Powered By Blogger

lunedì 28 febbraio 2011

L'ORCO



Mi guardo allo specchio e cerco di capire se sono cambiato.
Osservo con attenzione il mio viso riflesso. Noto la pelle smorta, gli occhi arrossati, i capelli arruffati e un impercettibile tic nervoso che mi deforma, a intermittenza, l’angolo sinistro della bocca, dove le labbra si congiungono. Sempre stando immobile, mi sforzo di percepire segnali insoliti che possano provenire da dentro il mio corpo, perché qualcosa in me deve essere di sicuro mutato. Allora mi rendo conto che il mio respiro è strano, corto e affannoso. E il cuore picchia con forza. Gli echi delle secche contrazioni mi rimbalzano alle tempie e mi stordiscono. Ho l’impressione che a volte, nella sua corsa sfrenata, il muscolo che porto racchiuso nel petto inciampi e salti un passo.
Contemplo le mie mani, grandi e scarne, dalle dita affusolate come quelle di un pianista. Sono pulite. Le ho sfregate a lungo, sotto l’acqua, in maniera ossessiva, senza che ve ne fosse la reale necessità.
Tra poco più di un’ora torneranno i miei genitori. Rincasano sempre tardi perché i loro pensieri sono unicamente rivolti al lavoro. Per quel momento dovrò essere pronto, il profondo turbamento che ancora provo non dovrà trasparire e sarò il figlio modello di sempre.
Quella ragazzina mi piace. Mi piaceva.
Domani andrò all’università. Ho una lezione importante, che non posso perdere, e l’esame si avvicina. Nel fine settimana invece mi unirò a quelli che la staranno cercando, mi renderò utile e fornirò il mio contributo, doveroso, alla comunità.
Io la guardo ogni volta, quando esce, e lei ricambia il mio sguardo. Ricambiava.
Mi siedo perché sono molto stanco.
Non so bene che cosa volessi fare, e non capisco per quale ragione ho portato con me il coltello. Adesso l’ho gettato, in un posto dove nessuno lo troverà mai. E ciò mi dispiace, dal momento che ero molto affezionato a quel coltello. L’avevo comprato alcuni anni fa, quando ero poco più di un bambino, e per tutto questo tempo è rimasto chiuso nel mio comodino, infilato nel suo fodero di cuoio grezzo. Ogni tanto lo estraevo e lo ammiravo. Perché l’ho preso? Perché, senza pensarci, me lo sono messo in tasca? Queste domande mi assillano e mi tormentano, ma non riesco a dar loro una risposta. Penso che io sono una persona adulta mentre lei è ancora piccola. Era piccola. Che bisogno avevo di usare quell’arma? Sarebbe stato sufficiente parlare, se voglio so essere molto convincente e persuasivo.
Forse sono stati i suoi occhi. Sono molto belli i suoi occhi, di color blu cobalto, vivaci e brillanti. Erano belli ma pieni di paura, e questo non l’ho potuto sopportare. La paura è contagiosa e, poco alla volta, ha iniziato a invadere anche il mio corpo, si è trasformata in terrore.  
Non ricordo che cosa ho detto, non ricordo che cosa ho sentito. Le urla, le mie e le sue, si sono unite, si sono fuse, come provenienti da un’unica bocca.
Mi alzo dalla sedia in preda all’ansia. Sudo e tremo. No, non posso fare così, devo calmarmi.
Non ho più di fronte a me un corpo che desidero, che desideravo, ma un essere dalla forma indefinita, che si dibatte e strepita. Che grida. Che gridava. E allora colpisco, con forza, con il pugno, e quasi non mi avvedo che il mio pugno stringe il coltello. Mi pare impossibile che una lama tanto affilata possa produrre, su quell’esile figura, dei suoni così sordi. Una lama dovrebbe affondare, penetrare e lacerare in assoluto silenzio. Invece non è così, e inorridisco.
Mi scosto, mi sono scostato, in tutta fretta e i miei vestiti non si sono sporcati. Sono sorpreso.
E poi… poi non rammento altro. All’improvviso mi sono ritrovato qui, a casa. Soltanto una parte dei miei ricordi è stata rimossa, e questo mi angoscia.
Perché prima o poi mi chiameranno mostro.
Prima o dopo diventerò l’orco.
Non volevo uccidere. Credo proprio di no.

