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lunedì 15 aprile 2024

L' ULTIMA CARICA


 

Mezza lega, mezza lega

avanti, una mezza lega,

nella valle della Morte

cavalcarono tutti i seicento.

" Avanti la Brigata Leggera !

Avanti contro quei cannoni ! " disse.

Nella valle della Morte

cavalcarono i seicento...    (A. Tennyson)

La carica della brigata leggera (rievocata dalla nota poesia di Alfred Tennyson) fu un celebre episodio della storia militare britannica che si verificò il 25 ottobre 1854, durante la Guerra di Crimea, nella battaglia di Balaklava, e fu un'azione militare che divenne leggenda. La brigata di cavalleria leggera britannica, composta da circa seicento unità, stretta sui fianchi dalle truppe nemiche, caricò frontalmente una batteria di artiglieria russa.

Si trattò della più famosa azione di cavalleria di ogni tempo, nonché dell'ultima grande carica di cavalleria nella storia degli eserciti. L'ordine di attacco fu, con quasi certezza, l'esito di un malinteso tra ufficiali, o di uno sciagurato conflitto tra essi, oppure di entrambe le cose.

La valle in cui avvenne la carica, profonda più di un chilometro e mezzo, teatro di una inutile e tragica carneficina, divenne "la valle della morte", così come l'azione sconsiderata dei lancieri britannici fu ricordata come "la cavalcata infernale".

Dei 666 tra ufficiali e soldati che presero parte alla carica 271 furono uccisi o feriti. Ben 395 cavalcarono per l'intera valle sotto il fuoco dei cannoni russi, attaccarono e inseguirono la cavalleria russa schierata dietro i cannoni e poi ritornarono indietro incolumi, nonostante il nemico alle calcagna.

Tenendo conto della sconsideratezza dell'azione, la conclusione rappresentò quasi un miracolo.

Lo sdegno dell'opinione pubblica britannica per l'infelice errore fu alimentato non tanto dal numero dei caduti, ma dal tremendo sospetto che non sarebbe dovuto morire un solo soldato.

lunedì 8 aprile 2024

IL NOME


"Luci!"

"Tre, due, uno... via!"

Lo studio si illuminò e la diretta quotidiana del programma Fatti Curiosi ebbe inizio.

Il presentatore e il primo ospite furono inquadrati. Erano seduti su due enormi poltrone di colore rosso, uno di fronte all'altro.

"Cari telespettatori buongiorno" esordì con la consueta formula Nino Corradi, il canuto conduttore.

"Anche oggi avrò il piacere allietare il vostro pomeriggio presentandovi fatti, persone e situazioni insolite e bizzarre. È con noi un gentile signore, del quale per il momento non rivelerò il nome, e poi capirete il perché".

"Buongiorno, signore anonimo (ah! ah!)" salutò Corradi.

"Buongiorno" rispose serio l'ospite, un uomo di mezza età.

"Non ho rivelato il suo nome perché vorrei lo dicesse lei stesso, dal momento che è proprio del suo nome che parleremo. Del suo nome proprio. Ce lo vuole dire? Prego".

"Mi chiamo Dio Padre Onnipotente" disse l'ospite, con voce ben impostata.

"Possiamo conoscere anche il suo cognome?"

"Rossi" rispose l'altro.

"Un cognome decisamente più ordinario, rispetto al nome, che invece è molto impegnativo da portare (ah! ah!). Lei da più di cinquant'anni convive con tale nome che, per una persona comune, è piuttosto ingombrante. Come ha fatto?"

"È stato un incubo, fin da quando ero piccolo".

"La scuola, immagino. Come la chiamavano i suoi compagni?"

"Mi prendevano in giro, mi chiedevano di fare miracoli e cose del genere. Mi chiamavano Onni".

"E gli insegnanti?" chiese il presentatore.

"Tutti i miei compagni venivano chiamati per nome, mentre per me si usava sempre e soltanto il cognome. Mi sentivo diverso, escluso".

"Spesso i nomi propri vengono tramandati da una generazione all'altra. Come si chiamava suo padre?"

"Mario".

"Ah! E suo nonno?"

"Mario".

"Ah! E anche il suo bisnonno si chiamava alla stesso modo?"

"No, il suo nome era Pietro."

"Di chi fu l'idea di attribuire il nome Dio Padre Onnipotente?"

"Di mio padre".

"Sua madre era d'accordo?"

"Lei non contava nulla. Mio padre era un fanatico religioso, e in casa comandava lui".

"Lei, soprattutto in giovane età, era arrabbiato con suo padre a causa del nome attribuito?"

"Molto, lo avrei ucciso, ma poi non ce n'è stato bisogno perché è morto da solo".

