale infila il muso nella tana e vi rimane incastrato. Dopo alcuni istanti, il gatto nero lancia un urlo angosciante. Poi si stacca e si dirige verso Sfigatto.
“Ahi! Quel demonio mi ha morsicato!” Il suo naso è gonfio e pulsante.
Sfigatto lo guarda con aria di compatimento.
“Ascolta, Nerone. La mia vera passione è la caccia agli uccelli. Perché non saliamo su quel tetto e…”
“No!” lo interrompe Nerone.
“Perché no?”
“Per oggi ne ho avuto abbastanza. Meno male che eri tu quello sfortunato!” dice, risentito.
“Non ho mai detto di essere sfortunato.”
“Uh? Ma… il tuo nome…”
“In realtà mi chiamano così perché porto sfiga agli altri.”
   


venerdì 11 marzo 2011

L'INGIUSTIZIA DELLA RIFORMA



Incerottato, con tono da trionfatore, il Grande Imputato annuncia l’approvazione della riforma costituzionale della giustizia. Tronfio, seduto alla sua sinistra, l’artefice principale della stessa: il ministro Alfano, il servo fedele, il probabile Delfino.
Un cambiamento definito epocale.
Per illustrare le nuove norme, il Primo Ministro si è servito di alcuni semplici disegnini, rispolverando così l’antica strategia da venditore porta a porta da quattro soldi.
Naturalmente, trattandosi di cambiamento della Costituzione, il cammino della sbandierata riforma è assai arduo; la strada, per arrivare al suo pieno compimento, è ancora assai lunga. Non disponendo, l’attuale maggioranza, di una ampia prevalenza numerica in Parlamento, sarà necessaria una doppia approvazione delle Camere, nonché inevitabile il referendum confermativo al termine del percorso. Un referendum che, per sua natura, non richiede un quorum e pertanto soggetto a esito del tutto imprevedibile.
L’opposizione ha prontamente alzato le barricate, e altrettanto negativo e duro è stato il giudizio dei magistrati.  
Le principali novità: la separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, l’istituzione di un doppio CSM, l’obbligatorietà dell’azione penale soggetta all’indirizzo del Parlamento, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile diretta dei magistrati (e non più a carico dello Stato) in caso di dolo o colpa grave, l’utilizzo della polizia giudiziaria secondo modalità stabilite dalla legge e quindi sotto maggiore condizionamento politico.
Quel è il senso generale della riforma? Che cosa si propone di ottenere? In primo luogo si punta a vincolare e intimidire il potere giudiziario, limitandone così l’azione. Si tratta, insomma, di una riforma di casta, tutta a favore del ceto politico e del tutto irrilevante al fine di rispondere ai bisogni dei cittadini, che dovrebbero essere invece i veri fruitori del servizio giustizia.
Non a caso, nel corso della presentazione, al Primo Ministro è sfuggita la frase: “Se tale riforma fosse stata attuata vent’anni fa, non ci sarebbe stata Tangentopoli.” Se ne deduce che la corruzione del sistema dei partiti di allora non sarebbe stata perseguita. Parole tristi ed emblematiche.
Inoltre, è opportuno domandarsi se l’attuale classe politica sia o meno legittimata a mettere mano, in maniera così distruttiva, a una materia così delicata. Che titolo possiedono, i vari Berlusconi (quattro processi in corso), Verdini (plurindagato), Dell’Utri (condannato per mafia), per procedere alla riforma della giustizia?
In conclusione, a che cosa siamo di fronte? All’ennesimo capitolo della politica degli annunci? Un bluff per gettare fumo, creare confusione e distogliere in tal modo l’attenzione dai procedimenti pendenti a carico del Presidente del Consiglio?
In sostanza, la risposta è sì.  