domenica 27 febbraio 2011

LA TARA



La situazione: una economia immobile, che non cresce, e con prospettive, sul breve e medio periodo, disastrose. Un aumento della divaricazione sociale, con preoccupanti innalzamenti dei livelli di disoccupazione, in particolare nel mondo giovanile, con lavoratori che continuano a perdere il lavoro o costretti alla cassa integrazione. Precari senza alcuna possibilità di raggiungere un’occupazione stabile. La scuola ormai distrutta da anni di riforme e controriforme dissennate. La giustizia in crisi profonda, privata di mezzi e risorse, e incapace di dare risposte rapide ai bisogni dei cittadini. Una classe politica indegna, di continuo derisa e sbeffeggiata dagli osservatori esterni, piegata ai voleri e alle esigenze di un Primo Ministro ridicolo, impegnato solamente a sfuggire alla Magistratura, a destabilizzare le istituzioni, e a perseguire interessi privati. Una persona senza scrupoli, dissoluta, immorale, che non rifugge dall’utilizzo dei notevoli mezzi finanziari per asservire ai propri turpi scopi lo stesso Parlamento, corrompendo i rappresentanti del popolo, non eletti ma nominati. Una politica estera incerta e ambigua, disonorevole per un grande Paese quale siamo, quale eravamo.
Dici: ma lui è stato voluto dai cittadini, che gli hanno confermato più volte il loro sostegno e che continuano, in misura quasi immutata, a fidarsi del suo racconto falso e ingannevole, slegato dalla realtà e dalle vere, oggettive difficoltà del Paese.
Ecco, è proprio questo il problema.
Innanzitutto, occorre sfatare l’assunto che l’attuale Governo sia sostenuto dalla maggioranza dei cittadini. L’effettivo consenso riguarda non più di un quarto degli elettori. Una quantità altrettanto consistente di potenziali votanti è disinteressata, in modo colpevole, alle questioni pubbliche, alle faccende della politica. Un’ulteriore minoranza lotta invece, in maniera affannosa, per far prevalere le ragioni del buon senso, della normalità.
Dici: ma non esiste un’autentica alternativa, chi rappresenta l’opposizione non detiene, non propone una valida opzione, non c’è unità d’intenti, non sussiste una linea condivisa, manca l’offerta di progetti politici adeguati, e i leader appaiono deboli.
È naturale rispondere che, di fronte a una situazione incerta e disastrosa quale si presenta quella attuale, qualsiasi soluzione sarebbe preferibile. Durante le crisi di sistema, la ragionevolezza dovrebbe rendere automatico il ricorso a espedienti che garantiscano comunque l’autoconservazione del sistema stesso. Da qui il via libera, senza ulteriori indugi, al consenso nei confronti di una classe dirigente che, seppure fiacca e poco brillante, possa in ogni modo garantire la sopravvivenza della struttura di valori democratici. Ma così non è.
Dici: è possibile che i cittadini non si rendano conto di tutto ciò? Saranno mica stupidi?
Il discorso diventa complesso. A favore degli elettori ottusi esistono innumerevoli attenuanti: la scarsa cultura politica, dovuta al progressivo degrado delle istituzioni scolastiche, il perdurare, da molto tempo ormai, di una condizione permanente di conflitto di interessi che consente, attraverso la concentrazione della proprietà dei media, di manipolare l’informazione, di condizionare le opinioni e le scelte.
Tuttavia i cittadini sono dotati di libero arbitrio e, pur nell’attuale difficile situazione, si trovano ancora nella condizione di poterlo esercitare. I livelli minimi di democrazia, per fortuna, ancora esistono, così come è presente una pluralità di soggetti politici, e la stampa e l’informazione antagonista hanno ancora la possibilità di far sentire la loro voce.
Dici: e allora, dove vuoi andare a parare?
Il popolo italiano è quel popolo che ha acconsentito all’avvento del fascismo. In seguito, dopo i tragici avvenimenti del Ventennio, si sono sviluppati degli anticorpi che hanno permesso l’instaurarsi della democrazia. Col tempo, tuttavia, questi anticorpi si sono rivelati deboli e, poco alla volta è nuovamente prevalsa quella tara culturale che da sempre accompagna il nostro popolo, da ricondursi a manifestazioni di furbizia, di scarso o nullo senso civico, di adulazione nei confronti dell’Uomo Solo.
È possibile sfuggire a questa maledizione di imperscrutabile origine? Facendo riferimento ai ricorsi storici, probabilmente no. È però necessario fare in modo che la tenue fiammella della ragione, del buon senso e della speranza non si spenga del tutto. Chi ritiene di poterlo fare, pur appartenendo a una esigua minoranza, lo faccia. Al più presto.   
  

venerdì 25 febbraio 2011

LA MELODIA



Si svegliò di soprassalto nel cuore della notte. Ancora turbato, ripensò a quello strano sogno. Si era trattato di un viaggio onirico piacevole, tutt’altro che un incubo, e allora perché si era destato così all’improvviso? Fece un lungo respiro, attese che il cuore riprendesse il suo ritmo normale, poi scese dal letto, senza accendere la luce. Non voleva distrazioni, intendeva conservare a lungo, in maniera nitida nella sua mente sconcertata, quella traccia di pensiero, quel concetto, quell’incredibile ricordo. Tutto ciò perché si proponeva di riprodurre, questa volta nella realtà, le stupefacenti sensazioni provate durante il sonno. Avanzò quasi a tentoni nella stanza fredda. Aiutandosi con le mani, che faceva scorrere lungo le pareti, oltrepassò l’ingresso ed entrò nel salone. Si avvicinò al pianoforte a gran coda, oscura ma rassicurante presenza posta proprio nel mezzo di quell’ampio ambiente, e si sedette sullo sgabello. Si passò le mani sul viso, si stropicciò gli occhi e si concentrò a lungo. Poi le sue agili mani, addomesticate dai tanti anni di esperienza, si avventarono sui tasti e le dita iniziarono a correre veloci su di essi. Dopo pochi istanti non pensò più a nulla. Ecco, era lei! Aveva ritrovato, come per incanto, quella melodia che aveva piacevolmente tormentato il suo sonno. E subito si rese conto che non si trattava di un motivo qualsiasi, bensì della melodia perfetta. Non poté fare a meno di accorgersene. Tutto il suo corpo fu immediatamente scosso da fremiti e sussulti. Teneva gli occhi chiusi, ma di fronte a lui si  materializzarono lampi di luce di ogni colore dello spettro. Durante pochi brevi attimi avvertì, in rapida successione, caldo, freddo, gioia, dolore, solitudine, malinconia, amore, odio: l’intera gamma delle sensazioni, delle emozioni e dei sentimenti umani. Sollevò le mani dalla tastiera e cominciò a piangere a dirotto. I singulti lo scossero per alcuni minuti poi, lentamente, si riprese. Ma era disorientato e sconvolto. Per cercare di arrestare il tremito delle mani ricominciò a suonare. Da principio un breve pezzo di Mozart, quindi passò al suo compositore preferito, Chopin, e infine a un motivo di Bach, che però non ultimò. Si interruppe e colpì con un pugno, con rabbia, gli incolpevoli tasti bianchi e neri. Quella musica era ridicola, messa a confronto con la sua melodia! Spazzatura, suoni immondi che ferivano i timpani. Una musica che ormai non aveva più alcun senso, priva di significato, senza vita. Quei compositori, la cui arte era considerata immortale erano in realtà degli autentici dilettanti, musicisti incompetenti e superficiali. Veri impostori. Per non parlare di tutto ciò che era seguito dopo: il rock, il jazz, il blues. Tutte accozzaglie di suoni senz’anima. Si rimise in posizione e accennò qualche battuta della sua melodia, ma non resse all’immenso struggimento e si alzò. Vagò nel salone per alcuni minuti, sempre al buio, inciampando e urtando mobili e suppellettili, in preda all’angoscia. Si era ormai reso conto che la musica era finita, e che era stato lui ad apporre il sigillo mortuario. In preda a una profonda e crescente afflizione, si avvicinò al bordo del pianoforte e vi appoggiò il capo, poi diede un colpo secco all’asticella di sostegno e il pesante coperchio precipitò di botto sul suo esile collo.
La musica era salva.