"Ah! Ah! Spiritoso il signor Rossi!" esclamò Corradi, nervosamente. L'ospite rimase impassibile.

"Ascolti. Il prete, al momento del battesimo, non fece obiezioni? Il nome scelto non gli apparve un po'... irriverente?"

"In effetti fece un po' di storie, ma alla fine disse che era sempre meglio Dio Padre Onnipotente piuttosto che Kevin, Ridge o stronzate simili. Forse non disse proprio stronzate, ma così la raccontava mio padre. In televisione stronzate si può dire?".

"Sarebbe preferibile di no. E all'anagrafe? Possibile che l'ufficiale dello stato civile abbia acconsentito a registrare un nome così strano?"

"Era un ubriacone. Mio padre di sicuro gli allungò del denaro".

Corradi si irrigidì.

"Non possiamo fare questo genere di accuse, signor Rossi, anche se è passato molto tempo" disse.

L'altro non batté ciglio.

"Volevo ammazzare anche lui, ma quando mi decisi a farlo non riuscii a rintracciarlo. Il bastardo era andato in pensione e si era trasferito chissà dove".

"Signor Rossi! Dio Padre Onnipotente, si moderi!"

"È andata così" disse l'altro, stringendosi nelle spalle.

"Una curiosità" disse Corradi, cercando di ricondurre l'incontro su binari più consueti. "Lei ha dei figli, vero? Come la chiamano i suoi figli, se e quando la chiamano per nome?"

L'altro ci pensò un attimo.

"Di solito mi chiamano con il mio secondo nome, Padre..." disse, un po' perplesso.

"Mi permetta un'ultima domanda, signor Rossi. Lei credo sappia che la legge consente, in determinati casi, e il suo vi rientra eccome, di cambiare nome. Perché non lo ha mai fatto?"

L'uomo si grattò la testa.

"Ci ho pensato a lungo, prima di farlo, ma adesso finalmente mi sono deciso. La pratica è in corso".

"Ottimo!" esclamò il conduttore, con finto entusiasmo. Non vedeva l'ora di concludere quella strampalata ospitata. Già stava pensando al fatto curioso successivo.

"Può dire a me a agli spettatori quale nuovo nome ha scelto?"

"Qualcosa di più semplice. Gesù".

martedì 2 aprile 2024

TOGLIERE

Togliere, a un certo punto della sua vita ritenne che fosse arrivato il momento di togliere.

Così come lo scultore asporta con pazienza piccole parti di marmo o di legno per fare emergere una figura, così come il pittore elimina, poco alla volta, gli spazi bianchi dalla tela e li riempie di colori, anche lui pensò di dover rinunciare a minute porzioni di se stesso, per fare affiorare la sua vera e intima essenza di essere umano.

Il processo di privazione fu molto lento e infinitamente lungo. Decise di iniziare dalle cose più insignificanti, in apparenza prive di valore. Minuscoli oggetti, dei quali imparò ben presto a fare a meno.

Da tanti anni portava, appesa al collo, una catenina d’oro. L’aveva indossata la prima volta quando era ancora un bambino. La sfilò, e non la mise mai più. Poi fu la volta degli anelli. Le dita non hanno bisogno di ornamenti, possono esprimere la loro nobiltà anche stando nude. Per una ragione che, sul momento, non seppe spiegare, tenne soltanto un impalpabile braccialetto di corda, umile e unico addobbo a circondare il suo polso sottile.

Chiuse in un cassetto il suo prezioso orologio, e subito si sentì più leggero. Non per il sollievo dovuto al minore peso, ma perché provò conforto nell'anima. Non avrebbe più lottato contro il tempo, entità crudele, temibile avversario in una interminabile battaglia che da sempre aveva saputo essere persa.

Si concentrò sui suoi gesti, sui suoi movimenti. Imparò a muoversi in assoluta economia, quasi scivolando, senza dissipare le energie, distribuendo al meglio le forze. Eliminò quasi tutto. Non si spostava, semplicemente si materializzava da un luogo all'altro. Almeno, questa era la sua impressione. E quella degli altri, che dopo un po’ non si meravigliarono più per tale inusuale capacità.

Alla fine si dedicò alle parole. Da sempre aveva considerato quanto le parole fossero importanti ma, allo stesso tempo, pensava anche che fossero sempre troppe. Un impiego eccessivo, un consumo immotivato, che aveva svuotato le parole del loro contenuto, del loro vero significato. Erano diventate leggere, senza spessore. Imparò, sebbene con fatica, ad utilizzarne poche, ma tutte pesanti. Parlava soltanto quando aveva qualcosa da dire di davvero importante, di significativo. Si rese conto che poteva stare anche per interi giorni senza aprire bocca. Piuttosto che pronunciare parole vuote preferiva ascoltare. In tal modo apprese molto. Scartò il superfluo, ciò che non era necessario, e si accorse che rimaneva ancora molto.