martedì 8 marzo 2011

CAMICIE VERDI



Il conte terminò di scrivere la lettera, posò la penna e asciugò l’inchiostro. La rilesse e annuì tra sé, soddisfatto. Poi udì bussare alla porta.
 “Avanti!”
“Signor conte, ci sono la marchesa Serpentini e un certo generale Giriboldi o qualcosa del genere. Faccio accomodare prima lui?” domandò il segretario.
“No, prima la signora marchesa. Con lei me la sbrigherò in fretta.”
Dopo non più di mezz’ora fu fatto entrare il generale. Il conte era seduto dietro la grande scrivania. Era tutto sudato e il suo viso era congestionato. La marchesa, con gli abiti ancora in disordine, era uscita da un accesso secondario.
“Ehilà Beppe!” esclamò il conte.
“I miei ossequi signor…” Il militare inciampò nello spesso tappeto, si aggrappò a un enorme vaso cinese e lo scaraventò a terra mandandolo in frantumi e riuscì a fermarsi solo afferrandosi al bordo del tavolo da lavoro del conte.
“Mi scusi, non sono molto abituato a muovermi in spazi ristretti, mi trovo più a mio agio sul campo di battaglia, stando a cavallo, s’intende.”
“E perché non sei venuto a cavallo allora?” lo canzonò il conte.
“In effetti ci avevo pensato, ma Camillo…”
“Camillo?”
“Sì, il mio destriero bianco, ho pensato che si sarebbe trovato a disagio sullo scalone del palazzo e quindi…”
“Lasciamo stare. Parliamo di faccende serie, piuttosto. Sei stato a Londra?”
“Sì, e ho incontrato il nostro amico.”
“Non è mio amico, l’ho spedito io in esilio, ricordi?”
“Certo, signor conte. Comunque l’ho trovato in buona salute, circondato di discepoli come sempre, e come sempre in gran vena di cospirare.”
“Già, il vecchio è il re delle congiure e delle macchinazioni. Come ben sai, io e lui non la pensiamo esattamente allo stesso modo, tuttavia le circostanze impongono di unire le nostre forze, e tu sarai il nostro strumento, il nostro grimaldello.”
“State pensando a qualche grossa rapina?” chiese il generale, titubante.
“Ma che dici? Il nostro progetto è un altro, ed è ben più nobile: unire l’Italia!”
“Tutta?”
Il conte sorrise, un sorriso perfido e beffardo.
“Questo è ciò che ha nella testa il vecchio. La mia idea è un po’ differente. Ma so che le strategie politiche non sono il tuo forte, tu sei un valoroso combattente, e ti dovrai occupare esclusivamente di operazioni militari e di nient’altro.”
Bussarono nuovamente alla porta. Il segretario infilò la testa nello studio.
“Signor conte, c’è la baronessa Fortini.”
“Dille di aspettare.”
“Sta scalpitando…”
“Dieci minuti di pazienza e ci penserò io a calmarla.”
“Come vuole, signor conte.”
“Uff! Quante scocciatrici. Finiranno con il prosciugarmi del tutto. Torniamo a noi, caro Beppe.”
“Se ho ben capito, niente Repubblica?”
“Che ti importa? Re o Repubblica per te è lo stesso, no? A te basta combattere e ricoprirti di gloria e incassare il compenso pattuito. Dico bene?”
“Certo signor conte. Però mi spieghi una cosa: se vincesse la Repubblica chi comanderebbe?”
“Vedi? Finalmente ci sei arrivato! Comanderebbero tutti e nessuno, quindi meglio il Re.”
“Mi ha convinto. Possiamo rivedere un attimo il suo piano?” domandò il generale.
“Sì, ma facciamo in fretta. Non vorrei che la baronessa Fortini diventasse troppo impaziente.”
“Lei è sempre il solito sciupafemmine, proprio come il Re!”
“Hai ragione, caro Beppe, tuttavia tra lui e me c’è una differenza fondamentale: io comando e fotto, lui fotte soltanto.”
Il viso del generale si fece paonazzo.
Dopo quell’incontro segreto tra il conte e il generale trascorse un po’ di tempo, un periodo che fu ricco di rilevanti avvenimenti. Finché un giorno…
“Signor conte!”
“Entri, segretario. La duchessa Lancillotti non è ancora arrivata?”
“Eh? Sì, ma l’ho mandata via.”
“Come?” sbraitò il conte.
“Mi ascolti, signor conte. Sono arrivate notizie da giù, e non sono affatto buone notizie!”
Il conte assunse un’espressione grave.
“Chiuda la porta e si accomodi. E mi dica tutto, senza nascondere nulla, mi raccomando.”
“D’accordo, come vuole lei. Il suo generale ha avuto grossi problemi già alla partenza.”
“Quali?”
“Le divise. C’è stato un deplorevole errore. Il fabbricante reale si è sbagliato: ha prodotto camicie di colore rosso invece che verde. Ormai era tardi per rimediare, e i mille soldati sono partiti indossando quelle.”
“Maledizione! E la bandiera? La mia bella bandiera verde con l’effigie del Sole delle Alpi?”
“Quella c’era, ma il generale ha ritenuto di non doverla portare con sé e ha preso un drappo qualunque.”
“Perché?”
“Ha detto che non era intonata con le camicie. Come dargli torto?”
“Pautasso, ma che sta dicendo?” Il conte era furibondo.
“Mi scusi, signor conte, ma mia madre aveva un laboratorio di sartoria e…”
“Non mi interessa! Vada avanti! Si sbrighi!”
“Subito dopo la partenza le imbarcazioni sono incappate in una tempesta, che si è protratta per diversi giorni. Non è stato assolutamente possibile sbarcare a Livorno, come previsto dal piano originario.”
“Come? Non sono sbarcati a Livorno? Dalla Toscana dovevano risalire e conquistare tutto il nord dell’Italia, regno di Savoia a parte naturalmente, e dar vita così al mio sogno, la grande Padania! Roma ladrona e tutto il resto del sud, quell’ammasso inutile di ciottoli e sabbia se li poteva tenere quel cornuto di Mazzini!””
“Purtroppo non è andata così. Si calmi però, signor conte, o si dovrà ricorrere a un salasso. Lo sa che ha il sangue grasso…”
“Continua!”
“Alla fine di tutte le peripezìe, sono sbarcati a Marsala.”
“Marsala? E dov’è? In Africa?”
“No, è in Sicilia. Il generale e i ragazzi erano terrorizzati, hanno iniziato una fuga precipitosa, sparando all’impazzata.”
“E poi?”
“Sono riusciti ad arrivare a Reggio di Calabria, ma lì è andata ancora peggio.”
“Per quale motivo?”
“Sembra che gli abitanti del luogo siano molto strani e il nostro esercito ha avuto ancora più paura.”
“Si tratta di esseri umani?” domandò il conte, ormai in preda alla frenesia.
“Pare di sì, ma non c’è certezza assoluta. Comunque il generale ha continuato la sua corsa lungo tutto lo stivale, sempre più in preda al panico, ma a quel punto è accaduta una cosa incredibile.”
“Parla!”
“Tutte le popolazioni, vedendo apparire quei mille forsennati, si sono impaurite ancor più di loro, e si sono arrese.”
“Si sono arresi tutti?”
“Tutti, compreso il Papa.”
“E adesso?”
“Il generale e il suo esercito stanno tornando qui. L’Italia è libera e una sola.”
“L’Italia è libera? Unita? E che ce ne facciamo, Pautasso?”
“Boh!”