domenica 20 febbraio 2011

L'INCARICO



Ho sempre votato per lui perché è ricco, e chi è ricco non ruba. Lui mi piace, ha fatto tutto da solo, partendo dal nulla e alla fine, con grande spirito di sacrificio, ha deciso di mettersi al servizio del suo paese, che ama. Adoro il suo ottimismo, e il suo sorriso. Mi incantano la sua innata eleganza e i suoi modi distinti e sempre amichevoli. La sua affabilità è proverbiale, le sue barzellette sono sempre divertenti. È amico fraterno di tutti i grandi della Terra, e questo ha accresciuto il prestigio del mio paese. Mi rende orgoglioso di essere italiano. Perché lui, in fondo, è uno di noi.
Lo hanno ostacolato in tutti i modi, facendo ricorso ai mezzi più spregevoli, gli hanno impedito di lavorare per la sua gente. Ma lui non si è fermato, è un uomo dalle mille risorse ed è sempre riuscito a risollevarsi. È circondato da amici fedeli, che condividono le sue idee e  il suo destino e che non lo abbandoneranno mai, per fortuna.
L’odio nei suoi confronti, da parte di chi proprio non capisce, una piccola parte, è cresciuto sempre di più. Lo perseguitano e lo vogliono annientare. I giudici si sono messi al servizio di queste forze oscure e si accaniscono senza tregua nei suoi confronti, lo inseguono e intendono braccarlo. I comunisti, quei bastardi,  lo vogliono morto.
Perché dico questo? Semplice, perché ne ho avuto la prova.
Sono venuti da me, proprio loro, qualche tempo fa. No, non quelli che vediamo sempre in televisione o che lo vessano attraverso i giornali che controllano. Quelli non si espongono in prima persona, non si occupano dei lavori sporchi. Hanno mandato altri ad agire per loro conto, questi loro emissari sono stati ambigui ma io ho capito tutto, non sono riusciti a ingannarmi.
Hanno detto che la situazione è insostenibile, che così non si può andare avanti. Il paese è ormai distrutto, sono state minate le basi della convivenza civile, i valori di riferimento sono stati alterati, la democrazia sta morendo lentamente. Così si sono espressi, con le solite affermazioni trite e ritrite che non mi interessano, che sono tutte false e alle quali non credo. Perché hanno tentato di convincermi? Sarebbe stato meglio se avessero subito parlato chiaro. In fondo, io sono un professionista e comprendo bene le esigenze del cliente, senza che queste siano ammantate di vuota ideologia.
Confesso che sono stato titubante, prima di accettare, per la prima volta nella mia vita, quella professionale intendo. Ma, nonostante i dubbi e le riserve, sono stato costretto ad assumere l'incarico, seppure a malincuore. Ho bisogno di lavorare, perché c’è la crisi. Non che questa situazione sia colpa sua. Anzi, lui ha fatto il possibile per portarci fuori da questa condizione, si è battuto come un leone contro l’intero mondo globalizzato, la vera causa di queste difficoltà, e ci è quasi riuscito. E poi, lo ammetto, ho accettato perché quelli pagano bene, e comunque io sono un professionista serio, che non delude mai.
E adesso sono qui, confuso tra la folla, in questa piazza gioiosa, in parte anche rabbiosa, che rivendica i meriti di quel grande uomo, contro tutti quegli oppositori che non riusciti a realizzare i loro disonesti intenti.
Ora però non mi devo distrarre, mi devo concentrare soltanto sul mio compito, che è molto delicato. Il Presidente si avvicina al palco, vi sale sopra. Senza fretta, mi accosto anch’io, mentre ficco la mano nella tasca e impugno la pistola.
Il mio dispiacere più grande è che, da domani, non saprò più a chi dare il voto.

venerdì 18 febbraio 2011

SANREMO?



Sono un po’ in imbarazzo perché voglio parlare del festival di Sanremo. Comunque rassicuratevi. Non l’ho visto. Almeno finora. Però, essendo un appassionato di musica, confesso di averlo ascoltato. Non che si tratti, nel caso, di grande musica. Ma questo, da tempo, lo sapete pure voi. Tuttavia, come sempre accade, alcuni brani spiccano su altri. Quindi subitevi le mie preferenze, in ordine sparso e per ciò che esse possono valere.

Luca Madonia con Franco Battiato – L’alieno
Battiato ha messo a punto una astuta operazione. In crisi di ispirazione, ha deciso di auto plagiarsi, fondendo insieme due suoi vecchi brani. La cosa sorprendente è che il risultato è ottimo, grazie altresì al valido apporto in fase di esecuzione del bravo Luca Madonia (chi ricorda i Denovo?). L’ibrido è dunque di buon livello, musicalmente curato e gradevole. La classe non è acqua. E neppure il talento.

La Crus – Io confesso
Mauro Giovanardi riunisce, per l’occasione, il suo gruppo. Un ensemble che non ha mai goduto del grande successo commerciale ma che si è sempre distinto, finché è stato in attività, per la qualità delle proposte, pregio puntualmente riconosciuto dalla critica.
Il brano è deliziosamente e volutamente retrò, (anni ’60?) ricco di sonorità ricercate e di spunti esecutivi di qualità.

Roberto Vecchioni – Chiamami ancora amore
In apparenza, può sembrare il Vecchioni più sdolcinato e melodico. In realtà non è così. L’impostazione del brano è di sicuro piuttosto classica ma il testo è molto interessante e significativo, crudo e poetico allo stesso tempo. Una piacevole e gradita sorpresa. Il Professore ha ancora qualcosa da dire.

Tricarico – Tre colori
Certo, l’interprete è quello che è: un tipo strampalato che dà l’impressione di essere fresco reduce da TSO e che, all’occorrenza, è pure in grado di stonare alla grande. Tuttavia il brano presentato è, tra tutti, quello più stimolante sotto l’aspetto strettamente musicale. Originale e accattivante. In ogni caso, singolare.

Davide Van De Sfroos – Yanez
Il personaggio è un po’ discusso (è o no un leghista? Mah! In fondo, anche Bossi è un leghista, e si trova addirittura al Governo!) ma, in quanto musicista, è dotato di una carica notevole e innegabile. I suoi brani sono sempre musicalmente ricchi e trascinanti, addirittura migliorati dall’utilizzo del dialetto laghée. Il buon Davide Bernasconi, comunque, convince. Così come la sua ironica e dissacrante Yanez.

MUSICA



Sei finita stritolata, spezzettata, sminuzzata.
Sei ridotta a un sottofondo, un qualcosa che si sente ma che non si ascolta.
Tuoi frammenti sono scaricati, immagazzinati e mai più rivissuti.
Giacciono dimenticati nelle fredde memorie virtuali, in disordine e scomposti.
A volte riesumati, rimbombano nei timpani di strani esseri erranti e incuffiati. 
Accompagni la vita di tutti, ma soltanto pochi badano veramente a te.
Ti accosti, imbarazzata, a profumi, biscotti e mozzarelle.
Assordi le menti vuote di gente prigioniera di abitacoli di lamiera.
Ma la tua vera dimensione non è questa.
Tu esisti per procurare emozioni: il pianto, la gioia, la commozione, la malinconia e l’allegria.
Per essere ossequiata e rispettata nelle sale da concerto, i tuoi templi.
Solo tu riesci ad allietare, a rendere meno grevi le lunghe ore di solitudine.
Sgorghi dal nulla, e continuerai a farlo per sempre.
È questo il vero miracolo.   

mercoledì 16 febbraio 2011

AL VOTO!