Togliere, aveva deciso di togliere. E l’aveva fatto.

Che cosa era rimasto di lui? In verità non lo sapeva, però era certo, a quel punto, di essere pronto.

Era ormai pronto per qualsiasi cosa.

mercoledì 27 marzo 2024

IL SOGNO DI ABRAHAM (Seconda e ultima parte)


Una ragazza si lanciò su di lui, che era rimasto fermo sul marciapiede. Lo abbracciò, in preda a un incontrollabile terrore. I suoi occhi erano spalancati, e tremava. Abraham, non sapendo che cosa fare, la strinse a sé, nel tentativo di calmarla. Sentì le unghie della giovane sulla sua schiena attraverso la stoffa del giubbotto. E di nuovo l’ululato delle sirene, sempre più forte. Si staccò dalla ragazza, che lo guardò senza dire una parola, poi la prese per mano e la costrinse a correre. “Vieni con me” disse il ragazzo. Lei ubbidì, arrendevole. Giunsero in prossimità dell’Hahovevim Garden e, sempre tenendosi per mano entrarono nel parco, dove si era già rifugiata altra gente. “I rifugi, saranno aperti i rifugi?” domandò un pallido quarantenne prima di raggomitolarsi accanto a un grosso cespuglio. Abraham costrinse la ragazza a gettarsi a terra, poi si adagiò su di lei, allo scopo di proteggerla con il proprio corpo. Seguì un lungo, interminabile istante di silenzio quasi assoluto prima che si percepisse un acuto sibilo, e subito dopo ci fu una violenta deflagrazione. “Un missile” disse Abraham, rivolgendosi quasi a se stesso. E poi un altro scoppio, più soffocato, più lontano. “Questo è finito in mare” aggiunse il ragazzo. Ancora le sirene, ma questa volta il suono era diverso. Cessato allarme, dicevano. I due giovani si rialzarono. I loro abiti si erano sporcati, perché l’erba era umida, ma loro non vi badarono. Adesso che era ritornata la calma, Abraham osservò con attenzione la sua occasionale compagna. Notò che la ragazza era molto giovane, e piuttosto graziosa. Aveva i capelli neri e corti, tagliati a caschetto. La pelle del suo viso era bruna, così come i suoi occhi. “Mi chiamo Abraham” disse, rivolto a lei. “E io sono Leah. Ti chiedo scusa per il mio comportamento di poco fa, ma avevo davvero paura” rispose la ragazza. La sua espressione non esprimeva più sorpresa e timore, come qualche istante prima, bensì crescente indignazione. “Nessun problema, ormai è tutto finito. Per ora, almeno.” “Hanno attaccato Tel Aviv! Incredibile!” “Non è la prima volta, e temo che non sarà neppure l’ultima.” “Vuoi dire che era già accaduto?” domandò Leah. “Certo, non ti ricordi? No, in effetti non puoi ricordare, perché di sicuro non eri ancora nata. È successo più di vent’anni fa, io ero un ragazzino ma ne conservo chiara memoria. Fu quella volta quando aiutai i miei genitori a rivestire i vetri delle finestre con il nastro adesivo. Per me si trattò quasi di un divertimento. I continui allarmi non mi facevano paura. Sai, era come una specie di gioco. L’unica cosa che davvero mi inquietava era la maschera antigas, che i miei mi costringevano sempre a indossare anche quando non ne esisteva un reale bisogno. Mi sembrava di vivere in mezzo a tanti grossi insetti, e provavo un senso di soffocamento che mi atterriva. Non vedevo l’ora di toglierla e di tornare a respirare normalmente.” “I missili Scud!” esclamò Leah. Abraham sorrise. “Già, proprio loro. E avevo pure molta paura di quel pazzo di Saddam Hussein. A tutte le ore della giornata il suo faccione feroce, con quei grossi baffi neri, compariva in televisione. Non guardavo più i miei programmi preferiti, nel timore che all’improvviso sullo schermo spuntasse lui.” “È per questo che prima non hai perso il sangue freddo?” domandò la ragazza. “Può essere, ma anche per altre vicende che ho vissuto. Sono stato in Libano, qualche anno fa.” “In guerra?” “Sì.” “Allora sei un militare?” “In verità sono un impiegato di banca, però faccio parte della riserva, come sottufficiale.” “Ah!” Abraham distolse le sguardo dagli occhi scuri e penetranti di Leah. Lo diresse verso il cielo, che era grigio. “Sai, sono stato richiamato proprio oggi. Domani parto.” “No!” “E invece purtroppo sì. Qualcuno lo dovrà pur difendere questo disgraziato paese, no?” disse il ragazzo, quasi divertito. Lei annuì, seria. “Ehi! Che ne dici se andassimo a prendere un caffè? Credo che ne abbiamo entrambi bisogno” propose Abraham. “Tutti i locali saranno chiusi!” “Stai scherzando? Il nostro