La stanza era piena di fumo.
“Segretario, non si era detto che non si doveva fumare?” domandò il coordinatore, tossendo.
Nel piccolo ufficio regnava una frenetica attività: attivisti affannati correvano avanti e indietro senza una meta apparente, i telefoni squillavano in continuazione, i fax sputavano senza sosta nuovi comunicati.
Il Segretario, con la pelata lucida e imperlata di sudore che spiccava sotto le fredde lampade al neon, rivolse al suo principale collaboratore un’occhiata torva, poi si sfilò dalla bocca il sigaro. Spento.
“Guarda che sei tu che stai fumando. Sembri la ciminiera di una fabbrica!”
Il coordinatore si bloccò, imbarazzato, quindi spense la sigaretta in un posacenere ormai ricolmo. Poi si riprese.
“Fabbrica? Ha detto fabbrica? Che bella parola! Era da tanto tempo che non la sentivo più pronunciare!”
“Non distrarti.”
“Ma Segretario! Abbiamo finito!”
L’altro non rispose e continuò a scorrere con il dito la lunga lista di nomi che aveva sotto gli occhi.
“Bene! Vedo che avete fatto un buon lavoro. Le liste sono ormai completate.”
Il coordinatore sorrise compiaciuto, ma solo per un istante. Poi notò che il Segretario si era bloccato su un nome e la sua espressione tradì una certa inquietudine.
“C’è qualcosa che non va?” chiese, timoroso.
“Questo candidato non ha il cognome?”
Il coordinatore, con l’aria sempre più preoccupata, inforcò un paio di occhiali e, senza rendersene conto, accese l’ennesima sigaretta.
“No, quelli come lui non hanno un cognome.”
“Com’è possibile? E chi sarebbero quelli come lui?”
“Ma Segretario! È lui, il nostro candidato un po’ particolare…”
“Spiegati meglio, per favore…” disse il Segretario, corrucciato.
“Non li ha visti i manifesti? Abbiamo tappezzato l’intera città!”
“Mi dispiace, ma non li ho ancora visti. Negli ultimi tempi sono stato molto impegnato in altre faccende e quando cammino lo faccio sempre a testa bassa. Sai, i pensieri pesano…”
“Capisco, Segretario. Comunque le posso assicurare che quella candidatura ha riscosso un incredibile consenso. Abbiamo ricevuto molteplici telefonate di approvazione. La nostra gente è entusiasta.”
“Mmm…” Il Segretario appariva invece preoccupato.
All’improvviso apparve un ragazzo, trafelato.
“Segretario, c’è Contini al telefono, il direttore del Corriere d’Italia! Glielo passo?”
“Certo! Dobbiamo mantenere ottimi rapporti con la stampa” disse il Segretario e subito dopo sollevò la cornetta.
“Segretario! Buongiorno. So che è molto occupato, mi permette di farle ugualmente alcune brevi domande?”
“Contini, per la stampa amica sono sempre disponibile.”
“Grazie. Allora, domani scade il termine per la presentazione delle liste. Voi avete promesso agli elettori un grande rinnovamento e dalle prime anticipazioni pare proprio che abbiate mantenuto la parola. Conferma?”
“Sicuro! Abbiamo inserito tutti nomi nuovi, persone giovani, preparate e soprattutto motivate. Il rinnovamento del nostro paese deve passare attraverso la costruzione di una classe dirigente che…”
“Segretario, scusi se la interrompo ma cosa mi dice, in particolare, di quel candidato?”
“Per me tutti i candidati sono uguali e tutti ugualmente meritevoli. Quindi…”
“Segretario, la capisco. Non vuole sbottonarsi troppo. Tuttavia dovrà convenire che quella candidatura è clamorosa e non può certo passare inosservata. I nostri lettori…”
“Contini, le ripeto che tutti i nostri candidati…”
“Va bene Segretario, non insisto, avremo modo di riparlarne quando le liste saranno ufficiali. Un’ultima domanda: che cosa pensa dell’epilogo della vicenda di… ha capito no? Sa, preferisco non nominarlo neppure, tanto è il ribrezzo che provo!”
“Condivido. È stata fatta giustizia e quel bieco individuo sconterà la meritata pena. Anch’io preferirei non doverne parlare. Dobbiamo invece pensare al futuro.”
“Segretario, ha ragione. E la prego di accettare i miei complimenti. Siete stati molto coraggiosi. Sono sicuro che sarete premiati.”
“A cosa si riferisce in…”
“Grazie, Segretario! E buon lavoro!” E Contini riattaccò.
Il segretario, perplesso, si rivolse al coordinatore.
“Quello insisteva con quel candidato. Sai, quello senza cognome. Che cosa avrà mai di così particolare ‘sto cristiano!”
Il coordinatore deglutì.
“Cristiano ha detto? Vede, il fatto è che…”
“Ma sì! Dicevo tanto per dire! Sai bene che al nostro partito non importa nulla dell’appartenenza religiosa dei militanti. La libera espressione del…”
“Segretario…”
“Eh? Dimmi.”
“Il candidato, quel candidato, vorrebbe conoscerla.”
“Come? Certo, come no? Organizzami al più presto un incontro con lui e con gli altri… sai, dobbiamo trovare delle idee per la campagna elettorale e…”
“È qui fuori…”
“Come dici?”
Quel candidato è qui fuori.”
“E che aspetti allora? Fallo entrare, così scambiamo subito due parole!”
“Parole?”
“Che hai detto? Su, sbrigati, non farlo aspettare.”
Il coordinatore, pallido in volto, aprì la porta e il candidato fece il suo ingresso.
Non fu la grossa zampa, che gli fu porta in maniera rispettosa, che il Segretario notò, e ancora meno il pelo fulvo e lucido, pettinato con cura. Notò soprattutto, in quel cane, lo sguardo deciso, fiero e determinato. E all’istante comprese che quella bestia non lo avrebbe mai tradito, e che sarebbe stato di sicuro il migliore fra tutti i suoi futuri deputati.