popolo non si abbatte di certo per un paio di missili!” “Dici?” “Su, vieni” disse lui, riprendendola per mano. Camminarono per un paio di isolati, poi entrarono in un caffè, che naturalmente era aperto. Come previsto da Abraham, la vita aveva già ripreso a scorrere in modo regolare per gli abitanti di Tel Aviv. Le strade erano tornate a riempirsi di frettolosi passanti, il traffico era di nuovo intenso. I due giovani presero posto a un minuscolo tavolo situato in un angolo del locale. Dalla parte opposta alla loro un vecchio, che indossava una kippah bianca e azzurra, era intento a intrattenere altri anziani, gente semplice e remissiva, urlando invettive. “Quelli ci vogliono annientare! Distruggere! Se avessi vent’anni avrei già imbracciato il fucile. E invece i nostri giovani se ne stanno qui tranquilli, e pensano soltanto a bere e a fottere!” Le ultime parole erano state pronunciate volgendo lo sguardo proprio in direzione di Abraham e Leah. Il ragazzo stava per reagire. Lei gli appoggiò una mano sull’avambraccio, e questo fu sufficiente a calmarlo. “Sai che cosa diceva mio nonno?” domandò allora Abraham. Lei scosse il capo. “Diceva che a Gerusalemme si prega, ad Haifa si lavora e che a Tel Aviv ci si diverte. Pare sia un luogo comune piuttosto diffuso, il fatto è che da domani io non mi divertirò affatto…” “Lascia perdere, Abraham. Quel vecchio è pieno di rabbia.” “O di paura?” rispose il ragazzo, mentre un giovane cameriere portava loro i caffè. Mentre sorseggiavano la bevanda, Abraham raccontò a Leah il sogno che aveva fatto e che lo aveva tanto turbato. “Quale sarà il suo significato, secondo te?” Lei si strinse nelle spalle, e sembrò ancora più minuta. “Non lo so. In ogni caso è soltanto un sogno” rispose. “Potrebbe essere una sorta di premonizione? Qualcosa che ha a che fare con la guerra?” chiese lui. Leah lo guardò, un po’ stranita. “Scusa, di quale guerra stai parlando?” domandò. “Ehi! Non ti ricordi più? Domani dovrò presentarmi…” Lei lo interruppe. “Tu sei un militare, o quasi, quindi correggimi se sbaglio. Le guerre non consistono in due eserciti che si fronteggiano? Dov’è l’esercito nemico? Contro chi combattiamo, insomma?” “Aspetta…”  “Rispondi alla mia domanda, per favore.” “Hai ragione, spesso ci tocca combattere contro dei fantasmi. E le vittime, dalla loro parte, sono quasi sempre degli innocenti. Non del tutto incolpevoli, perché l’odio nei nostri confronti è notevole, ma si tratta pur sempre di innocenti.” “Soprattutto i bambini…” “Già” ammise Abraham. “In ogni caso Tsahal fa di tutto per limitare i danni… collaterali. Tra i civili, cioè…” “Tsahal!” esclamò Leah, in tono quasi sprezzante. “Tsahal è come un elefante che si muove in una cristalleria! Appena si sposta di un passo provoca disastri.” “Hai ragione, tuttavia non scordarti che anche il più grosso degli elefanti può essere abbattuto da un pugno di cacciatori.” “Abraham…” “Uh?” “Ti chiedo scusa.” “Per quale motivo?” “Mezz’ora fa ero una ragazzina tremante mentre adesso sto sputando sentenze, e scordo che domani tu andrai in guerra.” “In gran parte la penso come te, ma non ho scelta. Se cediamo per noi è finita, se invece ci difendiamo quasi l’intero mondo ci bollerà come assassini. Purtroppo non ci possiamo permettere mezze misure, dobbiamo dimostrare a tutti, ma soprattutto a noi stessi, che siamo forti, molto forti, e che non abbiamo alcuna paura. E lo dobbiamo fare di continuo. Questa è la nostra dannazione, è quello che siamo costretti a sopportare in cambio della nostra esistenza.” “Avrà mai fine tutto questo?” chiese Leah. “Vuoi davvero la mia opinione? Desideri che sia sincero fino in fondo? No, tutto ciò non finirà mai. L’odio troverà sempre il suo alimento, e questa folle guerra che, come dici tu, vera guerra non è, sarà proseguita dai nostri figli, e poi dai figli dei nostri figli…” Leah chinò il capo, affranta. Quindi prese un tovagliolo di carta, sul quale annotò il proprio numero di telefono, prima di darlo ad Abraham. “Quando tornerai, se vuoi chiamami” disse con un filo di voce, gli occhi lucidi. “Lo farò, Leah. Lo farò” rispose il ragazzo. Poi i due giovani si alzarono e uscirono dal locale. Si salutarono con una stretta di mano e ognuno riprese la sua strada. Il vecchio con la kippah bianca e azzurra stava ancora gridando, sempre più infervorato.

…poi vedo in cielo una palla di fuoco che si ingrandisce sempre di più, fino a diventare enorme, smisurata, e che corre impazzita contro di me…

(Fine)

lunedì 25 marzo 2024

IL SOGNO DI ABRAHAM (Prima parte)


Scendo le scale lentamente e guardo le pareti, cerco di distinguere nelle crepe dell’intonaco le familiari figure del leone, del delfino e della giraffa. Ma oggi non riesco a scorgerle. Vedo al loro posto altre sagome, che mi mettono i brividi. Lassù un aereo da combattimento, più in basso un carro armato. E qui, proprio vicino alla mia spalla, la forma allungata di un missile. Sopraffatto da un pesante senso di inquietudine distolgo lo sguardo, accelero il passo ed esco in strada. Ma il marciapiede non c’è, e non c’è nient’altro. Non ci sono gli alti palazzi, e neppure automobili, né i soliti passanti frettolosi del primo mattino. C’è soltanto sabbia, tutto intorno a me. E silenzio, un angosciante silenzio. I miei piedi affondano fino al polpaccio, i miei occhi sono abbagliati da una luce intensa, quasi bianca. Provo a spostarmi, ad andare verso il mare, ma le mie gambe sono ormai bloccate in una morsa di fine polvere dorata. Mi volto, in preda al terrore, e vedo che anche la mia casa ora non c’è più. Dove prima sorgeva l’edificio, adesso c’è soltanto sabbia. Una immensa distesa di polvere che sembra non avere fine. Poi…

Il risveglio fu brusco. Abraham attese che il cuore in tumulto smettesse di martellargli il petto, poi scostò la coperta e si alzò. Nella stanza faceva freddo, e rabbrividì. Niente doccia, decise. Andò in bagno, si sciacquò il viso e si rasò con cura. Quindi si vestì. Mentre ispezionava la borsa per verificare che tutti i documenti fossero al loro posto squillò il telefono. Con un po’ di apprensione raggiunse l’apparecchio, posto nel piccolo ingresso dell’appartamento, e sollevò la cornetta. Ascoltò a lungo, senza mai parlare. “D’accordo, ho capito. È tutto chiaro” disse infine, prima di riattaccare. Poi si sedette. Dopo alcuni minuti tornò nella stanza da letto, si tolse l’abito e indossò dei jeans e una maglietta. Quel giorno non sarebbe andato al lavoro, e neppure in quelli successivi. Si spostò in cucina, scaldò del latte al quale aggiunse una manciata di corn-flakes. Travasò il tutto in una tazza e mangiò camminando. Fumò due sigarette, una dietro l’altra, quindi consultò l’orologio e decise che poteva chiamare in ufficio. Il suo collega Amos di sicuro era già sistemato dietro la scrivania. Era sempre il primo ad arrivare. E infatti rispose subito, già dopo il primo squillo. Abraham gli fornì una succinta spiegazione, poi lo pregò di occuparsi di una pratica che stava seguendo e alla quale teneva molto. “Non ti preoccupare, ci penso io” lo rassicurò il collega e amico. “Grazie, Amos.” “Comunque me lo sentivo” aggiunse l’altro. “Eh? Che cosa?” domandò Abraham. “Che ti avrebbero chiamato. Non possono proprio fare a meno di te.” “Non dire sciocchezze. Poteva accadere oppure no. Be’… è capitato.” Amos sogghignò. “Già! Il fatto è che a te capita sempre!” esclamò, divertito. “Guarda che prima o poi potrebbe toccare anche a te.” “Figurati! Con il mio piede! E poi, se proprio così fosse, vorrebbe dire che il nostro paese si troverebbe in una condizione di grave pericolo. Che sarebbe la sua fine, insomma.” “Quante stronzate dici! Ti saluto, mio caro.” “D’accordo. Mi raccomando, appena puoi fatti sentire.” “Va bene, prima o poi lo farò.” Abraham pose così termine alla conversazione. Si sentiva nervoso, eccitato, non riusciva a stare fermo. Fumò con ingordigia altre due sigarette. Dal momento che disponeva di un intero giorno libero decise di fare una passeggiata, per calmare un po’ i nervi, per tentare di rilassarsi. Il camminare a lungo, senza una meta precisa, tra le strade trafficate della sua città, rappresentava per lui sempre un ottimo sistema per allentare la tensione. E in quel momento ne sentiva proprio la necessità. Prima di uscire, tuttavia, ritornò nella stanza da letto e aprì l’armadio. Il suo sguardo si fissò sulla divisa militare. Era lavata e stirata, in perfetto ordine. L’aveva indossata per l’ultima volta soltanto qualche mese prima, quando aveva preso parte a un’esercitazione, una delle tante. In basso c’era il grosso zaino, fabbricato con robusto tessuto mimetico. Controllò con cura anche quello. Tutto a posto. Soddisfatto, richiuse l’armadio e si diresse verso il ripostiglio. In un angolo scorse la sagoma minacciosa ma a suo modo rassicurante del fucile d’assalto M4 dal quale proveniva un pungente odore di olio lubrificante, e le cui esalazioni avevano del tutto impregnato il minuscolo ambiente. Rassicurato, Abraham afferrò un pesante giubbotto e le chiavi di casa e finalmente si apprestò a lasciare l’appartamento. Proprio allora squillò di nuovo il telefono. Sbuffando, il ragazzo tornò sui suoi passi e si avvicinò all’apparecchio. Prima di rispondere guardò il display. Era sua madre. Quella donna apprensiva, come tutte le madri ebree d’altronde, trascorreva l’intera giornata di fronte al televisore a sorbirsi un notiziario dopo l’altro. Di sicuro era molto preoccupata, e il suo istinto le aveva suggerito di fare quella chiamata al figlio. Lui però non sollevò il microfono. L’avrebbe cercata l’indomani, decise, appena fosse giunto in caserma. Abraham chiuse l’uscio dietro di sé e si precipitò giù per le scale, di corsa, senza degnare di una sola occhiata le pareti che scorrevano veloci ai suoi lati, come invece faceva ogni giorno. Il ricordo del brutto sogno era ancora troppo vivido nella sua mente, e non era proprio il caso di richiamarlo. Uscì in strada e iniziò a camminare, con le mani in tasca, fischiettando il ritornello di un motivetto arabo che le radio trasmettevano in continuazione. Stava percorrendo Ben Yehuda Street, con il mare alla sua sinistra, quando udì le sirene. Si bloccò. Intorno a lui la gente iniziò a correre. Qualcuno gridava, altri si scambiavano sguardi carichi di angoscia e di incredulità. Il suono lancinante dell’allarme penetrava i timpani, accresceva la paura delle persone.  