domenica 13 febbraio 2011

L'ACCUSA



“Prego, si accomodi” disse uno dei due uomini.
Il vecchio, sospirando, si sedette  su una scomoda sedia posta proprio di fronte alla grande scrivania.
“Noi ci conosciamo già” disse il Procuratore Capo Torbidi. “Le presento il dottor Ribaldi, il mio vice.”
Il vecchio assentì. Aveva l’aria rassegnata.
“Niente avvocato?” aggiunse il magistrato. Il suo interlocutore scosse il capo.
“Bene, come vuole lei. Il motivo per il quale l’abbiamo convocata le è noto. C’è un’indagine in corso e lei è il principale, anzi l’unico indagato. Dottor Ribaldi, prosegua pure.”
“Allora, signor… San Valentino, dico bene?”
“Mi chiami semplicemente Valentino…” disse il vecchio, con un filo di voce.
“È vero, lei ha rinunciato al suo titolo, e al suo incarico…”
“Mi sono dimesso” rivendicò il vecchio, con orgoglio.
“Ciò è apprezzabile, da parte sua” intervenne il Procuratore. “Mi dica, chi ricopre attualmente il suo incarico?”
“Sant’Antonio” rispose il vecchio. “Ha assunto l’interim.”
“Quello da Padova?” domandò il magistrato.
“No, l’altro.”
“Quello delle bestie?” chiese il dottor Ribaldi.
“Dottor Ribaldi!” lo rimproverò il Procuratore Capo. “Si tratta del protettore degli animali domestici! Non quello delle bestie!”
Ribaldi assunse un’espressione offesa. Il vecchio ridacchiò tra sé.
“Sant’Antonio era già molto occupato, ma riuscirà senz’altro a svolgere bene anche il nuovo incarico. E comunque si tratta di una situazione provvisoria, in attesa di una nuova definitiva nomina” spiegò, paziente, il vecchio.
“Ribaldi, per favore, proceda.”
Il sostituto consultò alcuni appunti, si umettò le labbra e poi iniziò a parlare.
“Dunque, le accuse che la riguardano sono molto gravi” disse. “L’inchiesta è in corso da molto tempo, da centinaia di anni, per la precisione. Adesso, finalmente, è stata formalizzata, e spetta a noi il gravoso compito di condurla a termine…”
“Dottor Ribaldi, vada al sodo” lo spronò il Procuratore, tradendo impazienza.
“D’accordo. Nel corso del tempo sono stati raccolti migliaia… milioni di esposti nei suoi confronti, signor Valentino. Lei è sospettato di aver favorito, nel corso di un lungo periodo, infatuazioni tra un numero considerevole di persone, di entrambi i sessi…”
“No!” esclamò il vecchio, con voce forte e chiara. “Io non faccio scoccare la scintilla, faccio in modo che non si estingua.”
Il dottor Ribaldi, sconcertato, guardò il Procuratore.
Torbidi iniziò a sfogliare, febbrilmente, un voluminoso dossier.
“Dottor Ribaldi! Lei ha confuso le inchieste. Quelle accuse riguardano gli accertamenti in corso per quell’altra inchiesta, quella parallela, a carico dell’imputato… come si chiama?”
“Il signor Cupido?” disse Ribaldi.
“Sì, esatto!” Anche il vecchio annuì, soddisfatto.
“Mi scusi, signor Valentino. In realtà le accuse che riguardano lei in modo specifico sono da riferirsi al fatto che quella scintilla, come lei la chiama, in innumerevoli casi non si è conservata a lungo per niente, e da ciò sono derivate conseguenze nefaste. Vediamo: tradimenti, inganni, omicidi e sofferenze di ogni tipo.”
Il vecchio, colpito, chinò il capo. I suoi occhi erano umidi di lacrime.
“Ammetto di aver fallito, anche se non è mai mancato, da parte mia, l’impegno a fare del bene” disse, mesto.
“Già, un impegno che però ha sortito risultati devastanti” sentenziò il Procuratore con severità.
Il vecchio si coprì il volto con le mani.
“Mi tolga una curiosità” disse Torbidi. “Perché ha deciso di sottoporsi alla giustizia degli uomini? Nella sua posizione avrebbe potuto sollevare una questione di competenza e rivolgersi al Tribunale dei Santi.”
“Il motivo è semplice” rispose il vecchio, che si era un po’ ripreso dal suo abbattimento. “Sono sempre vissuto, se così si può dire, in mezzo agli esseri umani. Ho condiviso le loro afflizioni sentimentali, ma anche le loro grandi gioie, e tocca a loro valutare il mio comportamento, nel bene e nel male. C’è soltanto una cosa mi fa soffrire. Perché avete scelto proprio questo giorno per convocarmi? Non potevate farlo trascorsa la festa? Per me è umiliante…”
“Come? Ci accusa forse di giustizia a orologeria?” disse Ribaldi, con tono risentito.
Il vecchio annuì, sconsolato. Allora intervenne il Procuratore.
“Vede, signor Valentino, in parte lei ha ragione. La nostra è un’inchiesta che possiede un alto valore simbolico, e di conseguenza…”
“Ho capito” lo interruppe il vecchio.
Il procuratore annuì, poi continuò.
“Sappia comunque che apprezziamo il fatto che lei abbia acconsentito di farsi giudicare. Nel corso del dibattimento processuale lei avrà, come tutti gli imputati, la possibilità di far valere le proprie ragioni, e non è detto che i giudici non possano essere clementi e comprensivi nei suoi confronti.”
“Me lo auguro” disse il vecchio, che ora sembrava un po’ più sereno. “In fondo, anche loro, nel corso della loro esistenza, saranno stati innamorati almeno una volta, no?”
Il procuratore e il dottor Ribaldi, dopo essersi scambiati un significativo sguardo, non poterono che confermare annuendo.
Il vecchio, finalmente, sorrise.

venerdì 11 febbraio 2011

CAIMANI



Le numerose e vivaci polemiche seguite al divieto di trasmettere per intero, in una apprezzata trasmissione serale della terza rete Rai, la scena finale del film “Il Caimano”, hanno spinto alcuni autorevoli osservatori, tra i quali Eugenio Scalfari, ad affermare che la profezia contenuta nella pellicola di Nanni Moretti (che risale al 2006) si sia rivelata perfetta.
Le gravi e irresponsabili dichiarazioni pronunciate, vomitate a raffica nei giorni scorsi da Silvio Berlusconi e dai suoi spregevoli accoliti ricalcano infatti alla perfezione quelle del film stesso, in particolare nel passaggio in cui  si riferiscono alla pretesa di impunità di fronte alla Legge di cui beneficia chi è stato eletto direttamente dal popolo sovrano, unico organismo, secondo la loro eversiva valutazione, che può detenere la potestà di giudizio.
Tralasciando il dettaglio, tutt’altro che secondario, che nel nostro ordinamento il Presidente del Consiglio è nominato dal Capo dello Stato ed è espressione di una maggioranza parlamentare che gli concede la fiducia, e tornando allo spunto iniziale, vale a dire l’egregia opera del regista romano, sorge spontanea e doverosa una considerazione. Siamo davvero certi che il nostro omuncolo, nonché aspirante dittatorello, non si sia invece ispirato, seppure in modo inconsapevole, al film e lo abbia fatto proprio? In fondo, quel ruolo, quello del caimano, gli piace, e la parte dello spietato predatore ben gli si addice. E le prede siamo noi, e il nostro sventurato paese.       