                                                                                                                                (Continua)

mercoledì 20 marzo 2024

L'OSPITE


 

Entrai nel cortile e parcheggiai l'auto. Il terreno era ricoperto di foglie secche, che nessuno aveva raccolto. Erbacce erano spuntate ovunque, e prosperavano rigogliose. C'era aria di abbandono, e il cielo grigio rendeva tutto ancora più malinconico.

Scendemmo dalla macchina.

"Ti sei ricordato le chiavi?" domandò mia sorella Anna.

"Certo" risposi, e gliele mostrai. Le avevo appena estratte dalla tasca.

Erano trascorsi più di due anni da quando nostra madre era venuta a mancare. Nostra madre, che da tanto tempo viveva da sola in quella grande casa. Da allora né io né mia sorella avevamo avuto il coraggio di prendere qualsiasi decisione riguardo la sua abitazione. Non avevamo toccato praticamente nulla. Negli ultimi tempi era maturata in noi la consapevolezza che la risoluzione migliore fosse quella di vendere l'edificio. Nessuno di noi due aveva intenzione di trasferirsi e di abitarci e, in segno di rispetto nei confronti di nostra madre, che quella casetta aveva sempre curato con dedizione e amore, non volevamo che il nido dove eravamo nati e avevamo vissuto per tanti anni cadesse in rovina.

Anna mi tolse le chiavi dalla mano e si diresse verso la porta di ingresso.

"Marco!"

"Eh?"

"Non era chiusa!"

La raggiunsi.

"In che senso non era chiusa?" domandai.

"Non erano stati dati i giri di chiave".

Sollevai le spalle.

"L'altra volta ce ne saremo dimenticati". L'ultima visita risaliva a un paio di mesi dopo il decesso di nostra madre. Eravamo ancora molto turbati, possibile che fossimo stati disattenti.

Varcammo la soglia e subito notai un'altra distrazione. Avevamo lasciato il contatore inserito. Mia sorella non ci fece caso nulla, accesi le luci e ci inoltrammo in soggiorno.

"Che strano odore" disse Anna, annusando l'aria.

"È odore di chiuso" risposi, anche se mia sorella aveva ragione. Si percepiva una puzza strana, difficile da definire.

Spalancai un paio di finestre.

"Ecco fatto" dissi. "Tra un po' andrà meglio".

Vidi mia sorella dirigersi in cucina.

"Marco!"

"Che cosa c'è?"

"Vieni, per favore".

Sospirai, poi la raggiunsi.

"Guarda, il frigorifero è chiuso. Non lo avevamo lasciato aperto?"

"Non ricordo" dissi, mentre Anna apriva lo sportello del frigo.

"C'è qualcosa dentro. Non lo avevamo svuotato?"

Iniziavo a spazientirmi.

"Anna, non ti ricordi in che condizioni eravamo l'ultima volta che siamo stati qui? Eravamo distrutti dal dolore, poco lucidi, quindi non ricordo cosa abbiamo o cosa non abbiamo fatto. Cerca di rilassarti, per favore".

"Ma questa è una cosa strana". Anna stava indicando il contenuto del frigorifero. Un piccolo cubo, di colore grigio, circa cinque centimetri di lato.

"Sarà una confezione di qualcosa andato a male. Sembra ricoperta di muffa. Lascia stare e chiudi. Prima di andare via la butteremo".

Ma mia sorella si era già allontanata. Si trovava vicino al divano, dove raccolse dai cuscini un pezzo di stoffa, forse un plaid. Ero certo che quella coperta, se davvero si trattava di una coperta, non fosse appartenuta a nostra madre. Anna la teneva tra le mani e la guardava, affascinata. La stoffa cambiava continuamente colore, assumendo a volte tonalità che, lo posso giurare, non avevo mai visto. Distolsi lo sguardo, proprio mentre mia sorella, pensando di non essere vista, nascondeva il presunto plaid sotto i cuscini del divano.

"Anna, vado a dare un'occhiata di sopra. Vieni anche tu?"

"No" rispose lei. "Non me la sento ancora di rivedere la stanza dove è morta mamma". Era molto pallida, sembrava spaventata.

"Farò in fretta" dissi, poi mi avventai sulla scala interna.

Al piano superiore c'erano due camere e un minuscolo bagno. Entrai nella prima stanza, che mia madre usava come ripostiglio. Era piena zeppa di oggetti e di scatoloni, ma sembrava tutto in ordine. Anche la camera da letto, in un primo momento, appariva a posto, finché non notai, ai piedi del letto, una strana valigia. Più che altro si trattava di un borsone. Aveva un aspetto metallico, ma quando lo toccai era molto morbido. Sembrava pieno. Armeggiai un po' sulla strana chiusura e finalmente riuscii ad aprilo. Guardando il suo interno, si aveva l'impressione che le dimensioni fossero smisurate. Come se contenesse un intero ambiente. Vidi oggetti con fogge sconosciute, tessuti che potevano essere vestiti, anche se non ne ero certo, cose di grande mole che sembravano essere mobili.

Attonito, quasi stordito da quanto avevo appena visto, chiusi in fretta il borsone e mi sedetti sul letto. Impiegai qualche minuto a riprendermi, e decisi di andarmene al più presto. In quella casa era accaduto qualcosa, ma non avevo nessuna intenzione di scoprire che cosa. Mi alzai in piedi e raggiunsi la porta, ma per un istante i miei occhi notarono qualcosa di anomalo. Tornai indietro e osservai il comò. Sul suo piano c'era un ritratto di mio padre. Accanto c'era un'altra fotografia, quella dei miei nonni materni. C'era però anche una terza immagine, un ritratto che non c'era mai stato prima, che di sicuro non c'era quando mia madre era morta. Per prima cosa mi soffermai sulla cornice. Sembrava esserci e non esserci. I suoi bordi erano sfumati, incerti. L'immagine al suo interno, invece, era molto nitida. Era un volto, non c'era alcun dubbio, ma non si trattava di un volto umano. Non era molto diverso dal mio, da quello di mia sorella, o di quello di qualsiasi altra persona, ma il mio cervello mi comunicava con certezza che quel viso era estraneo, molto più alieno di un muso di un cane o di un gatto, non aveva nulla da spartire con la nostra specie. Trattenni un grido, poi mi precipitai giù per la scala.

"Anna, hai finito?" dissi a mia sorella, cercando di nascondere lo sgomento. "Dobbiamo andare".

Lei mi bloccò, afferrandomi per le spalle.

"Marco, sai una cosa?" disse, con un filo di voce. "Ho l'impressione che qui ci sia stato qualcuno".

"Che dici?"

"Forse un senzatetto, non so..."

"Ma no, non c'è stato nessuno. Si è fatto tardi..."

"Ma non dovevamo..." tentò di dire Anna.

"La prossima volta" la interruppi, sempre più agitato. "Lo faremo la prossima volta. E poi credo di avere cambiato idea. Non ho più intenzione di vendere la casa. È meglio continuare a tenerla. Che ne dici?"