giovedì 10 febbraio 2011

VIZI SERALI



Mai avrei immaginato, alla mia età, di cadere preda di una dipendenza. All’inizio era poco più di un vezzo, che ben presto si è trasformato in un vero e proprio vizio, un qualcosa al limite della perversione, e dal quale mi è ormai impossibile staccarmi.
Nel corso della mia vita ho resistito, per caso e per scelta, alle lusinghe delle bevande alcoliche, a quelle delle sostanze stupefacenti e a varie altre possibili dissolutezze che l’esistenza prima o poi propone.
Alla fine, però, ci sono cascato, e adesso non riesco più a smettere. Il mio pentimento è sincero, e si rinnova tutti i giorni; nondimeno ogni giorno, alla stessa ora, il baratro della depravazione si spalanca davanti a me e io non riesco a sottrarmi.  Attraverso questa pubblica confessione cerco una impossibile assoluzione, che so di non meritare affatto, tanto grave è la mia colpa.
Per tanto tempo ho cercato di stare lontano da questo comportamento immorale, ma poi ho ceduto, senza neppure rendermene conto. Sono passato dall’indifferenza assoluta all’assunzione distratta di piccole dosi, poi a un graduale ma costante aumento del consumo che ormai è diventato totale. Lo assorbo completamente, dall’inizio alla fine, con la massima attenzione, senza perdere nulla.
So che non dovrei farlo, il mio buon gusto e il mio senso etico mi suggeriscono di non farlo. Ma non ci riesco, perché ne sono attirato in maniera morbosa, quasi devastante.
È trascorsa quasi un’intera giornata da quando ho ceduto, per l’ennesima volta, a quel desiderio, a quella cupidigia che annienta ogni mia volontà. E adesso è di nuovo giunta l’ora. Non ho bisogno di consultare l’orologio, è il mio corpo che mi segnala il momento tanto desiderato. E lo voglio, lo bramo. Mi basta premere un tasto, un minuscolo tasto, per possederlo.
Ancora stasera e poi basta. Ancora una volta. E lo faccio, schiaccio il tasto.
Sullo schermo appare l’agognata sigla del Tg1.
Aiutatemi a smettere, vi prego. 

mercoledì 9 febbraio 2011

VILLA BUON RIPOSO


Era fine estate ma l’aria era ancora tiepida.
Il vecchio Aldo, manovrando con abilità la sua sedia a rotelle, si sistemò sull’ampio terrazzo. Dopo un po’, e con una certa fatica, appoggiandosi a un bastone, lo raggiunse il suo amico Ascanio.
“Allora, che fai? Ci vieni domani alla festa?”
“Quale festa?” domandò Aldo.
“Ma come, non sai nulla? Domani, la festa della riunificazione, e del compleanno di quell’altro, quello nuovo.”
“E chi sarebbe quello nuovo?”
“Non l’hai ancora visto?”
“L’ho intravisto…”
“E non l’hai riconosciuto?” incalzò Ascanio.
“Purtroppo sì. Che cosa è venuto a fare qui?”
“Non lo sai? È un ospite! Si è ritirato dalla politica, ha detto basta e passerà con noi i suoi ultimi anni.”
Aldo bestemmiò.
“Non ti è simpatico? Guarda che è un tipo molto socievole. Quando ci siamo incontrati la prima volta mi ha raccontato una barzelletta” aggiunse Ascanio con entusiasmo.
“Sconcia?”
“Un po’… ma era divertente.”
L’amico staccò un’altra poderosa bestemmia.
“Vi state asciugando le ossa?”
“Teresa!” esclamarono i due anziani all’unisono.
“Gli stavi raccontando della festa?” chiese la donna, rivolgendosi ad Ascanio.
“Pensa che non sapeva nulla! E anche adesso non mi pare troppo entusiasta.”
“Io sono soprattutto eccitata per il compleanno del nuovo!”
“Stavo appunto dicendo che quell’uomo mi sta antipatico. Per non dire altro. Che c’entra il suo compleanno con la riunificazione?” disse Aldo, sprezzante.
“Aldo! Ma non ti ricordi? È stato lui l’artefice della riunificazione!”
“Ma non era stato lui a volere la separazione?”
“Sì, ma tanti anni prima. Poi ha cambiato idea, quando è morto quell’altro, come si chiamava? Rossi… Dossi… qualcosa del genere.”
“Certo! Il padre di quello che c’è adesso al governo. Io lo preferivo al figlio, che è uno smidollato. Lui invece era un vero duro!” disse Ascanio.
“Non so di cosa state parlando. Sono trent’anni che non voto” precisò Aldo.
“Ma Aldo! Sono trent’anni che non si vota più!”
“È vero, adesso ricordo. Ma fino all’altro giorno non c’era lui, quello del compleanno, al governo?”
“Te l’ho detto! Si è ritirato, e ha lasciato il suo posto alla figlia” disse Ascanio.
“Ma lo sapete che domani compirà centovent’anni?” intervenne Teresa.
“Quanti? Ma allora pure la figlia è vecchia!”
“Aldo, ma che dici? Ho visto una sua foto l’altro giorno, su uno di quei giornaletti… Ebbene, portava una minigonna!”
“Che schifo!” sentenziò Aldo.
“Guardate che anche lui non è niente male! Dimostra almeno vent’anni di meno. Pensa che addirittura cammina!” affermò Teresa.
“Teresa, ci hai forse fatto un pensierino? Tu hai quarant’anni di meno!” la canzonò Ascanio.
“Siete invidiosi, e gelosi. Quell’uomo è molto affascinante. E poi con il suo passato, pieno di misteri...  E comunque le donne giovani gli sono sempre piaciute! Non ricordate? Avete perso del tutto la memoria?”
“Andateci pure voi alla festa. Quello non mi ha mai incantato. Figuriamoci adesso…”
“Aldo, sei il solito asociale!” lo rimproverò la donna.
“A proposito, stamattina non l’ho ancora visto. Dov’è?” domandò Ascanio.
“Mi ha detto che aveva un impegno…” disse Teresa, titubante.
Aldo ebbe una improvvisa illuminazione.
“Quale impegno? Parla!” scattò. Il suo tono era rabbioso.
“Sapete, quel poveraccio ha governato per più di sessant’anni e non ha mai avuto tempo per le altre piccole faccende…”
“Vuoi dire è andato in tribunale?”
“Sì, ma ha detto che è solo la prima udienza, che sarà una cosa lunga. I suoi avvocati…” continuò Teresa.
Ma Aldo non la lasciò terminare. Diede un violento colpo sulle ruote della carrozzella e la indirizzò verso la ripida rampa di scale…

lunedì 7 febbraio 2011

LA PEDATA


È inutile tergiversare e ricorrere a giri di parole. La domanda, nella sua cruda essenzialità, è la seguente: in che modo è possibile cacciare Berlusconi?
Vediamo…

LA VIA INTERNA (o della fronda)
Alcuni tra gli innumerevoli servi e leccapiedi prezzolati che attorniano il Presidente del Consiglio si rendono finalmente conto che, in caso di rovinosa caduta del capo, non avranno mai più alcun futuro politico, ma solo tante e pesanti colpe da scontare. Insomma, chi in qualsiasi modo risulta coinvolto, non potrà essere assolto. Uno scenario poco credibile…
È invece da escludere che qualche persona a lui vicino, in un barlume di lucidità, dispensi saggi consigli. Berlusconi, per definizione, non può avere veri amici, ma solo dipendenti e lacchè.
Sui familiari, pietoso no comment.

LA VIA PARLAMENTARE (o democratica)
L’attuale maggioranza dispone di un margine di voti piuttosto risicato, frutto di una disgustosa compravendita, ma comunque sufficiente a garantirne la tenuta o almeno la sopravvivenza. Molti parlamentari fedeli, essendo nominati e non eletti grazie a una scellerata legge elettorale, sono ben consapevoli dell’impossibilità di una loro futura rielezione e di conseguenza resistono a oltranza.
L’opposizione, anche nel caso in cui si presenti compatta e al completo (v. votazione sulla mozione di sfiducia del 14 dicembre 2010) non è comunque in grado di provocare la caduta dell’esecutivo.
Purtroppo, mancano e mancheranno sempre i numeri, che in un sistema democratico sono determinanti.

LA VIA POPOLARE (o della ribellione)
Le manifestazioni di protesta, finora mai spontanee ma organizzate da comitati che sono diretta espressione della società civile o proposte dai partiti (queste ultime alquanto rare) rappresentano un importante strumento di espressione del dissenso e dell’indignazione dei cittadini. È auspicabile che si moltiplichino sempre più a condizione che si svolgano senza il ricorso a violenze di alcun tipo, le quali non farebbero che compattare ancor di più le fila avverse.
L’efficacia di queste dimostrazioni pubbliche? Chissà… dal momento che non ci troviamo né in Egitto né in Tunisia. Occorre poi ricordare che una grande fetta di popolazione continua ad appoggiare senza riserve l’impresentabile Primo Ministro.
In democrazia, per assicurare un sano ricambio di classe dirigente, non è necessario fare la rivoluzione, è sufficiente il voto.

LA VIA GIUDIZIARIA (o della legalità)
Questa strada non deve costituire l’auspicata scorciatoia rispetto alla via politica.
Il potere giudiziario deve poter operare in piena serenità, non deve essere oggetto di pressioni o di intimidazioni, e in ogni modo è sempre utile rammentare che non è compito della Magistratura quello di sostituirsi ai cittadini e ai loro rappresentanti. Le due strade, quella giudiziaria e quella politica, devono scorrere parallele ma essere diverse, e non devono mai incrociarsi.
Così come è fondamentale che l’indagato (sul quale opera la presunzione di innocenza che però non lo sottrae dall’immediata responsabilità politica) non si sottragga, utilizzando addirittura il Parlamento come scudo, al suo giudice.

LA VIA DIVINA (o del destino)
Ogni commento è superfluo. Ogni speranza è consentita.

Abbiamo iniziato ponendo una questione e, giunti al termine di questa breve analisi, invece di una impossibile risposta, sorge spontanea una ulteriore domanda: siamo proprio sicuri che il problema principale del nostro paese sia Berlusconi?
E non piuttosto gli italiani?

domenica 6 febbraio 2011

DIVERSAMENTE VIVO


Vampo si svegliò tutto intirizzito. Si tolse di dosso i cartoni e gli altri stracci e si alzò in piedi. Le giunture delle gambe scricchiolarono in maniera sinistra. Allora sfregò gli occhi cisposi e si guardò attorno. Accanto, il suo compagno Nuccio dormiva ancora. Lo ridestò con una pedata. L’altro scosse il testone, sputò a terra e si mise a frugare con frenesia tra le numerose sporte di plastica ammucchiate al suo fianco. Estrasse un cartone di vino già aperto e bevve alcuni robusti sorsi. Poi lo offrì a Vampo.
“Vuoi? Bevi che ti scalda!”
“Sono tre giorni che non bevo” disse l’altro, ma non accettò l’offerta.
Nuccio sogghignò.
“Non dirmi che non vuoi bere a digiuno! Pensa che io sono tre giorni che invece non mangio, ma non per questo rinuncio a un goccio!”
“Non mi va di bere quella roba. Sono abituato ad altro. Devo bere altro.”
“Ma sentilo! Il signorino è abituato alle bevande pregiate. Mi dispiace, ma qui lo champagne non c’è!”
“Lo champagne mi fa schifo” rispose Vampo, disgustato.
I due si erano conosciuti la sera prima e avevano deciso di dormire uno vicino all’altro per meglio combattere il freddo e, nel caso, per fronteggiare in modo migliore eventuali malintenzionati, sempre pronti a umiliare, deridere o minacciare due poveri senzatetto.
“Dove vai?” domandò Nuccio.
“Cammino.”
“Non vedi che non ti reggi in piedi? Uniamo le forze e cerchiamo qualcosa da mangiare.”
“Non ho bisogno di cibo. Devo soltanto bere” disse Vampo.
“Il vino non lo vuoi, non vorrai mica iniziare a bere acqua? Ti indebolirebbe del tutto!”
“Ho bisogno di una cosa soltanto, ma non riesco a trovarla.”
“Senti, io non ho la forza di camminare e rimango qui. Se vuoi, ci vediamo più tardi e vediamo se riusciamo a rimediare qualcosa.”
Ma Vampo si era già messo in cammino e non rispose.
Marciò a lungo, utilizzando le poche forze rimaste, per dirigersi verso il luogo che amava di più, quel posto che, a volte, in sogno, gli allietava le notti altrimenti tormentate. Finalmente arrivò. In lontananza, si udiva la sirena di un’ambulanza. Vampo affrettò il passo e giunse all’ingresso del Pronto Soccorso proprio mentre il mezzo arrivava a gran velocità e poi si arrestava bruscamente. Fu scaricata una barella sulla quale era disteso un giovane che perdeva sangue da una ferita al capo. Vampo osservò la scena. Fu assalito da nausea e da violenti crampi allo stomaco. Fu sul punto di svenire.
“Che ci fai qui? Non c’è niente da vedere! Vattene, barbone, o ti prendo a calci!” lo apostrofò uno dei portantini.
Vampo, spaventato, indietreggiò, diede un’ultima avida occhiata alla lettiga, poi tornò sui propri passi. Quando vide, ad un palmo dal naso, il cartello Centro Trasfusioni si arrestò per un attimo e gli venne quasi da piangere. In bocca aveva un sapore amaro. Le gengive, infiammate, dolevano. Si passò una mano sui denti e notò che ballavano sempre più, in particolare il suo prezioso canino destro. Ormai era esausto e considerò con amarezza che aveva una sola possibilità di salvezza. Il suo amico Naldo. Più volte lo aveva aiutato, più volte gli aveva praticamente salvato la vita. Gli aveva dato da bere e di sicuro lo avrebbe fatto di nuovo. Vampo raccolse le ultime energie, stavolta erano proprio le ultime, e si diresse verso il mattatoio.