"Sono d'accordo con te" disse Anna.

 

venerdì 15 marzo 2024

LA PIAZZA (6 - fine)


 

Teng-teng-teng.

Fino a un attimo prima Antonio, il giornalista, stava cantando, insieme al suo amico Giuliano e agli operai delle Officine Meccaniche Reggiane, tutti raccolti davanti al monumento ai Caduti.

Teng-teng-teng.

I proiettili frantumano le fronde degli alberi, le fanno ricadere dal cielo come coriandoli. Antonio ripone nella custodia la macchina fotografica e guarda Giuliano: nei suoi occhi coglie stupore e smarrimento. La piazza adesso è invasa dal fumo, si sentono grida di terrore e il rumore degli automezzi della polizia che iniziano i loro caroselli. Un'autobotte cerca di disperdere la folla con gli idranti. I due amici scappano e si dirigono verso l'isolato San Rocco, nei pressi del quale c'è un cantiere. Lì si trovano già altri manifestanti che stanno raccogliendo assi di legno e sassi. Altri ancora, poco distanti, stanno scagliando le seggiole prelevate dalle distese dei bar della piazza verso alcuni poliziotti. Giuliano vede che l'autobotte della polizia è circondata dalla folla e non riesce più ad avanzare. Un agente scende dal mezzo e si inginocchia a terra, prende la mira e spara in direzione dei giardini, ad altezza d'uomo. Antonio e Giuliano decidono di cercare un riparo. Fuggono verso la chiesa di San Francesco, verso le Poste. I due amici corrono, trafelati. A un tratto si imbattono nel corpo steso a terra di un manifestante. Il giornalista quasi vi inciampa. Alla fine raggiungono la sede del Gaf, il Gruppo Artigiani Fotografi, ed entrano, assieme ad altri, nell'edificio. Nell'ingresso Antonio scorge un telefono, decide di chiamare a casa, allo scopo di tranquillizzare la madre. “Come? Sei dentro? Ti hanno di nuovo arrestato?” La donna non capisce. Antonio, sempre più agitato, riattacca. Spiegherà più tardi, quando rientrerà a casa. Con Giuliano sale al primo piano. I due si affacciano da un piccolo terrazzo. Nella piazza regna una tremenda confusione. Urla disperate, e gli spari che non si placano. Proprio sotto di loro vedono un capannello di gente attorno al corpo senza vita di quello che sembra un ragazzo. Antonio, ubbidendo a un riflesso condizionato, impugna la macchina fotografica. Ma le sue mani sono scosse da un tremito irrefrenabile, la sua vista è appannata. Fulgenzio Codeluppi, un amico, anche lui sul terrazzo, comprende il dramma e gli strappa l'apparecchio dalle dita. Scatta lui la foto. Poi tutti escono di nuovo fuori. La voce proveniente da un altoparlante invita a lasciare la piazza, ripete senza sosta che la manifestazione è finita. Nessuno sembra badare a quell'appello. Qualcuno incita alle barricate, tutti sono concordi nel non abbandonare la piazza fino a quando la polizia non avrà fatto altrettanto. E cosi è. Più tardi Antonio e Giuliano decidono di recarsi all'ospedale, per avere notizie dei feriti, che devono essere tanti. Davanti al nosocomio la confusione è pazzesca. È quasi impossibile entrare nell'edificio, presidiato dalla polizia in assetto di guerra. I due amici ben presto si perdono di vista. Giuliano raggiunge la sede della Croce Verde, convince gli infermieri a caricarlo su un'ambulanza e in tal modo riesce a entrare. Antonio dapprima prova a persuadere gli agenti di guardia esibendo il suo pseudo-tesserino da giornalista, ma il suo tentativo si rivela vano. Alla fine, tuttavia, riesce a penetrare nell'ospedale in maniera fortunosa, approfittando del gran disordine, attraverso un'uscita secondaria. All'interno, ciò che vedono i due giovani è terrificante: feriti ammucchiati ai morti, corpi lacerati, irriconoscibili, ammassati uno sull'altro. Antonio, con le mani ancora tremanti, fa il segno della croce. Proprio lui, che credente non è mai stato.

I fatti narrati nel mio libro del 2012 "Sangue del nostro sangue" sono realmente avvenuti a Reggio Emilia nel 1960 (i sei post corrispondono all'ultimo capitolo del libro). Ricordo che si tratta di un evento accaduto in uno stato democratico. Il governo del tempo era un monocolore DC con appoggio esterno del MSI. Le vittime innocenti furono cinque, mentre ventuno furono i feriti da colpi di arma da fuoco. Tra le forze dell'ordine i contusi furono cinque. Il vicequestore fu assolto con formula piena e nessun altro fu condannato per l'eccidio. (N.d.A.)