venerdì 4 febbraio 2011

DISUNITA' D'ITALIA


Ci siamo. È arrivato il momento di festeggiare i 150 anni dell’Unità d’Italia.
Ho avuto, per ragioni anagrafiche, la sventura (0 la fortuna?) di non aver potuto assistere all’altro anniversario, quello del secolo, tuttavia mi chiedo che cosa sia cambiato negli ultimi cinquant’anni e, soprattutto, che cosa sia mutato da quel fatidico 1861, quando si svolse l’atto finale delle astuzie sabaudo-cavouriane e dell’idealismo cinico di Mazzini. La risposta è: quasi nulla. Il processo di consolidamento che, con grande fatica, è stato portato avanti dalle classi dirigenti che si sono succedute e alternate non ha dato, in tutta onestà, i frutti sperati.
D’accordo, il paese, nel corso degli anni, ha subito innumerevoli trasformazioni. È passato da realtà in prevalenza agricola a grande potenza industriale, solo negli ultimi tempi decaduta, ma il livello di integrazione economico-sociale non ha accompagnato in maniera adeguata tale evoluzione. La forbice tra Nord e Sud, presente e vistosa già all’epoca dell'unificazione, è rimasta pressoché inalterata. Ma il vero problema è rappresentato dall’identità nazionale, elemento fondamentale percepito, al presente, come incerto e sfumato, conseguenza di un processo di aggregazione mal riuscito. Un’uniformità a lungo inseguita ma ostacolata e impedita dalla mancanza, nel popolo italiano, di un vero spirito nazionale, di un autentico senso dello stato, e di una scarsa e indefinita comprensione del concetto di dovere civico.
Ormai ci siamo, e quindi festeggiamo pure, poi si vedrà, ma è comunque legittimo e doveroso rivolgere una domanda. È ancora possibile porre rimedio a questa non entusiasmante condizione?
Anche in questo caso, è difficile rispondere ricorrendo all’ottimismo. Le profonde difformità esistenti tra le diverse realtà del paese (in particolar modo tra Nord e Sud) sembrano essere assai ardue da colmare, le prospettive appaiono pervase da incertezza e timori. Negli ultimi tempi alcuni osservatori osano finalmente introdurre una questione che, fino a pochi anni fa, era considerata proibita. Il destino della nostra nazione può essere quello della separazione? Si badi bene, separazione e non secessione, essendo quest’ultimo un termine utilizzato soltanto a scopi di bieca propaganda da parte di una formazione politica in prevalenza localistica e preda di spinte egoistiche, e quindi privo di un reale significato. La separazione, al contrario, è negoziata, concordata e non imposta unilateralmente.
Ampliamo gli orizzonti all’intera Europa, tralasciando volutamente le realtà nelle quali sussistono da tempo rivendicazioni autonomiste, come nel caso della Catalogna e dei Paesi Baschi. L’ultimo spauracchio è rappresentato dal Belgio, uno stato nel quale le pretese contrapposte di fiamminghi e francofoni hanno avuto una brusca accelerazione determinando così una grave paralisi a livello istituzionale (manca un governo da oltre sei mesi). Pure in questo caso ci troviamo di fronte a un Nord più ricco di risorse e a un Sud più povero, i contendenti tuttavia parlano lingue diverse anche se ciò non ha impedito la pacifica coesistenza dei due gruppi per più di centosettant’anni. E non dobbiamo scordare il caso dell’ex-Cecoslovacchia che, nel 1993, si è scissa dando origine a due nuovi stati, e il tutto è avvenuto senza grandi clamori e non lasciando in eredità particolari risentimenti. Cechi e slovacchi, anche loro, parlavano lingue diverse. Non è il nostro caso, direte.
La lingua. Può essere ritenuta, in una nazione, elemento essenziale e fondante, garanzia assoluta contro l’azione di spinte separatiste? Non più. Per tale motivo il nostro paese potrebbe, in ogni caso, subire in futuro turbolenze simili a quelle che hanno colpito, per ora con esiti differenti, gli stati menzionati a titolo esemplificativo. Nell’epoca attuale, globalizzata e sempre più interculturale, la prevalenza è rappresentata non più da un tipico elemento identitario quale può essere la lingua comune, ma dall’aspetto economico. L’azione della politica, nel nostro paese, dovrà pertanto essere concentrata soprattutto in campo economico-sociale se si vorrà tentare di impedire il crescere di pulsioni disgregatrici che porterebbero all’inevitabile separazione. È in grado di farlo? La nostra classe dirigente e i suoi mandanti, i cittadini, sono all’altezza di un tale impegnativo compito? Evidentemente no, e pastrocchi quali la famigerata riforma federalista non faranno altro che accelerare il processo di disgregazione in atto.
La fine è ormai nota.